Visualizzazione post con etichetta Sarajevo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Sarajevo. Mostra tutti i post

giovedì 14 maggio 2020

I Balcani sono le sue storie

Già, dove iniziano e dove finiscono i Balcani? Comprendono anche la Turchia europea? E che dire di Trieste? 

Potremmo cominciare e non smettere più con domande così, mescolando geografia e storia, rovesciando le complicazioni dell'una sull'altra e viceversa. Sì, non smettere più se non per stanchezza. Per rimanere con un pugno di mosche. 

I Balcani, figurarsi. Tutti più o meno sappiamo ritrovarli su una carta geografica, tranne poi confondersi o lasciarsi sorprendere. Per dire, il sottoscritto ha sempre fatto fatica a rammentarsi che per questa terra non esiste solo su un mare, che dall'altra parte ce n'è un altro non meno intrigante e difficile, anzi. L'Adriatico ma anche il Mar Nero.

Questo per quanto mi riguarda. E sempre per quanto mi riguarda ho tratto conforto e piacere dalla lettura di Dove iniziano i Balcani di Francesca Cosi ed Alessandra Repossi (Ediciclo): due viaggiatrici che da tempo ci portano nel mondo attraverso le storie di viaggio e la buona letteratura.

E' un bel libro, Dove iniziano i Balcani, col titolo senza punto interrogativo, tanto non ce n'è bisogno, tanto la domanda sarebbe piuttosto un'altra: non dove cominciano, ma cosa sono i Balcani.

L'Altro che ci è vicino, l'Oriente sotto casa: così sfuggente che pare una farfalla che si sottrae continuamente al nostro retino e quasi si prende gioco di noi.  

Meglio le storie dunque: si tratti della fortuna turistica di Bled come di Joyce a spasso per Pola, delle ville come delle isole galera di Tito, degli spiedini di carne onnipresenti come delle tracce lasciate da Danilo Kiš, autore che ci dovremmo tutti tenerci stretto, delle città inventate dal regista Kusturica come dei tormenti di Sarajevo, dei gatti del Montenegro come delle folle di Medjugorje....

Nessuna somma da tirare alla fine, nessuna vera conclusione. Tanto le storie bastano a se stesse. Non ne usciremo con confini più chiari, piuttosto con un diverso senso di prossimità. Ed è di gran lunga meglio così. 

  

lunedì 8 ottobre 2018

L'odore dell'Adriatico e i quattro gol al Brasile

Semplicemente, esistono stagioni nella vita dell'uomo, e nella vita degli imperi e dei reami, quando la cosa migliore è tirarsi da parte, scomparire in qualche luogo oppure passare a un'assenza totale e ottusa.


Anche l'insolita comitiva che compare all'inizio del libro, in marcia verso una sconosciuta località balcanica, sembra rispondere a questa esigenza. Scomparire per cercare pace, per scansare il peggio. Del resto cosa può fare un padre con un figlio condannato da una malattia senza speranza? Tanto più che il mondo intero sembra barcollare sul ciglio del precipizio, in quel giugno del 1938. 

Forse la risposta, se esiste, si potrà trovare solo puntando al sud: verso il mare e poi verso un improbabile hotel nell'entroterra, mentre a Parigi stanno per cominciare i Mondiali di calcio.

Non conoscevo Miljenko Jergović, scrittore di Sarajevo che verrebbe da definire di culto, malgrado in Italia sia ancora poco conosciuto e finora pressoché introvabile. Meno male che ci ha pensato Bottega Errante, editore friulano bravoa splancarci diverse finestre sulla letteratura balcanica, con un libro, Radio Wilimowski, allo steso tempo intenso e spiazzante.

Wilimowski, anzi, Ernest Wilimowski è una leggenda del calcio polacco, perché a Parigi riuscì a segnare quattro gol al Brasile -e mai nessuno è arrivato a tanto in una gara ufficiale. Polacco, ma anche tedesco: uomo della Slesia, per l'esattezza, prima che i successivi eventi recidano legami e identità, sospingendo per una volta per tutte a un'appartenenza piuttosto che all'altra. 

E chissà che cosa succederà di questo padre - un professore in pensione di Cracovia - chissà quanto tempo ancora resterà da vivere a suo figlio David. 

