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domenica 14 settembre 2014

Quando si spengono le mille luci di New York

"La vita continua, la gente cambia", è quello che ha detto Amanda. Per lei bastava.

Tu volevi una spiegazione, un finale che attribuisse la colpa a chi la meritava, un finale di giustizia. Hai preso in considerazione la violenza e la riconciliazione.

Ma quello che ti resta è il presentimento che la tua vita svanirà in te, come un libro letto troppo in fretta, lasciandosi dietro una labile scia di immagini e di emozioni, fino a quando non ricorderai altro che un nome.

(Jay Mcinerney, Le mille luci di New York, Bompiani)

lunedì 8 settembre 2014

I fatti che ti portano fuori pista e le mille luci di New York

I fatti sono semplici, i fatti sono fatti
I fatti sono pigri, i fatti sono matti
I fatti dipendono dal punto di vista
Se non fai attenzione ti portano fuori pista

Così cantavano i Talking Heads, la band che più di tutte credo riassuma la scena newyorkese degli anni Ottanta. Così cantavano e queste parole ritrovo in Le mille luci di New York di Jay McInerney, romanzo divorato solo questa estate, molti anni dopo essersi imposto come best-seller, con tanto di film a ruota.

"Come hai fatto ad andare in rovina?" chiese Bill.
"In due modi", rispose Mike, "gradatamente prima, e poi di colpo"

E così nel libro di McInerney ritrovo anche le parole del grande Hem, in Fiesta.

Due citazioni che ci portano perfettamente dentro questa storia. Perché, in effetti, quali sono i fatti che hanno portato "fuori pista" il protagonista (il cui nome, in un libro imperniato sulla seconda persona, non è dato sapere)? Com'è che è andato in rovina?

Ecco, è questa la storia che si racconta, la storia di un giovane che è una nave che si incaglia su un fondale basso, che è un sipario che scende e non si sa se si riaprirà per un secondo atto, che è un'auto che ha innestato la retromarcia per tirarsi indietro da tutto ciò che sarebbe ragionevole e raccomandabile.

Non sarà granché originale, la trama. Ma poi metteteci la New York degli anni Ottanta, con i suoi locali, i ritmi che pulsano nelle notti e nelle vene, le luci che seducono e illudono, i fiumi di cocaina. Metteteci una buona pena capace di scavare dentro, a volte perfino di commuovere (penso allo scampolo di vita conclusiva della madre). E allora sì, questo è un libro che si fa davvero leggere.

mercoledì 9 aprile 2014

Scrivere è una specie di impresa fraterna

Anche quando insegnava scrittura creativa, il tocco di Carver era leggero.

Non prendeva neanche in considerazione l'idea che il suo compito fosse quello di scoraggiare la gente. Diceva sempre che c'erano già tante cose scoraggianti nel mondo, per chi voleva diventare uno scrittore contro ogni pronostico, ed era chiaro che parlava per esperienza diretta.

La critica, come del resto la narrativa, era per Ray un atto di empatia, un mettersi nei panni dell'altro. Non riusciva a capire gli scrittori che fanno stroncature e una volta mi ha anche rimproverato per aver pubblicato una recensione negativa.

Era convinto che scrivere prosa e poesia sia una specie di impresa fraterna.

(Jay McInerney, da Raymond Carver, Il mestiere di scrivere, Einaudi)

lunedì 31 marzo 2014

Se Raymond Carver temeva di non saper insegnare

Se Carver nutriva dubbi sulla possibilità di insegnare a scrivere, non ha però mai dubitato che si potesse "imparare" a scrivere. Dopotutto, aveva imparato anche lui: lo studente mediocre che veniva dal cuore rurale dello Stato di Washington ha imparato a scrivere la raffinata prosa che ha indotto i critici del Daily Telegraph di Londra a definirlo "il maestro del racconto americano moderno".

Così scrivono i curatori de Il mestiere di scrivere di Raymond Carver (Einaudi), un libro prezioso che raccoglie interventi, saggi, lezioni di scrittura creativa, istruzioni per l'uso del grande Raymond, dalla prima all'ultima riga una decisa smentita al dubbio di cui sopra: timido com'era, impacciato nel ruolo di docente, con la sensazione di trovarsi quasi sempre fuori posto, Carver non era solo uno che aveva imparato a scrivere. Era anche una persona che sapeva insegnare - per quanto ovviamente si possa insegnare a scrivere - e questo faceva generosamente, senza risparmiarsi.

E allora c'è tutto Raymond, in queste pagine. Da leggere per raccogliere qualche buon consiglio, ma ancora di più per avvicinarsi ancora di più a questo grande della letteratura americana. E per approfondire il rapporto tra scrittura, linguaggio e vita quotidiana, in un autore di cui Jay McInerney affermava:

Un aspetto di quello che Carver sembrava dirci - anche a chi di noi non era mai entrato in una segheria o un un parcheggio per case mobili - era che la letteratura può essere ricavata da una rigorosa osservazione della vita reale, dovunque e comunque vissuta, anche se con una bottiglia di ketchup Heinz sul tavolo e il continuo ronzio di fondo del televisore.


lunedì 3 marzo 2014

Carver, per cui scrivere era un'impresa fraterna

Anche quando insegnava scrittura creativa, il tocco di Carver era leggero.

Non prendeva neanche in considerazione l'idea che il suo compito fosse quello di scoraggiare la gente. Diceva sempre che c'erano già tante cose scoraggianti nel mondo, per chi voleva diventare uno scrittore contro ogni pronostico, ed era chiaro che parlava per esperienza diretta.

La critica, come del resto la narrativa, era per Ray un atto di empatia, un mettersi nei panni dell'altro.

Non riusciva a capire gli scrittori che fanno stroncature e una volta mi ha anche rimproverato per aver pubblicato una recensione negativa.

Era convinto che scrivere prosa e poesia sia una specie di impresa fraterna.

(Jay McInerney, da Raymond Carver, Il mestiere di scrivere, Einaudi)

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