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lunedì 27 settembre 2021

L'Appennino sotto casa come un altro continente


Che poi si tratta di un'idea semplice se ci pensi: fare di un piccolo cammino un viaggio vero e proprio. 

Un'idea semplice, però poi hai bisogno di quella mattina in cui ti chiudi la porta di casa alle spalle e chiedi alle gambe di fare il loro lavoro, alla testa pure, perché non dia più niente per scontato. Anche se i luoghi sono gli stessi di sempre, gli stessi di villeggiature, gite fuori porta, cene tra amici. Così conosciuti, ancora così da conoscere: perché il cammino è questo che fa, ci assicura il mistero dei luoghi già frequentati, ci spiazza col dono della sorpresa: poco importa se ti sei fermato a Roncobilaccio.

Ecco, è un'idea semplice, ma Alessandro Vanoli sa restituircela col fascino dell'esplorazione di un luogo remoto, con l'affabulazione che solitamente è l'incanto di chi ritorna da altri continenti, da geografie incerte e mete imporbabili  (lui però è uno che questo incanto saprebbe suscitarlo anche per due passi sul pianerottolo del condominio). 

Pietre d'Appennino (Ponte alle Grazie) narra un suo itinerario per le montagne che sono anche le mie montagne, solo che apparteniamo a versanti diversi, lui emiliano, io toscano (ma queste montagne, si sa, uniscono tanto quanto separano): e incredibile quanto ci porti lontano questo viaggio sotto casa.

Pietre d'appenino: e le pietre, si sa, raccontano storie se presti loro voce, se coltivi la curiosità, se sai che il senso del viaggio, come ci dice Alessandro, è ricordare, ritrovare tracce e segni

Cammini e nel cammino ritrovi i cammini di millenni: pellegrini, mercanti, soldati, banditi. Cammini e recuperi ciò ciò che è stato, ciò che forsa sarà: perché non ci si pensa spesso, ma si fa Storia anche camminando.


 

 

 

martedì 6 agosto 2019

In cammino per ritrovare il pittore dell'Appennino

Ci sono sentieri che non si limitano a oltrepassare un crinale, ci sono passi che non puntano solo verso una località segnata sulle carte. Soprattutto in certi cammini si va avanti anche per misurare la profondità del tempo, a volte addirittura per inseguire quanto di una vita trascorsa ancora rimane. Quello che ci ci racconta Oreste Verrini in Madri (Fusta editore), il suo ultimo libro, è senz'altro uno di questi cammini.

E dunque, prima di tutto c'è un viaggio a piedi lungo una settimana - la più strana della mia vita preannuncia Oreste già nelle prime righe - un viaggio sull'Appenino meno conosciuto e frequentato Tra Emilia e Toscana. C'è una montagna bella e ruvida, con i suoi toponimi che messi in fila sembrano una preghiera in una lingua di misteri, una montagna che è una trapunta di storie sospese tra passato e presente. Ma soprattutto c'è un pittore che arriva da un altro secolo, da quel Quattrocento in cui l'arte italiana ha riemptto cataloghi e pinacoteche del mondo intero.

Si chiama Pietro da Talada, non è tra i grandi che hanno lasciato un segno vistoso, è già molto che il suo nome si sia sottratto all'oblio. Lavorava per chiese di paese, non per il Papa a Roma o per i signori di Firenze e Milano. Eppure anche lui possedeva il dono della bellezza e ce l'ha donata a sua volta, lasciandocene testimonianza in luoghi che non raggiungono le comitive dei turisti.


E' questa la vita che Oreste insegue con i suoi passi, quest'uomo che come oggi Oreste allora si spostava da un versante all'altro dell'Appennino, là dove poteva sfamarsi con la sua arte. Appennino Tosco-Emiliano, qualche decennio prima della scoperta dell'America: e mi sembra una storia da romanzo russo, capace di esprimere l'anima di un popolo attraverso le vicende di uno di quei monaci che affrescavano le pareti dei monasteri in tempi difficili.

Le Madonne di Pietro da Talada parlano ancora al cuore: e meritano il cammino di un uomo dei nostri giorni. Meritano un libro con cui condividere il miracolo del cammino e della bellezza.



domenica 28 luglio 2019

Marisa e il romanzo che ci riporta sull'Appennino

E dunque, da dove cominciare? Forse dai tre anziani fratelli che nel giro di pochi mesi scompaiono uno dopo l'altro, tanto da destare il mormorio della gente, perché uno va bene, due anche, ma tre non può essere più un caso. Oppure dalla figura di Saverio, giornalista come credo di aver conosciuto in diverse redazioni locali, spezzatino di talento, di amore per la professione e disillusione, se non altro lui prova a esorcizzare la routine di una vita con le complicazioni - e quali complicazioni - dei sentimenti. O forse, ancora, da un intero paese dell'Appennino tosco-emiliano, con le sue storie sedimentate nel tempo, le memorie che non sono mai univoche, gli intrecci di interessi e relazioni, il fluire incessante di pettegolezzi, confidenze, illazioni. 