Nel frattempo c'è questa partita che pare ancora più vera ascoltata alla radio che seguita con la batteria di telecamere di oggio. C'è la magia delle parole dello speaker e c'è la sensazione di un'impresa irripetibile. E dopo, dopo c'è anche la sconfitta, come quasi sempre capita: ma intanto si può ancopra sognare, in questo angolo sperduto di mondo. E respirare gli odori dell'Adriatico, abbandonarsi al vento.  


 

martedì 16 agosto 2016

Cimiteri, parole, treni: la Bosnia di Azra è di tutti

E dunque, in primo luogo mi viene da ringraziare la casa editrice - la Spartaco di Santa Maria Capua Vetere - che ha proposto questo piccolo grande libro: ennesima conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, che un'editoria piccola ma coraggiosa ci fa respirare l'aria di un mondo più vasto. In secondo luogo mi viene da ringraziare il libraio di una delle mie librerie predilette - l'Ora Blu di Firenze - che questo libro me l'ha messo tra le mani con la più incoraggiante delle frasi: prova a leggerlo, non te ne pentirai. In terzo luogo, mi viene da ringraziare l'autrice, Azra Nuhefendic, che con il suo Le stelle che stanno giù, mi ha dimostrato che c'è ancora spazio per una scrittura che sa insieme essere testimonianza, reportage, denuncia, narrazione elegante e partecipata.

Azra è una giornalista bosniaca musulmana, che ai tempi ha lavorato per la tv di Belgrado e oggi vive a Trieste. Nelle sue cronache - ma è riduttivo chiamare cronache, quasi fossero lavori destinati al consumo di un giorno - ci racconta la Jugoslavia - il paese che c'era prima - e quindi la Bosnia Erzegovina nel mezzo dell'orrore sopportato anche in prima persona. Ciò che è successo, come le cose sono cominciate e cosa ne è disceso, perché una guerra non si conclude mai solo con il cessate il fuoco.

Azra cerca ragioni, indaga sugli scheletri negli armadi, insegue parabole di vita, si interroga prima di tutto su ciò che è stato della sua vita, al crocevia come una delle grandi tragedie del Novecento.  Riepiloga terribili nefandezze, ma sa anche commuovere con giganteschi lampi di umanità, raccontando per esempio di quei "nemici" serbi, che nei giorni più duri, l'hanno nascosta, protetta, sfamata (un popolo è sempre al plurale, ci sono volti, nomi, storie, persone come un vicino di casa che ti può consegnare oppure salvare). 

Parla di cimiteri che ora dividono le comunità anche da morti, in un paese dove prima era comune accendere una candela per un'icona ortodossa, passare da una chiesa cattolica e poi condividere una preghiera con i musulmani. Parla di una lingua che prima era uguale per tutti e ora è il croato per i croati, il serbo per i serbi, il montenegrino per i montenegrini, il bosniaco per i bosniaci, con i linguisti al servizio dei nazionalisti per inventarsi ridicoli neologismi e gli interpreti chiamati per i primi incontri ufficiali dopo la guerra. Parla del treno tra Sarajevo e Belgrado che per diciott'anni non c'è più stato e delle altre linee, delle altre strade che sono state interrotte - Ci costringevano a stare in territori sempre più piccoli, dentro confini sempre più stretti, a non muoverci, a interrompere i contatti non solo fisici ma anche mentali, finché la rottura non fu completa, fino a che l’isolamento non si trasformò in assedio - non senza rammentare con nostalgia i treni della vecchia Jugoslavia socialista, che i giovani della sua generazione prendevano d'estate, per andare al sud, al mare: affollati, lenti, arroventati dal sole, ma anche carichi di un'idea di futuro che doveva essere per forza diverso.

Cimiteri, parole, treni: quante cose in questo libro. Quanti campanelli d'allarme da far funzionare, sempre e comunque. Quanta umanità di cui far tesoro in un mondo che non ha smesso di essere difficile. 

lunedì 2 marzo 2015

In bici a Sarajevo, nuovi ponti che uniscono

E' di fondamentale rilevanza che qualcuno, in simile società, si dedichi all'esplorazione e al superamento dei confini.

Così affermava il mai troppo rimpianto Alex Langer. E io aggiungo che anche una bicicletta può aiutarci a superare i confini. A volte, anzi, è il miglior dei modi: sarà che si viaggia leggeri, senza ingombrare o reclamare attenzione.

