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venerdì 12 aprile 2019

In Patagonia, alla ricerca della lingua che ha perso l'amore

- Ho capito, e che cosa si fa laggiù dove crescono i nomi?
- Niente, c'è il vento e si prendono i nomi e poi crescono.

Su questo libro di Adrian N. Bravi mi è cascato l'occhio solo qualche settimana fa, alla splendida libreria Diari di Bordo di Parma. Ero lì per una mia presentazione, ma pochi giorni più tardi sarebbe stata la volta di questo scrittore, che è nato a Buenos Aires, ma vive a Recanati, e già questo mi piace molto: come se la sua vita fosse un ponte tra Borges e Leopardi. 

Vai sicuro, mi hanno detto Antonello Saiz e Alice Pisu, i due librai. E certo che sì, di loro ci si può sempre fidare. La sera stessa ho attaccato L'idioma di Casilda Morena, anzi, mi ci sono immerso come succede con l'acqua del mare, quando è più tiepida e trasparente delle altre volte. Vi ho sentito il vento della Patagonia, il sentimento del viaggio in cui ci si perde per ritrovarsi, le strade che fanno le parole per imbattersi nella nostra vita, il sorriso di uno scrittore che deve essere stato felice mentre aggiungeva frase a frase.

Exòrma, certo, non sbaglia un colpo, mi sono ripetuto ancora una volta. Per poi scrollarmi di dosso anche questa affermazione e contentarmi di stare dentro questa storia. Adrian racconta di un giovane studente di linguistica che dal suo professore ha saputo di un'antica lingua della Patagonia che si credeva scomparsa e invece pare ancora parlata da due anziane persone. Come fare a impedire che si perda per sempre? Il ragazzo parte, attraverso l'oceano, arriva fino in fondo al continente americano, trova i due anziani che sì, sono gli ultimi depositari di quella lingua, solo che non la parlano: quella è stata la lingua del loro amore, non l'hanno più parlata da quando si sono separati.

E mentre anche il ragazzo trova altre parole per un amore che spunta, a fronte di quell'amore che non c'è più, ecco le parole che per quanto mi riguarda si fanno domanda. Una lingua muore quando non c'è più nessuno che la parla o muore quando non c'è più il sentimento a sostenerla? 

E' la casa dove abitiamo la lingua, la casa che fa di noi quello che siamo. Me n'ero dimenticato e questo libro me ne ha reso di nuovo consapevole. Casa può essere qualche brandello di conversazione in una terra sbattuta dal vento, in fondo a un continente.




 

lunedì 2 novembre 2015

Calvino e la bellezza dei racconti di una sola riga

La concisione è solo un aspetto del tema che volevo trattare, e mi limiterò a dirvi che sogno immense cosmologie, saghe ed epopee racchiuse nelle dimensioni d'un epigramma.

Nei tempi sempre più congestionati che ci attendono, il bisogno di letteratura dovrà puntare sulla massima concentrazione della poesia e del pensiero.

Borges e Bioy Casares hanno raccolto un'antologia di "Racconti brevi e straordinari". Io vorrei mettere insieme una collezione di racconti d'una sola frase, o d'una sola riga, se possibile.

Ma finora non ne ho trovato nessuno che superi quello dello scrittore guatemalteco Augusto Monterroso: "Cuando despertò, el dinosauro todavìa estaba allì".

                                                 (Italo Calvino, Lezioni americane, Oscar Mondadori)

lunedì 31 agosto 2015

La Lisbona di Tabucchi e di tutti noi

Ci sono città che sembrano vivere nella carta prima ancora che nelle pietre di cui sono fatte. Città immaginarie, ma a differenza di quelle di Italo Calvino reali, così reali da poter essere rintracciate in una carta, spiegate in una guida, percorse con i nostri piedi e affrontate con tutti i nostri sensi. Immaginarie e reali, ma soprattutto raccontate, plasmate, reinventate dalla letteratura. 

Come Buenos Aires, per cui non riesco a prescindere da Jorge Luis Borges. E che grazie a Borges sento di aver visitato, anche se in realtà non ci ho messo mai piede.

A Lisbona invece ci sono stato e volentieri ci ritornerei. Intanto è come se ci fossi stato un'altra volta, grazie a un libro che consiglio caldamente: A Lisbona con Antonio Tabucchi di Lorenzo Pini (Giulio Perrone editore). Sottotitolo secco e non casuale: Una guida. Attenzione, non una guida letteraria. Perché Lisbona, che è un'altra delle grandi città della letteratura, qui è raccontata nella sua verità. 