Non so bene da dove cominciare, per parlarvi de L'ultimo dei Santi di Marisa Salabelle, e credo che questo sia già un buon inizio, vuol dire richiamare la ricchezza del libro, con i suoi molteplici spunti e possibili piani di lettura. Un giallo, sì, certamente: ma un libro, un bel libro, soffre se chiuso dentro una definizione di genere. 

Ne L'ultimo dei Santi ci sono misteri, investigatori, indagini, una trama che si scioglierà in modo imprevedibile. Però non è un caso che sia stato scelto per aprire la collana Appenninica, curata dal sottoscritto e da Marino Magliani per la casa editrice Tarka.

Perché dentro ci sono i colori e gli odori dell'Appennino, perché dell'Appennino c'è la gente, perché persino il paese di Tetti, per chi frequenta i posti, diciamo, tra Pistoia e Porretta Terme, è posto che esiste e si riconosce. Perché Marisa ci racconta cos'è stata questa montagna non troppo tempo fa, ancora nel secondo dopoguerra, e cosa è oggi: sempre più marginale, abbandonata, incerta sul suo futuro. 

Ma chissà, forse sarà anche grazie a libri come questi, buone storie per buone penne, che riusciremo a immaginarci un futuro per la nostra montagna. 

lunedì 28 gennaio 2019

In Svizzera il detective che usa i mezzi pubblici

"Un detective che usa i mezzi pubblici." Francesca sorrise con dolcezza. "Che cosa c'è di più autenticamente elvetico?"

Elia Contini non è un mostro di empatia e come investigatore privato è piuttosto improbabile. Del resto non sembra che sia una professione con molte opportunità nella quieta e ordinata Svizzera. Contini, poi, è un uomo svagato, distratto, a disagio con le tecnologie che oggi sono imprescindibili. Ama starsene per i fatti suoi: e questo, in effetti,  è anche di altri investigatori. Però la sua principale qualità è la pazienza: annota i dettagli, ragiona adagio, adopera la lentezza.  Ci sta bene, in una storia svizzera che è anche una storia di montagna.

Elia Contini l'ho scoperto con Gli svizzeri muoiono felici - già il titolo è intrigante - ovvero con l'ultimo romanzo (Guanda editore) di Andrea Fazioli, scrittore di Bellinzona che già ha ottenuto importanti riconoscimenti. 

Il personaggio è come una di quelle persone che sembra facciano apposta a schivarti, ma alla fine riescono a occupare un posto nel cuore. La trama, poi, è sorprendente, rovescia le convenzioni della detective story. Gioca a carte scoperte, col delitto raccontato in presa diretta fin dalle prime pagine. 

Ma sono gli umori, le atmosfere, le traiettorie esistenziali che contano davvero. Sono le parabole dei personaggi che intrecciano le cime delle Alpi ai deserti dell'Africa. Fanno di questo noir un noir diverso dagli altri. Non la storia di un uomo chiamato a risolvere un caso, ma la storia di culture diverse che viaggiano e si incontrano. Da leggere, merita. 

lunedì 21 gennaio 2019

Una baita di montagna per ritrovare ciò che si era

Il giovane uomo urbano che ero diventato mi sembrava l'esatto contrario di quel ragazzo selvatico, così nacque in me il desiderio di andare a cercarlo. Non era tanto un bisogno di partire, quanto di tornare; non di scoprire una parte sconosciuta di me quanto di ritrovarne una antica e e profonda, che sentivo di avere perduto.


Succede a volte, succede di sentirsi in un vicolo cieco. Si gira a vuoto,  ci si agita senza andare da nessuna parte. Succede anche allo scrittore che ha già scritto cose importanti, ma che ora contempla il foglio bianco: e magari non è il solito blocco dello scrittore.

La soluzione, allora, può essere di tornare a ciò che si era e, allo stesso tempo, al luogo in cui si era. Soprattutto se quel luogo è la montagna, con la sua perenne lezione di essenzialità. 

Succede, ma non sempre a quanto succede si fa seguire la scelta giusta: si tratta di ritrovare, non di scoprire; di tornare, non di andare.

Paolo Cognetti un giorno abbandona la sua Milano per trasferirsi in una baita a duemila metri, raggiunta solo da una mulattiera. Si lascia dietro di sé comodità e delusioni, si abbandona a un altro tempo, si tuffa in una solitudine che non fa paura. Comincia ad ascoltarsi e il silenzio è un regalo. La matassa comincia a dipanarsi: e dentro le giornate cominciano a entrare fatiche che alleggeriscono il cuore - riuscirà a fare l'orto? - e altre persone, che nelle loro solitudini sanno recuperare il senso di una relazione.

Da tutto questo ecco un libro - Il ragazzo selvatico - che Terre di Mezzo ha rieditato ora, splendidamente illustrato da Alessandro Sanna. Io l'ho letto solo ora, pensare che precede, non solo cronologicamente, le Otto montagne con cui Cognetti ha vinto lo Strega.