Per capire cosa intendo provate a leggere Sarajevo ti entra nel cuore di Fabio Masotti (Ediciclo edizioni), viaggio su due ruote nei territori di uno Stato che non è uno Stato, di uno Stato che è tre Stati, di uno Stato che viene da definire come la società che ci è stata apparecchiata: semplicemente "liquido".

Eccoci nel cuore dei Balcani martoriato dalla guerra che prima dell'Ucraina veniva facile classificare come l'ultima dell'Europa, ora è meglio dire l'ultima del Novecento - secolo cominciato e concluso a Sarajevo. In quella Bosnia-Erzegovina che riconosciamo in una bandiera, in una nazionale di calcio, in confini tracciati sulla carta di un accordo ma non nella testa della gente. Musulmani, croati, serbi che ancora non hanno appreso la buona arte della convivenza.

Non si può capire, se non viaggiando lenti. Se non provando a sintonizzarsi con la gente che incontri. Il fruscio dei pedali, le soste, le conversazioni nei locali che sono di tutti. Spiedini e birra a volontà. Storie che si intrecciano. Storie che prima di diventare pagina di libro entrano  nelle borse da viaggio del cicloturista.

Da Spalato a Sarajevo, da Sarajevo a Visegrad, Goradze, Mostar. Città di ponti che per secoli hanno unito. Città di ponti che la guerra ha distrutto. Quindi il miracolo: le ruote della bicicletta - e poi le parole di questo libro - sono come pietre per tirare su nuovi ponti.

martedì 17 febbraio 2015

Sarajevo 1914, l'ironia della storia

Il piccolo, bizzarro melodramma che si svolse in Bosnia il 28 giugno 1914 ebbe sulla storia del mondo la stessa influenza di una puntura di vespa su un malato cronico, spinto dal delirio a scendere dal letto e dedicare i suoi ultimi giorni a distruggere un nido di insetti.

Piuttosto che fornire una vera causa alla Prima guerra mondiale, l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando di Austria-Ungheria servì come scusa per scatenare forze che era già in azione. 

Il fatto che un terrorista adolescente avesse ucciso l'unico uomo, ai vertici dell'impero asburgico, che avrebbe potuto utilizzare la propria autorità per cercare di evitare la catastrofe è solo un'ironia della storia, per certi versoi insignificante.

(Max Hastings, Catastrofe 1914, Neri Pozza)

mercoledì 2 luglio 2014

Sarajevo 1914, con gli occhi di due ragazzi su quel giornale

E rifletto su Ugo e Maria, adolescenti che a scuola studiano Pascoli e Leopardi, presumo come i ragazzi di oggi, adolescenti ora alle prese con un fatto tanto grosso da non poterlo intendere, pure questo immagino come i ragazzi di oggi, se oggi – scongiuri - capitasse qualcosa di simile.
 
E vorrei sapere quanti sono gli italiani a cui questa data - 28 giugno 1914 – dica qualcosa, esattamente un secolo più tardi. Quanti sono davvero consapevoli che il secolo breve della lunga guerra, perché questo è il Novecento, è cominciato a Sarajevo e si è concluso a Sarajevo. 

E penso ancora una volta a Tania, che per abitare davvero quella casa, per fare in modo che Domenico, Amalia, Ugo e Maria siano assai di più che nomi, si è spinta fino a consultare i quotidiani dell'epoca. A leggerli con i loro occhi. 

E sono confuso, maledettamente confuso, ma sono contento di esserci finito in mezzo. 

(Paolo Ciampi, con Tania Maffei, Nel libro, figlio, tu vivrai, Sarnus editore) 

lunedì 25 giugno 2012

Alexander, che si sentiva personalmente responsabile

Si sentiva personalmente responsabile per le sofferenze e i mali di cui veniva a conoscenza. Da quest'ansia scaturiva il suo irrefrenabile attivismo...

Me lo ero quasi dimenticato, Alexander Langer, profeta inascoltato e soprattutto disarmato. Per fortuna mi sono imbattuto nelle pagine in cui Gad Lerner parla di lui, in Tu sei un bastardo.