Ed è davvero Lisbona, anche se la inseguiamo attraverso il filo delle vicende di Sostiene Pereira. Oppure nell'allucinazione di Requiem, che allucinazione è, ma anche vagabondaggio per una città che non è da meno della Dublino di Joyce o della Praga di Kafka. 

E' davvero Lisbona, perfino quando seguiamo l'ombra del grande Fernando Pessoa e di tutti in suoi eteronomi - in un gioco di specchi e rimandi tra l'uno e i molti che siamo - Quel Fernando Pessoa che Antonio Tabucchi non ha solo amato e tradotto, perché siamo molto oltre sulla via della complicità e della immedesimazione....

Lisbona attraverso Tabucchi, in un libro che è tutt'altro che un gioco letterario o uno sfoggio di erudizione. Ci sono nomi, luoghi, circostanze.... Ma c'è soprattutto Lisbona, bellissima, e ancora più bella attraverso la forza della parola scritta. 

lunedì 1 dicembre 2014

Come pedine nella scacchiera di un'altra Cina

In Piazza dei Mille Venti si gioca sempre a go, nonostante il freddo che leva il fiato. I giocatori coperti di brina sembrano pupazzi di neve, mentre le scacchiere di granito, con tutte le partite che hanno accolto, non si sono solo consumate: sono diventate visi, pensieri, preghiere.

E' questa la prima immagine di un libro sorprendente, distillato di parole ed emozioni che ci porta nella Manciuria occupata dal Giappone. La giocatrice di go di Shan Sa (Bompiani) è un romanzo che in realtà è due romanzi, intreccio di due storie: lei la ragazza cinese che gioca a go, una vittoria dopo l'altra sotto lo sguardo diffidente e perplesso dei suoi connazionali; lui, il soldato dell'esercito imperiale che abbandona Tokio promettendo alla madre di scegliere la morte piuttosto che la vergogna.

Due persone che più distanti non si potrebbe immaginare: ma che gli eventi della Storia e le circostanze della vita avvicinano passo dopo passo, con la forza dell'ineluttabilità.

Sono loro, le pedine disposte nella scacchiera. Loro il bianco e il nero che mani invisibili muovono nel contesto di un gioco troppo grande e troppo crudele che mette di fronte due culture e due paesi in guerra.

Non ho più paura di nulla. Questa esistenza è solo una partita a go!

Un turbinio di eventi e di scelte che non sono scelte, fino al riconoscimento del destino che è al varco, fino all'accettazione di ciò che dovrà accadere.

E così arriva dalla Cina e mi prende di sorpresa una voce che mi porta lontano, alla ricerca di sintonie e corrispondenze. Fino in Argentina, fino al grande Borges, ai suoi scacchi, a quella scacchiera dove noi siamo i pezzi, mossi da giocatori che non sapremo mai riconoscere.

sabato 26 luglio 2014

Abele e Caino, nelle parole del grande Borges

Abele e Caino s'incontrarono dopo la morte di Abele. Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano, perché erano ambedue molto alti. 

I fratelli sedettero in terra, accesero un fuoco e mangiarono. Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno. 

Nel cielo spuntava qualche stella, che non aveva ancora ricevuto il suo nome. Alla luce delle fiamme, Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra e lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca chiese che gli fosse perdonato il suo delitto. 

Abele rispose: "Tu hai ucciso me, o io ho ucciso te? Non ricordo più: stiamo qui insieme come prima". 

"Ora so che mi hai perdonato davvero" disse Caino "perché dimenticare è perdonare. Anch'io cercherò di scordare". 

Abele disse lentamente: "È così. Finché dura il rimorso dura la colpa".

(Jorge Luis Borges, da Elogio dell'ombra)

giovedì 24 ottobre 2013

Quando il dittatore proibì il Don Quijote

Questa mi mancava, lo scopro solo ora. Nel 1981 il Cile del dittatore Pinochet non trovò niente di meglio che proibire il Don Quijote, nemmeno fosse un pericoloso pamphlet sovversivo.