Solo ora, ma ho l'intenzione di tenermelo stretto per un pezzo. E chissà che anch'io non  riesca a ritrovare il ragazzo che un giorno sono stato. 

domenica 14 ottobre 2018

Quella montagna a cui non ci si stanca mai di tornare

Puoi convincerti che è solo un sentiero che sale e che prima o poi ti porterà da qualche parte, si tratti di un crinale o di un borgo dove potrai fare tappa. Oppure puoi spalancare i tuoi sensi - aprire le porte della percezione, avrebbe detto un poeta di altri secoli - e sentire cosa ti si muove dentro, fino a comprendere che anche una montagna ha un dentro.

Ecco, questo è ciò che ha sperimentato Nan Shepherd, questo ci ha poi raccontato in un libro che incredibilmente per anni è stato dimenticato dall'editoria italiana. Finalmente pubblicato grazie al Ponte alle Grazie, La montagna vivente - un titolo già eloquente - si impone subito come una di quelle letture che, senza magari entusiasmare come un grande romanzo di avventura, sanno comunque conquistare, anche poco a poco, fino a diventare indispensabili.  Non è un capolavoro della letteratura dell'alpinismo, come ho letto, ma assai di più, un libro che cerca e scova l'anima della montagna.

Vien quasi da invidiare questa donna che, nata sul finire dell'Ottocento, si laureò all'università di Aberdeen nel bel mezzo della Grande Guerra, insegnò letteratura inglese per quarant'anni, senza mai stancarsi di coltivare il suo amore per la montagna. Ma la cosa più sorprendente è che questo amore non lo ha mai esercitato in astratto, ma piuttosto rimanendo sempre fedele ad alcune vette che ha continuato a percorrere ed esplorare per tutta la vita: i monti Cairngorm, nella Scozia nordorientale, altresì conosciuti come l'Artico della Gran Bretagna. 

Forse solo una scozzese, con il suo temperamento tenace, poteva dimostrare tanta perseveranza. Ma quello che conta è che sentendola viva, la sua montagna, Nan Shepherd l'ha scoperta anche infinita. Ci sono molti modi di viaggiare e il più affascinante, mi sa, è quello che si alimenta di ritorni.

Ecco il segreto di questo libro, che ci insegna a tornare, a viaggiare in profondità piuttosto che in ampiezza, a considerare la montagna non come una cima da scalare, ma come un amico che è bello andare a trovare. 


venerdì 10 agosto 2018

Prima che chiuda l'osteria, l'ultima sera

E poi come facciamo senza l'Helvetia, chiude dopo cent'anni, hai voglia a far passare la giornata, dice Otto.

E' una sera di pioggia, che potrebbe essere anche neve, in questo paesino dei Grigioni, in Svizzera. Una sera come molte altre, su questa montagna che sembra un mondo a parte. O che sarebbe come molte altre, non fosse che è l'ultima per l'osteria Helvetia. 

Per un secolo è stato il posto dove si ritrovava questa piccola comunità, per un bevuta, una chiacchiera, un gioco di carte. Però da domani basta, l'Helvetia chiude, così come chiudono tanti posti di montagna, mica solo in Italia.

Ecco, è una sera di pioggia, una sera come molte altre e allo stesso tempo una sera che non ci si potrà più scordare: L'Ultima sera, appunto, che è il titolo di questo piccolo grande romanzo di Arno Camenish, scrittore in tedesco e romancio che in Italia è arrivato grazie alla benemerita Keller. 

Che belle queste pagine di uomini e donne che popolano l'Helvetia e non vogliono più andarsene, che si tengono stretto questo posto con le loro parole. Una birra e un racconto che sembra sospeso nell'aria. Un bicchiero di ginepro e avanti, con altre storie. 

Fuori piove ancora, il cielo ora pare voglia portarsi via tutto. Ma dentro si sta bene, c'è il tepore che solo certi posti davvero abitati. In fondo sono pioggia anche queste parole, pioggia più gentile, pioggia che non devasta.

Sembra una nave in un mare in tempesta, l'osteria Helvetia. Ci si tiene stretti e si confida. C'è ancora tempo, fino a domani.

giovedì 19 luglio 2018

Quando lo storico si mette in cammino

C'è chi lo definisce storico recalcitrante - già meglio che riluttante - e dubito che in questo modo si renda un buon servizio al mestiere dello storico, ma certo dà l'idea di un autore che sfugge come un'anguilla a ogni classificazione. Storico, va bene, ma anche girovago, innamorato, sognatore, cantastorie, dice Giulio Mozzi di Matteo Melchiorre. Sottoscrivo.

Prendete questo libro: un titolo piuttosto enigmatico, La via di Schenèr (Marsilio editore), un sottotitolo che sembra spostare decisamente il tiro verso il saggio serio e autorevole, buono per studiosi e cultori: un'esplorazione storica nelle Alpi.

Quanto a storia ce n'è tanta qui dentro, costruita con la passione dell'uomo che si tuffa dentro gli archivi e non si spaventa di fronte alla mole dei documenti, piuttosto si interroga su quello che non si è depositato nella scrittura. Ma soprattutto ci sono gli uomini, con le loro storie di vita. Così che anche un minuscolo lembo di terra  diventa un mondo da esplorare. E una aspra via di montagna, ormai abbandonata e dimenticata, si fa orizzonte su cui contemplare destini più ampi.