Alexander Langer, nome tedesco ma cittadino del mondo, impermeabile e insofferente alle divisioni della sua città, Bolzano. Deputato europeo - un pianeta di distanza da quasi tutti i deputati europei che abbiamo avuto modo di vedere almeno in tv - e traduttore naturale tra paesi e lingue diverse.

Uomo che aveva intravisto la marea dell'odio etnico, del fondamentalismo armato. Presto avrebbe travolto tutto, se non si fosse fatto niente.

Quella volta il mondo non fece niente. E ci fu la guerra in Jugoslavia, la spaventosa mattanza nel cortile dietro casa.

Pare che l'assedio di Sarajevo e il massacro dei ragazzi riuniti per un concerto a Tuzla, nella primavera 1995, siano stati il colpo finale. L'idrovora che gli ha prosciugato ogni energia vitale.

Alexander Langer si impiccò a un albero di albicocche, sulle colline di Firenze. Una settimana dopo ci fu la strage di Srebenica.

Alexander Langer ci ha lasciato in eredità, tra tante cose, il suo Tentativo di decalogo per la convivenza multietnica. Abbiamo bisogno ancora di persone come lui, capaci di sentirsi personalmente responsabili.

domenica 3 aprile 2011

Perché si bruciano le biblioteche

Siamo dei barbari ed è ciò che desideriamo essere

Lo diceva Adolf Hitler, nel maggio 1933, diversi anni prima che la sua Germania si mobilitasse per la soluzione finale. Stava commentando il rogo di libri a Berlino. Forse prima di arrivare ai forni per gli ebrei bruciare libri era stato un passaggio necessario, quasi una condicio sine qua non.

Attenzione a chi disprezza i libri. A chi vuol eliminarli. Prima o poi verrà fuori anche la sua voglia di fare male, molto male, a qualche malcapitato.

La storia insegna, ne abbiamo avuti troppi di campioni di verità e giustizia che la pensavano più o meno come l'emiro che incendiò la biblioteca di Alessandria con queste parole:

Se il contenuto dei libri si accorda col libro di Allah, noi possiamo farne a meno, dal momento che il libro di Allah è più che sufficiente. Se invece contengono qualcosa di difforme, non c'è alcun bisogno di conservarli

La storia insegna, e questo a volte è proprio il problema. Per questo nell'estate del 1992 i cannoni dell'assedio di Sarajevo presero di mira proprio la biblioteca. Bruciò per tre giorni, mentre qualcuno faceva festa, sulle colline intorno.

Bruciare libri cancella la memoria, permette di riscrivere la storia secondo volontà, di spacciare il falso per il vero, il vero per il falso, e soprattutto accreditarsi come gli unici depositari del vero.

Attenzione ai roghi del libro. Sono sempre attuali: e non c'è bisogno di piazze dove appiccare le fiamme, stringi stringi non c'è bisogno nemmeno di fiamme.

lunedì 28 marzo 2011

Quando le biblioteche sono prese a cannonate

Lo spiega bene Gian Antonio Stella in Negri Froci Giudei & Co. L'eterna guerra contro l'altro:


Uccidere la memoria è essenziale, per chi vuole reinventarsi la "sua" storia

E poichè le biblioteche sono luoghi che custodiscono la memoria - e quindi le radici, l'identità, la profondità e le ragioni per il futuro di un paese - le biblioteche a volte fanno paura. Le biblioteche diventano obiettivo militare, problema da cancellare, fastidio da sopprimere.

Tra un po' saranno passati 20 anni dall'assedio di Sarajevo. E lì le milizie che volevano annientare la città della convivenza multiculturale e multireligiosa fecero di tutto per distruggere la sua grande biblioteca. Per giorni usarono bombe al fosforo, poi spararono sui vigili del fuoco che cercavano di intervenire.

Dall'antica Cina all'Alessandria dei califfi le biblioteche hanno continuato a bruciare. Più o meno per le stesse ragioni con cui Hitler fece appiccare il fuoco ai libri raccolti sulla piazza di Berlino:

Siamo dei barbari, ed è ciò che desideriamo essere

Mi fa riflettere questo. Tranne pensare che poi ci sono diversi modi, per cancellare le biblioteche. Modi civili, anche. Non con le fiamme, ma semplicemente chiudendo il rubinetto. Strangolandole per mancanza di fondi. Risultati garantiti, comunque.


La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...