Non so quali ragione spinsero a tanto. Forse fu la contagiosa possibilità di libertà che circola per quelle pagine. O peggio ancora,  fu l'inammissibile esempio di un uomo, tutt'altro cavaliere rispetto ai cavalieri nostrani, che coltivava i suoi sogni nella vita di ogni giorno. O anche l'altrettanto inammissibile idea che, nel dubbio, è http://www.blogger.com/blogger.g?blogID=233193699762548709#editor/target=post;postID=2365600871977561500sempre meglio tifare per chi parte lancia in resta contro i mulini a vento piuttosto che per chi getta la spugna.

Non lo e mi sa che nemmeno ho voglia di saperlo. La prendo come una bella misura dell'idiozia - ovviamente criminale - che sono capaci di manifestare i regimi militari.

Cito da Gian Luigi Beccaria sulla Stampa:

Borges diceva  che il vero mestiere dei monarchi è stato quello di costruire fortificazioni e incendiare biblioteche. La storia è difatti un elenco infinito di roghi di libri

Vero, verissimo. Ma mi va di guardarla anche in un altro modo: provo piacere al pensiero di questi dittatori, di questi eserciti armati fino ai denti, che si lasciano spaventare dalla carta. Come l'elefante con il topolino.


sabato 24 agosto 2013

Cercando racconti di una sola riga

La concisione è solo un aspetto del tema che volevo trattare, e mi limiterò a dirvi che sogno immense cosmologie, saghe ed epopee racchiuse nelle dimensioni d'un epigramma.

Nei tempi sempre più congestionati che ci attendono, il bisogno di letteratura dovrà puntare sulla massima concentrazione della poesia e del pensiero.

Borges e Bioy Casares hanno raccolto un'antologia di "Racconti brevi e straordinari". Io vorrei mettere insieme una collezione di racconti d'una sola frase, o d'una sola riga, se possibile.

Ma finora non ne ho trovato nessuno che superi quello dello scrittore guatemalteco Augusto Monterroso: "Cuando despertò, el dinosauro todavìa estaba allì".

(Italo Calvino, Lezioni americane, Oscar Mondadori)

domenica 9 giugno 2013

Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo

Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere una etimologia.
 Due impiegati che in un caffè del sud giocano in silenzio agli scacchi.
 Il ceramista che premedita un colore e una forma.
 Il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace.
 Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto.
 Chi accarezza un animale addormentato.
 Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto.
 Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
 Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
 Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.

(Jorge Luis Borges, I giusti)

mercoledì 22 maggio 2013

Perchè la letteratura argentina ci è indigesta?

Che cosa ne sa veramente il lettore italiano - non parlo dello specialista - della letteratura argentina?

E che cosa ne ha tratto il lettore per definizione non specialista che dovrebbe essere lo scrittore della provincia italiana all'epoca della globalizzazione letteraria?

Perché se è vero, come recita una vecchia battuta, che l'argentino è un francese di origini italiane, è altrettanto vero che la sua migliore letteratura, così segreta, enigmatica, polimorfa, perversa, a volte paranoica, in ogni caso così aliena dagli imperativi della verosimiglianza e del colore locale, è sempre stata un po' indigesta ai nostri palati.

(Da Massimo Rizzante, Dimenticare Borges, Repubblica del 3 maggio 2013)

lunedì 11 marzo 2013

Quando Borges si ritrovò il suo primo libro

Il libro fu stampato in gran fretta in cinque giorni perché si rendeva necessario un nostro nuovo viaggio in Europa... fu pubblicato con grande disinvoltura.

Non c'era un indice e le pagine non erano numerate. Mia sorella fece una xilografia per la copertina, e ne feci stampare trecento copie. In quei giorni pubblicare un libro era un'avventura piuttosto privata.

Non mi venne neanche in mente di mandare delle copie alle librerie o ai critici. La maggior parte le regalai.

Ricordo uno dei miei metodi di distribuzione. Avendo notato che molti di quelli che andavano negli uffici di "Nosotros" (una delle più vecchie e più serie riviste letterarie dell'epoca) lasciavano i cappotti appesi agli attaccapanni dell'anticamera, portai cinquanta o cento copie ad Alfredo Bianchi, uno dei redattori.

Bianchi mi guardò stupefatto e disse: Non ti aspetterai mica che venda questi libri, vero? 

No, risposi, non sono pazzo fino a questo punto, pensavo di chiederti il favore di infilarne qualcuno nelle tasche di quei cappotti. Lui lo fece.

(Jorge Luis Borges, Abbozzo di autobiografia, a proposito della sua prima raccolta, Fervor de Buenos Aires, 1923)


sabato 16 febbraio 2013

Il grande Borges: io non scrivo pagine definitive

Io non scrivo pagine definitive. 