La via di Schéner, ovvero la mulattiera che un tempo univa due comunità separate dal confine: la città di Feltre sotto e, al di là del passo, gli abitanti del Primiero. Ovvero Austria e Veneto. 

Mercanti e contrabbandieri, lavoratori stagionali e soldati. Guerre e affari. Quante vicende si intrecciano sui due versanti di una strada che non sembra nemmeno una strada, solo un sentiero scosceso e faticoso che pure ha del cordone ombelicale. 

Lo storico - è vero - a volte deve dismettere i panni dello storico, per fare bene alla storia. Per capire e far capire che la storia siamo noi, con tutti coloro che ci hanno preceduto. Con i tanti nomi svaniti allo stesso modo delle orme sui valichi di montagna. 

Lo storico a volte deve abbandonare i testi e gli archivi, farsi uomo in viaggio e in questo modo fare raccolta di parole. A volte addirittura deve mettersi gli scarponcini da trekking, caricarsi uno zaino, puntare verso il crinale. Così la via - quella via - è già molto di più di una linea tracciata sulle antiche mappe. 

domenica 27 maggio 2018

Quattro montagne per una vita intera

Quella pausa, quella crostata e quella sigaretta, la valle tutta di fronte a noi e il Dolada alle spalle, ne sono certo anche ora, rappresentarono per entrambi, nel nostro intimo, un punto alto di felicità.

Quante cose ci possono essere in cima a una montagna, quante cose che rimanendo in basso non si riusciranno mai a cogliere. Non basta nemmeno contemplarla da giù la montagna, perché reclama il ritmo del passo, il respiro affannato, la parola che si dirada. Allora sì che può diventare ponte con noi stessi, farsi scoperta, meraviglia, riconciliazione. A volte, incredibile, persino brivido di felicità.

Se non ci credete, tuffatevi nelle pagine de Il punto alto della felicità, ultimo libro di Mauro Daltin (Ediciclo editore), autore friulano di cui negli anni scorsi ho già avuto modo di leggere Officina Bolivar, ritrovandomi a meraviglia nelle sue pagine di ottimo scrittore di viaggio.

Tuffatevi, perché in un periodo in cui la montagna pare andare di moda e suggerire diverse buone letture, questo non è il solito libro di montagna. Non un saggio o un'esperienza più o meno autobiografica, ma un romanzo, un romanzo vero, un romanzo che riassume una vita attraverso quattro montagne e quattro spartiacque nelle vicende di un uomo, Pietro, colto nelle diverse età.

Vicende che stanno più che dentro che fuori, a partire dalla prima ascesa, con Pietro  bambino che, in compagnia dello zio, comincia a cogliere il significato della morte e dell'amore. Che è come varcare quella linea invisibile che separa l'infanzia dall'adolescenza. Ragazzo, adulto, vecchio: una vita legata alla montagna. Scandita dalla montagna, fino all'ultimo.

E quante cose Daltin riesce a mettere dentro questo libro, non senza un debito dichiarato a autori come Dino Buzzati, il grande bellunese, oppure al Paolo Cognetti de Le otto montagne.

Storie da cui si vorrebbe discendessero altri romanzi, quali quelle del battaglione fantasma della Grande Guerra oppure dell'alpinista che per tutta la vita ha cercato un fiore che non esisteva.

Il sentimento del tempo e la fragilità dei nostri affetti e delle nostre certezze. Anche per questo la montagna ci è necessaria, per come ci offre quel poco di stabilità che ci ha dato. Fino a farsi legame tenace, promessa che forse riusciremo a mantenere: come spero faccia Mauro con il borgo di Givigiana, quasi un paese fantasma, oppure no, una speranza di nuova vita nella nostra montagna.





sabato 24 febbraio 2018

Capitando per caso alla casa del poeta

Poi un giorno ti capita tra le mani un libro di dieci anni fa. E forse non ti ha cercato, forse l'hai proprio cercato tu, perché a volte la curiosità ti spinge via dai libri che hai deciso di leggere, quelli che stanno in attesa sulla scrivania o sul comodino, ti spinge via e ti deposita davanti a una bancarella dell'usato o su uno scaffale più trascurato di una libreria. Oppure in effetti c'era un argomento da approfondire e l'occhio ti è cascato. Oppure avevi fame di parole con cui rivestire un sentimento o un viaggio da fare.

E così capita un libro come questo, che quando è uscito credo non abbia scalato le classifiche dei best-seller, uno di quei libri che scivolano via e vai a sapere se meritava davvero attenzione.

Autore Paolo Lagazzi. Titolo: La Casa del poeta. Sottotitolo: Ventiquattro estati a Casarola con Attilio Bertolucci. Un editore importante, Garzanti. E bella è anche l'edizione, di un'eleganza che desta una qualche nostalgia - e la nostalgia, si sa, è un sentimento che sai abitare benissimo. Però che dire? Non hai mai sentito nominare l'autore e tanto meno Casarola. Di Attilio Bertolucci, poi, fino all'altro giorno sapevi vagamente solo che è stato un poeta, padre di un grandissimo regista.

