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lunedì 27 aprile 2020

Se viaggiare è una guerra (perdente) contro l'oblio

Ci sono tanti modi di viaggiare, tante ragioni che accompagnano i nostri passi e danno forma alla nostra fame di distanza, ma forse il più importante (usando un termine obsoleto, mi verrebbe da dire: il più nobile) è quello di cui ci parla Claudio Magris in Microcosmi: viaggiare è farsi carico di ciò che sparisce, è cammino di retroguardia per prestare attenzione a ciò che rimane indietro, per assicurare, in qualche modo, sopravvivenza.

Come sottolinea Luigi Marfè in suo bellissimo saggio - Oltre la fine dei viaggi (Olschki editore) - per Magris la felicità del viaggiatore consiste nella scoperta di un angolo di mondo che segue un tempo diverso da quello del resto dell'universo.

Una periferia della Storia, un microcosmo, che non necessariamente è un regno perduto, una terra incognita.

Può essere anche la figura di un tronco dissolto ma non ancora del tutto cancellato, il profilo di una duna che si disfa, le tracce dell'abitare in una vecchia casa.

E aggiungo io, una parola di una lingua dimenticata, un nome che il tempo cancella su una lapide.

Guerriglia, guerriglia perdente, afferma Magris. Perdente e necessaria. Battaglia delle ragioni che resistono al tempo.

mercoledì 11 gennaio 2012

Se il mondo diventa troppo piccolo

Che fine faranno i viaggi? E con essi i racconti di viaggio, la letteratura che ci ha portato lontano, sul tappeto volante delle parole?

Insomma, nell'epoca del turismo di massa, del già visto in (quasi) ogni angolo del mondo, dei non-luoghi uguali ovunque, cosa si può attendere chi alla parola viaggio dà ancora un significato non banale?

Bella domanda, e se volete, una domanda a sua volta già logorata dall'uso. Già Claude Lévi-Strauss in Tristi tropici parlava di fine dei viaggi. Era il 1955 e da allora si sono sprecate le orazioni funebri sull'eclissi della meraviglia che si accompagna agli spostamenti nel mondo, sull'esaurimento di ogni autentica pulsione all'esplorazione, sull'invadenza del già noto, come si legge in un bellissimo saggio di Luigi Marfé uscito per l'editore Olschki.

Possibile, possibile che il pianeta sia diventato così piccolo? Possibile che si siano consumate tutte le parole? Il mondo è diventato davvero un deserto di noia?

O queste domande sono solo fame di nuovi stimoli che ci rimetteranno ancora in movimento, regalandoci altre mete e soprattutto altre possibilità di racconto?

Non so se viaggiare sia ancora un'arte, come affermavano viaggiatori di altri tempi (del resto si diceva anche della politica e guardate come siamo ridotti). So che dipende da noi, raggiungere o meno l'altrove.

giovedì 22 dicembre 2011

Quel bambino con naso piantato in un atlante

Un viaggio non ha bisogno di motivi. Non ci mette molto a dimostrare che si giustifica da solo. Pensate di andare a fare un viaggio, ma subito è il viaggio che vi fa o vi sfa.

Non conoscevo La polvere del mondo di Nicolas Bouvier, che in Italia ha pubblicato Diabasis solo qualche anno fa, ma che in Francia è ormai da molto tempo un caposaldo della letteratura di viaggio, storia del primo viaggio in Oriente dell'autore, anno 1953 e dici poco, un viaggio da Ginevra a Samarcanda a bordo di una vecchia Fiat Topolino.

Non lo conoscevo e debbo il primo incontro a un gran bel saggio di Luigi Marfè sulla fine dei viaggi e i resoconti dell'altrove nella letteratura contemporanea di cui prima o poi dovrò parlare.

Intanto un pugno di citazioni di Bouvier mi bastano e avanzano, perché dicono già molto di quello che è, dovrebbe essere il viaggio.

Viaggio che, guardate un po', non è accumulazione, ma sottrazione, alleggerimento, esperienza in cui si dovrebbe diventare riflesso, eco, corrente d'aria.

E viaggiatore che c'è prima del viaggio, di ogni viaggio:


E' la contemplazione silenziosa degli atlanti, su un tappeto, a pancia in giù, tra i dieci e i tredici anni, che dà la voglia di piantar tutto.

E per quanto mi riguarda, non è che ho viaggiato molto, o forse sì. Ma in definitiva sono sempre quell'adolescente disteso su un atlante, il naso dentro a una pagina del mondo.

martedì 6 dicembre 2011

Quando andare in treno non era viaggiare

Non considero viaggiare l'andare in treno, affermava perentoriamente John Ruskin, uno dei più raffinati intellettuali dell'Ottocento inglese, grande viaggiatore.

C'è stato un tempo, insomma, in cui il treno era un prodigio di velocità che sembrava sottrarre qualcosa, o molto, all'esperienza del viaggio. Così come è successo per l'automobile, il cui uso alcuni hanno osteggiato nemmeno si trattasse di vendere l'anima al diavolo, mentre per altri è stato come riscoprire il piacere della lentezza.

Treno sì, treno no. O treno come, forse è più giusto. Alta Velocità per presentarsi per tempo in un ufficio di Milano o Roma, oppure le infinite tappe della Transiberiana?

 Ciò che rimane indiscutibile è quanto ci ricorda Luigi Marfè in in suo saggio - Lo spazio raccontato nell'epoca del turismo - che, al di là del titolo decisamente ostico, è un'appassionante galoppata attraverso tanta letteratura di viaggio:


Resta però indiscutibile il fatto che i mezzi di trasporto trasformano la percezione del lontano

Del lontano e del vicino, aggiungo. Anche se poi la cosa più importante è attraversarli i posti. Non saltarli di slancio, con la forza dei mezzi e senza nemmeno uno straccio di fantasia.

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...