Mi sembrò così strano quando Enrique Larreta pubbicò un libro, La gloria de Don Ramiro, e scrisse 'edizione definitiva'. 

Come poteva sapere che il giorno dopo non gli sarebbe venuta la voglia di mettere il punto dove aveva messo punto e virgola, come se ne poteva difendere, come poteva accettare tutti gli aggettivi, tutta la punteggiatura di quel libro, come poteva non pensare che sarebbe stato meglio scrivere color rosso dove aveva messo color carne, come poteva dire edizione definitiva, le edizioni definitive si fanno quando uno è morto, allora certo che sono definitive, ma prima tutto è correggibile, migliorabile...

(Jorge Luis Borges, Io, poeta di Buenos Aires, Datanews)

giovedì 23 agosto 2012

E se sono stati gli islandesi a inventare il romanzo?

 Diceva il grande Jorge Luis Borges, che era argentino e con l'Islanda apparentemente non c'entrava nulla:

A partire dal dodicesimo secolo gli islandesi scoprono il romanzo, l'arte di Cervantes e di Flaubert, senza che il resto del mondo se ne accorga

Solo apparentemente non c'entava nulla, è ovvio: perché a qualsiasi lingua appartengono i libri alla fin fine si ritrovano tutti nella stessa biblioteca, una biblioteca universale che non può non essere di tutti. Però è vero, questa cosa dell'Islanda si conosce poco.

Nemmeno io ho mai letto le saghe, e sì che anche in Italia ormai sono disponibili in diverse buone traduzioni. Sarà che le ho sempre classificate come una lettura da addetti ai lavori o da adepti di un folclore nordico che alla fine stanca. Con tutta la simpatia per i vichinghi e per le loro straordinarie navi con cui sfidavano i mari più gelidi.

Però che fascino, queste saghe, parola che di per se stessa fa vibrare sensazioni di lontananza, ma pure di intimità, come a evocare sere di neve e vento e racconti condivisi intorno a un fuoco.

Saga, in lingua norrena (l'antica lingua dei popoli della Scandinavia), significa proprio racconti. Da qualche parte ho letto che l'origine della parola richiamerebbe la figura di una dea misteriosa, della stessa stirpe di Odino e Thor, definita come "colei che vede".

Credo che mai o quasi mai si conoscano gli autori delle saghe. Molte notti, molte veglie, molte versioni passarono prima che qualcuno trovasse il modo di metterle per scritto. Ho letto anche che nell'islandese di oggi la parola "autore" richiama un'altra parola che significa "chi inizia una storia".

In fondo come per quell'altra "saga", che parlava di una guerra sotto le mura di Troia, solo che invece dei ghiacci e i vulcani di Islanda c'erano i lidi del Mediterraneo. I versi di Omero come le saghe dell'Islanda.

Vedere, raccontare, iniziare.

Appena posso me le vado a comprare le saghe, me le porto a casa per regalarmi un sogno del Nord.

lunedì 21 maggio 2012

Se gli odori dominano il cuore degli uomini

Colui che domina gli odori domina il cuore degli uomini.

È questa citazione, la prima cosa che mi ha riportato a galla, dopo essermi tuffato dentro le pagine di questo singolare, spiazzante, affascinante libro di Stefania Valbonesi. Una citazione, come il bordo di una vasca a cui aggrapparsi per riprendere fiato, per raccogliere i pensieri.

Parole che ho incontrato diverso tempo fa, leggendo Il Profumo di Patrick Süskind e che oggi mi viene da piegare diversamente, riflettendo su come gli odori non si lascino imbrigliare, gli odori semplicemente ci sono e condizionano le nostre vite.

Sono emozioni, gli odori. Sono onde che si agitano dentro, sono ricordi che affiorano, sono impronte che segnano le nostre relazioni.

Sono importanti gli odori, ma la letteratura poche volte ha voluto, o saputo misurarsi con essi. Come se fossero stati lasciati in deposito ai grandi  investigatori delle memorie individuali e domestiche, Marcel Proust su tutti, oppure ai poeti come Charles Baudelaire, perché si sa, i poeti sanno che è attraverso i sensi, perfino attraverso l'olfatto, che si può arrivare alle cose infinite.

Stefania Valbonesi l'odore lo mette al centro di un vero romanzo, lo usa come un'arma, un alibi, un movente. Intorno all'odore si dipana una trama dove non mancano il delitto e l'inchiesta.