Lo prendi perché scopri che Casarola è un paesino incastonato sull'Appennino: ci arriva una strada che da Parma, curva dopo curva, sale i monti. E per in  monti, in particolare per l'Appennino, coltivi un pregiudizio decisamente favorevole.

Senza troppa convinzione, gli dai un'occhiata. E sorpresa, non è un libro di memorie, tantomeno il saggio di un critico o di uno storico locale.

C'è l'Appennino, qui dentro, c'è la montagna e la sua poesia. C'è la casa del poeta, che non sono solo pareti e arredi, ma vita che si è impastata e che ha fatto appunto casa. C'è lo sguardo che da quella casa si irradia tutto intorno, facendo propri i boschi e le vette. Ci sono le estati, le ventiquattro estati una dietro l'altra, che si confondono e diventano un'unica estate, perché così era ai tempi delle villeggiature, magari proprio in Appennino, erano mesi che più che altro rappresentavano un ritorno, non un viaggio, erano un ritrovarsi e un riconoscersi, che importanza poteva avere l'anno?

C'è certo anche un'altra Italia, di cui ormai è rimasto poco e quel poco credo proprio in posti come Casarola. Così semplice Casarola, eppure non riesci a liberarti dell'idea che trattenga qualcosa della magia.

E c'è la poesia, ovviamente. La poesia che è casa, che è montagna, che è tempo e che è luce che illumina il cammino.

Non me lo dire: questo libro, forse, lo avrai letto fino in fondo. 

giovedì 4 maggio 2017

Il piacere della gentilezza, arte dei camminatori

Ciò di cui vorrei parlare è la gentilezza universale, vale a dire non la regola da applicarsi in un determinato posto e in una certa circostanza, ma l'intelligenza delle regole. 

Gentilezza universale, che bella espressione. Come per dire che non è che possiamo permetterci di essere gentili solo a casa propria, oppure di essere gentili solo con i nostri vicini e non ncon coloro che arrivano da lontano. E' qualità che ci riguarda sempre, la gentilezza. E' qualità che non va mai presa sottogamba, quasi fosse solo una questione di forma. A parte che anche la forma è importante, quali possono essere le conseguenze di un saluto non dato, di un rimgraziamento fatto mancare?

Ecco, di tutto questo parla Bertrand Buffon, ne Il piacere della gentilezza, ultima scoperta che ho fatto tra le ormai numerose uscite di quella splendida collana che è la Piccola filosofia di viaggio di Ediciclo. Intrigante fin dal titolo che incrocia il piacere con la gentilezza - e non  era scontato - in queste pagine si ritrova il senso di ciò che deve rappresentare davvero la buona educazione.

E già che ne parli io mi suona strano, dopo una vita trascorsa a sbuffare su tante regole che, a mio parere, avrebbero duvuto far la stessa fine del Galateo del Monsignor Della Casa - roba da cortigiani, roba da gente snob.

Ma ovviamente c'è anche un'educazione del cuore. Ovviamente ci sono parole che è bene coltivare - poco importa se quasi sempre sono pronunciate per abitudine, come in una stanca liturgia.

Il senso della gentilezza va ricercato nella relazione che si stabilisce - spiega Buffon - Il suo scopo è di attirare gli uni verso gli altri e, in un certo senso, di farli incontrare.

Cosa evidente per chi, come me, cerca spesso di partire per qualche cammino. In città quasi sempre ci si incrocia per strada e nemmeno si solleva lo sguardo. Ma in un sentiero di montagna c'è sempre il modo di scambiarci un saluto: e in quel modo diventiamo comunità, anche con chi dopo pochi secondi ci sparirà per sempre alla vista. La gentilezza - dice ancora l'autore - è un'arte collettiva.

Un'arte - aggiungo io - che va particolarmente coltivata da chi viaggia. A volte basta una parola. Magari un arrivederci o un grazie in una lingua che non è la nostra.


martedì 3 gennaio 2017

Otto montagne più la montagna che ci abita dentro

E diciamo: avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?

Sono contento di aver cominciato il 2017 con questo libro, è un regalo che mi sono fatto. Me l'ero tenuto da parte, nonostante le buone recensioni che avevo già letto, per consegnarlo a questi giorni più rarefatti, dove anche il freddo e i vetri appannati e le feste che se ne vanno sembrano invitare al raccoglimento e alla parola che risuona dentro. Per una volta non mi sono sbagliato: Otto montagne di Paolo Cognetti (Einaudi) è come una passeggiata su una montagna di inverno, dove gli unici rumori sono i tonfi della neve dagli alberi; è come un lago alpino che alla vista ti allarga il cuore.

Semplice e complesso, questo libro: narra una storia minima, di un figlio i cui genitori amano intensamente la montagna e di un'amicizia che su una montagna scandisce tutte le tappe della vita; i silenzi sono più intensi delle parole; gli sguardi si dirigono sugli stessi boschi, gli stessi pascoli, le stesse creste. Eppure in ogni pagina sembrano vibrare le grandi domande che frugano nel senso della vita.

C'è un padre e un figlio che trascorrono la notte in un rifugio e poi cercano di risalire un ghiacciaio; ci sono due bambini che appartengono a due mondi diversi - la città e la montagna, appunto - ma che nelle scorribande dell'estate si scoprono; c'è l'eredità di un rudere che potrà diventare un rifugio da tutto e da tutti; ci sono questi due amici che crescono e si trovano di fronte alle scelte che contano, alla prese entrambi con la loro solitudine, che sembra consentire solo la loro amicizia, in mezzo a tanta distanza.

Solitudini diverse, scelte diverse, ma l'amore per la montagna come denominatore comune. Più quella domanda che ho messo all'inizio e che richiama la ruota che è simbolo scoperto sulle cime del Nepal:  otto raggi che corrispondono alle otto montagne, circondate da otto mari, e al centro il monte Sumeru. Chi avrà dato più senso alle vita? Pietro, il ragazzo di città, che si metterà in movimento per il mondo, senza alcuna radice, cercando altre montagne? Oppure Bruno, che dalla sua montagna non si distaccherà mai, anche quando lo esigerà lo stesso buon senso?

Magnifico romanzo, Otto montagne, compiuto e asciutto come un romanzo breve, eppure con il respiro lungo della grande storia. Con un italiano bello, ma aiutatemi a dire quanto, che lascia il sapore di ogni frase, sarà che Cognetti non cerca effetti speciali ma lingua precisa, sarà che c'è dietro la lezione dei grandi americani (Jack London? Ernest Hemingway?). Ma soprattutto con tanta montagna: non la montagna dei turisti usa e getta, degli sciatori della domenica, degli alpinisti a caccia dell'ennesimo trofeo, piuttosto la montagna di chi la abita - malgrado tutto -, di chi ci lavora, di chi la sente dentro.

venerdì 30 dicembre 2016

In cima all'Ararat, con parole e storie


Metti una sopra l'altra le sillabe della parola Ararat e ottieni una montagna:

A
RA
RAT

Proprio così, una montagna può non essere solo rocce e dirupi e sentieri che portano in alto. Una montagna può essere fatta anche di parole, di idee, di immagini che prendono forma dai libri letti e a volte danzano per la testa.

Con Ararat (Iperborea) Frank Westerman, scrittore olandese di cui ho già avuto modo di apprezzare El Negro e io, ci prende per mano e ci porta in cima a un monte che non è solo un monte, che è più di un monte, è un monte di storie, miti, leggende.

Quante cose che è l'Ararat. A partire dalla Bibbia che con poche parole ne fa un luogo unico al mondo, lo spartiacque (letteralmente) tra la devastazione del diluvio universale e la rinascita della vita:  
 Nel settimo mese, il diciassette del mese, l'arca si posò sui monti dell'Ararat.

E' questa la montagna sacra che nessuno doveva scalare, nemmeno fosse l'undicesimo comandamento, poco importa che il divieto magari nascondesse solo la possibilità della delusione

(Sorgeva il sospetto che lo zelo con cui i sacerdoti impedivano di raggiungere i loro luoghi sacri fosse dovuto a un solo timore: che lì non ci fosse niente)

La montagna culla di civiltà, inizio della storia. La montagna promessa di terra promessa.

Ma anche la montagna frontiera, la montagna che è separazione, confine di eserciti contrapposti. Prima linea della guerra fredda. E da sempre i turchi da una parte e gli armeni dall'altra.

E tutto questo è anche il viaggio di Frank Westerman. Viaggio di letture e suggestioni, prima ancora che ricerca di altezze e aria rarefatta. Un viaggio che è bello fare anche noi, scivolando per queste pagine.

lunedì 4 aprile 2016

Tra sogno e rocce, le tre montagne di Meschiari

Un anziano che azzarda l'ultima scalata della vita, con i suoi acciacchi e i suoi pensieri; due uomini che intrecciano una strana amicizia, perdendosi e ritrovandosi sui sentieri della Resistenza; un figlio che ascolta le ultime parole del padre in un bosco senza tempo. Tre parabole di vita, tre storie, tre montagne: è questa la sostanza del sorprendente libro di Matteo Meschiari, professore di antropologia e studioso del paesaggio, pubblicato da una piccola ma coraggiosa casa editrice piemontese, Fusta, nella collana Bassastagione.

Tre montagne, questo appunto è il titolo, è un libro difficile da raggiungere, come una cima dei miei Appennini. Certo non un libro di cui si legge nelle pagine di cultura dei quotidiani o che viene segnalato nei flussi dei social media o che spicca nelle vetrine delle principali librerie. Ci si può arrivare solo grazie a quelle strane magie per cui un libro, vai a sapere perché, accende la tua curiosità. Oppure grazie a quelle correnti che attraversano il grande mare della lettura e che un giorno depositano un consiglio sulla tua sponda - perché questo è in effetti il passaparola.