Non perché oggi sia necessario, magari per catturare i lettori. Questo non è un giallo, almeno non lo è secondo le convenzioni del genere. Non lo è, anche se la terra dove si dipana questa storia non mi sembra molto lontana dalla Sicilia di Sciascia e Camilleri. Anche se le atmosfere sono quelle di certi polizieschi metafisici che in altri anni ci sono arrivati dal Sudamerica, alla Borges per intendersi.

Però se l'odore ha a che vedere con ciò che di noi è meno consapevole, e magari più animalesco, perché no, richiama anche la legge della giungla, se legge c'è. Si fiuta il pericolo, si traccia il territorio, si dipanano attrazioni e repulsioni. Ci si eccita all'odore del sangue.

E se forse può essere letto con un giallo, c'è molto di più, in questo libro. In un piacere della lettura – questa è la prima cosa – che non lascia pause.

Per questo quando sono tornato a galla, mi sono fermato. Ho raccolto le mie emozioni. E naturalmente, ho respirato a fondo.

(dalla mia prefazione a Lo strano caso del Barone Gravina di Stefania Valbonesi, Romano editore)












mercoledì 9 novembre 2011

Se il libro di sabbia è dentro la Rete



Con la mano sinistra sopra il frontespizio, cercai la prima pagina con il pollice quasi incollato all'indice. Tutto fu inutile: tra il frontespizio e la mano si interponevano sempre nuovi fogli.Era come se sorgessero dal libro.
"Adesso cerchi la fine"
Fallii di nuovo, riuscii appena a balbettare con una voce che non era la mia:
"Non è possibile"
Sempre sottovoce, il venditore di bibbie mi disse:

"Non è possibile, ma è. Il numero di pagine di questo libro è infinito. Nessuna è la prima, nessuna è l'ultima"

Vi ricordate il Libro di sabbia di Jorge Luis Borges? E' il racconto in cui chi narra acquista un libro senza principio né fine, nè centro nè ordine, un libro composto da un numero infinito di pagine numerate arbitrariamente.

Primo suggerimento: se non l'avete letto, leggetelo (Adelphi lo ha riproposto in una raccolta di racconti non troppi anni fa).

Secondo suggerimento: se pensate che tutto questo sia solo il frutto della fantasia - direi dei brividi metafisici - dello scrittore argentino, fermatevi un attimo. Il libro di sabbia è già qui, è fra di noi. E' nella rete, e nell'infinità di parole e pagine che possiamo raccogliere nel web, attraverso gli ereader.

Un universo da leggere dove non c'è né prima né ultima pagina e tanto meno ordine. Opportunità senza confini, ma sempre di più anche di smarrimento. Quella vertigine che dobbiamo provare quando siamo di fronte al troppo.

venerdì 23 settembre 2011

I "giusti" di Borges salvano il mondo

Scoperta solo ieri e me ne vergogno, io che la poesia del grande Borges me la porto dietro fin dagli anni del liceo. Male, perché è una poesia che fa bene alla vita.

 
Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere una etimologia.
Due impiegati che in un caffè del Sud giocano in silenzio agli scacchi.
Il ceramista che intuisce un colore e una forma.
Il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace.
Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto.
Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.

(I Giusti di Jorge Luis Borges)

martedì 21 giugno 2011

Il dittatore che si lasciò spaventare da un libro

Questa mi mancava, lo scopro solo ora. Nel 1981 il Cile del dittatore Pinochet non trovò niente di meglio che proibire il Don Quijote, nemmeno fosse un pericoloso pamphlet sovversivo.

Non so quali ragione spinsero a tanto. Forse fu la contagiosa possibilità di libertà che circola per quelle pagine. O peggio ancora,  fu l'inammissibile esempio di un uomo, tutt'altro cavaliere rispetto ai cavalieri nostrani, che coltivava i suoi sogni nella vita di ogni giorno. O anche l'altrettanto inammissibile idea che, nel dubbio, è sempre meglio tifare per chi parte lancia in resta contro i mulini a vento piuttosto che per chi getta la spugna.

Non lo e mi sa che nemmeno ho voglia di saperlo. La prendo come una bella misura dell'idiozia - ovviamente criminale - che sono capaci di manifestare i regimi militari.