Libro difficile da raggiungere, ma poi anche non semplice da scalare: lettura che richiede sforzo, impegno, concentrazione. Ma poi è davvero come una cima che ti sei proposto di fare tua, per poi sorprenderti a ogni passo di ciò che vedi intorno a te e per ciò che riesci a fare.

Giochi di vento, disegni di luce, rocce, materia e sogno: queste sono le montagne di Meschiari. E una volta calpestate ti rimangono dentro.

lunedì 1 giugno 2015

Il mondo è più bello se visto da una vetta

Non credete troppo al titolo. E' assai più di un vademecum, Vademecum per perdersi in montagna di Paolo Morelli (edizioni Nottetempo): un glossario divertito, irriverente, eccentrico, ora surreale con leggerezza ora spietatamente incollato alla verità delle cose.

Con tanto amore della montagna e altrettanta sana diffidenza per molti dei suoi sprovveduti frequentatori della domenica (tra cui grosso modo potrei annoverarmi anch'io).

Con diversi mirabili incontri ma anche una bella dose di disavventure possibili e pronosticate.

E su tutto la serena e condivisibile convinzione che il mondo è assai più bello se colto dalla prospettiva di una vetta, laddove ci si può illudere, non per tanto ma almeno per un pezzetto, che non esistano davvero ipermercati e giungle d'asfalto e spiagge prese d'assalto e... il resto aggiungetelo voi, al primo squarcio di orizzonte che vi spalanca un sentiero.

lunedì 14 luglio 2014

Il leopardo delle nevi che sta dentro di noi

Era il 1973 e l'inverno era alle porte. Partire prima di tutto è rispondere a una domanda che ancora oggi risuona: cos'è che spinge un uomo a partire e percorrere a piedi più di 400 chilometri, tra le montagne dell'Himalaya? 

Cosa c'è prima di questo bel libro che il tempo non ha logorato, Il leopardo delle nevi di Peter Matthiesen (edizioni Neri Pozza)?


Forse il fascino dell'antica civiltà tibetana, ancora non travolta dai tempi moderni. Forse il richiamo di questi posti, di queste cime innevate e gole profonde. 

O forse proprio quell'animale, quella creatura che è più un mito che una presenza. E in effetti solo in questo modo si può dare un senso a questo incredibile viaggio di due mesi e centinaia di chilometri dietro un animale raro ed elusivo, tanto che sembra avere la consistenza del sogno.

Del leopardo delle nevi di Peter Matthiesen riesce più facile raccontare qualcosa intorno a un fuoco che rintracciare le orme. Però è proprio questa la sfida. 

Tranne comprendere che, in qualche modo, il leopardo delle nevi siamo noi stessi e che in effetti ciò a cui si dà la caccia è un significato alla vita

mercoledì 7 maggio 2014

Posti misteriosi, proprio accanto alle grandi strade

Chi ha detto che in Italia non c'è più terra incognita?

Cosi si chiede Paolo Rumiz, nel bel mezzo di un viaggio alla scoperta della montagna italiana, prima le Alpi da un capo all'altro, poi gli Appennini fino all'estrema propaggine meridionale. Curva dopo curva, su strade secondarie, fili sottili e tortuosi sulle mappe degli automobilisti, che quasi sempre prediligono la linea retta, assecondata da viadotti e gallerie. Strade dimenticate, strade che solo di tanto in tanto tocca imboccare, per una deviazione obbligata, perché non se ne può fare a meno.

Sostiene Paolo Rumiz, che in quel viaggio si è concesso il piacere estremo di partire e arrivare in fondo con una vecchia Topolino, che è proprio questo ciò che vale, il tempo che sembra perso e invece si guadagna, la sorpresa annidata dietro ogni tornante. A volte, afferma, neanche troppo lontano dalle linee rette con cui abbiamo preteso di soggiogare le montagne. I posti più misteriosi, afferma, stanno spesso accanto alle grandi strade, totalmente ignorati dal flusso che li percorre. Ed è un po' come per i ladri, che si dice rubino meglio vicino alle questure.

Solo qualche mese fa, con colpevole ritardo, ho letto La leggenda dei monti naviganti. A mio parere uno dei libri più belli di Rumiz. Dopo averlo finito l'ho messo via, su uno scaffale, con un pizzico di gratitudine misto a invidia: quel viaggio non era il mio viaggio.

Poi pochi giorni fa sono partito per un trekking con i miei amici. La via alta della Liguria, montagna con vista mare. A poche centinaia di metri in linea d'aria Portovenere, le Cinque Terre, alcuni dei luoghi più amati, conosciuti, frequentati da turisti di ogni paese. Poco più sopra, bellezza rarefatta, accarezzata dal silenzio. E solo così ho inteso davvero quel libro.

giovedì 20 marzo 2014

Le parole di Beatrice per salutare la primavera

Le parole mi scorrono dentro, libere, mi attraversano e mi prendono.

Sono sangue, sono vita. In esse, professore, mi c’interno. E con esse ritorno fuori e abbraccio il mondo.

Non sono rincitrullita e lo so che le parole scritte resteranno scritte in eterno, e che le mie parole, invece, sono come nebbia nel vento che scappa, sono fumo che sale al cielo.

Ma la parola detta, la parola cantata, è bella perché è unica, perché è tutta piena di melodia.
E questa melodia conta più di me e persino più di lei, professore.

Perché la bellezza è fiore che sfiorisce e poi ritorna.

Perché la poesia è bellezza e la bellezza dura per sempre, anche quando sparisce. Perché è gioia che rimane, splendore che aumenta. E se gli altri se ne scorderanno alla svelta, noi le troveremo sempre un posticino indisturbato, come una pietra preziosa in uno scrigno.

E sarà dolce sogno, carezza di ricordo, salvezza.

Dove sono allora i canti della mia giovinezza? Vorrei illudermi, dire che sono un’eco che vibra ancora su questi nostri monti. Magari è davvero così.

Perché questi versi sono i fiori incolti di questa terra. Fiori che nascono e muoiono senza che nessuno debba curarsene.

Muoiono ma la primavera dopo sono di nuovo qui a rallegrarti.

(Paolo Ciampi, Beatrice, il canto dell'Appennino che conquistò la capitale, Sarnus)

mercoledì 12 marzo 2014

Quando le Dolomiti non erano le Dolomiti

Potenza dei nomi. Successe solo quando le Dolomiti cominciarono a chiamarsi Dolomiti - e oggi non sembra nemmeno possibile che una volta non fossero le Dolomiti. Prima delle piste da sci, degli impianti di risalita, degli alberghi pronti ad accogliere escursionisti e villeggianti di tutto il mondo.

Pensare che l'Antartide era già stato intravisto da una quarantina di anni, pensare che era il tempo delle scoperte geografiche, delle esposizioni universali, delle mappe che cambiavano di anno in anno. Le terre lontane diventavano sempre meno lontane, ma le Alpi, nel cuore dell'Europa, rimanevano posti remoti e sostanzialmente poco conosciuti. Ancora nel 1873 la viaggiatrice inglese Amelia Edward pubblicava un libro dal titolo Untrodden peaks and unfrequented valleys: cime inviolate e valli sconosciute.

Ma soprattutto le Dolomiti, le Dolomiti che ancora non erano le Dolomiti. Un altro viaggiatore, il francese Jules Leclercq poteva scrivere di quei montanari: I selvaggi dell'Africa centrale provano meno stupore di loro alla vista di uno straniero.

Poi arrivarono loro, i due viaggiatori britannici Josiah Gilbert e George Cheetham Churchill (a proposito di nomi, due nomi che sembrano la quintessenza dell'impero britannico). Si innamorarono delle Dolomiti che non erano le Dolomiti e decisero di battezzarle in quel modo, richiamando la pietra di queste montagne, la dolomia. Era il 1864, usciva il loro libro, The Dolomite Mountains. Come andò a finire lo ha raccontato Pietro Veronese, sulla Repubblica di qualche tempo fa:

La parola ebbe successo immediato. I viaggiatori successivi l'adottarono subito, nuovi libri di altri autori la ripresero. Le Dolomiti divennero una moda elegante, certamente molto elitaria.

Soprattutto le Dolomiti erano diventate le Dolomiti.

giovedì 15 agosto 2013

Ciò che gli alberi bisbigliavano tra loro

Più grande diventavo, più aiutavo il babbo nel suo lavoro.

E facevo molto altro. Pascolavo le pecore, con la rocca alla vita, facevo frasche, raccattavo le spighe.
 

Faticavo e crescevo, faticavo e sentivo venir su qualcosa da dentro di me.
 

Non aveva un nome, però le mie giornate possedevano una speciale gioia.
 

Mi beavo della quiete degli alpeggi, godevo dell’aura, sorbivo il silenzio ingioiellato di infiniti rumori.
Talvolta me ne stavo ferma a sorvegliare il gregge, con un filo d’erba in bocca: seduta nella natura guardavo e pensavo.
 

Mi incantavo al cospetto dei prati, che sono granai di vita.
 

Mi piaceva accoccolarmi sui cigli scoscesi. Lasciavo vagare il mio sguardo e la bellezza del creato mi rapiva.
 

Alle volte però le parti si rovesciavano. Non era la bellezza a conquistarmi. Ero io a coglierla alla sprovvista.
 

No, non mi guardi così, professore: sono cose difficili da esprimere per chi non ha i suoi studi.
Durava un istante e svaniva subito.
 

E io me ne rimanevo di sasso come per una rivelazione.
 

Rimiravo la natura e mi sembrava di stare rimpiattata dietro un uscio, a origliare e capire ciò che non mi spettava di sapere.
 

Potevo quasi comprendere ciò che gli alberi bisbigliavano tra loro.
 

E dopo mi scuotevo. Tornavo ai miei animali, alle mie erbe da falciare e caricarsi.
 

Come un mistero che si svela e che un attimo dopo ti scappa ancora.

(da Paolo Ciampi, Beatrice, Sarnus edizioni)

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...