Cito da Gian Luigi Beccaria sulla Stampa:

Borges diceva  che il vero mestiere dei monarchi è stato quello di costruire fortificazioni e incendiare biblioteche. La storia è difatti un elenco infinito di roghi di libri

Vero, verissimo. Ma mi va di guardarla anche in un altro modo: provo piacere al pensiero di questi dittatori, di questi eserciti armati fino ai denti, che si lasciano spaventare dalla carta. Come l'elefante con il topolino.


mercoledì 15 giugno 2011

Don Quijote e Borges, le due biblioteche


Quanti tipi di biblioteche ci sono? Infinite, ovviamente, ma leggendo Umberto Eco, ancora lui, ho intuito che grosso modo si possono suddividere in due categorie. Le biblioteche che ti spingono verso il mondo e le biblioteche in cui provi a rinchiudere il mondo.

Se le une e le altre potessero essere catalogate, così come si fa con le specie animali e vegetali, allora varrebbe la pena usare due nomi - profondamente letterari - che corrispondono a libri che nella mia personale biblioteca contano moltissimo.

Don Quijote, innanzitutto, con la sua biblioteca piena di romanzi cavallereschi, avventure e imprese. La sua storia comincia quando chiude i libri e si lascia la casa alle spalle per inoltrarsi nel mondo. Quei libri se li porta dietro, tutti nella testa e nel cuore.

E il grande Borges, poi, lo scrittore della biblioteca universale, della biblioteca dove c'è tutto (e tutto è già stato scritto), la biblioteca dove i libri si parlano tra loro

Scrive Umberto Eco:

Don Quijote ha cercato di trovare nel mondo fatti, avventure, dame che la sua biblioteca gli aveva promesso; e quindi ha voluto e creduto che l'universo fosse come la sua biblioteca. Borges, meno idealista, ha deciso che la sua biblioteca era come l'universo - e si capisce quindi perché non ha più provato la necessità di uscirne

Chissà da ragazzino, inseguendo i personaggi di Emilio Salgari, la mia biblioteca era più modellata su quella del buon Don Quijote. Ma oggi, come sento vicino a me le parole di Borges, nel suo Elogio dell'Ombra

Tra l'alba e la notte è compresa la storia
universale. Nella notte io scorgo
ai miei piedi l'errare dell'ebreo,
Cartagine annientata, Inferno e Cielo.
Dammi, Signore, letizia e coraggio
per toccare la vetta del mio viaggio

martedì 4 gennaio 2011

Tra il fuoco e il ghiaccio, le saghe di Islanda

 Diceva il grande Jorge Luis Borges, che era argentino e con l'Islanda apparentemente non c'entrava nulla:

A partire dal dodicesimo secolo gli islandesi scoprono il romanzo, l'arte di Cervantes e di Flaubert, senza che il resto del mondo se ne accorga

Solo apparentemente non c'entava nulla, è ovvio: perché a qualsiasi lingua appartengono i libri alla fin fine si ritrovano tutti nella stessa biblioteca, una biblioteca universale che non può non essere di tutti. Però è vero, questa cosa dell'Islanda si conosce poco.

Nemmeno io ho mai letto le saghe, e sì che anche in Italia ormai sono disponibili in diverse buone traduzioni. Sarà che le ho sempre classificate come una lettura da addetti ai lavori o da adepti di un folclore nordico che alla fine stanca. Con tutta la simpatia per i vichinghi e per le loro straordinarie navi con cui sfidavano i mari più gelidi.

Però che fascino, queste saghe, parola che di per se stessa fa vibrare sensazioni di lontananza, ma pure di intimità, come a evocare sere di neve e vento e racconti condivisi intorno a un fuoco.

Saga, in lingua norrena (l'antica lingua dei popoli della Scandinavia), significa proprio racconti. Da qualche parte ho letto che l'origine della parola richiamerebbe la figura di una dea misteriosa, della stessa stirpe di Odino e Thor, definita come "colei che vede".

Credo che mai o quasi mai si conoscano gli autori delle saghe. Molte notti, molte veglie, molte versioni passarono prima che qualcuno trovasse il modo di metterle per scritto. Ho letto anche che nell'islandese di oggi la parola "autore" richiama un'altra parola che significa "chi inizia una storia".

In fondo come per quell'altra "saga", che parlava di una guerra sotto le mura di Troia, solo che invece dei ghiacci e i vulcani di Islanda c'erano i lidi del Mediterraneo. I versi di Omero come le saghe dell'Islanda.

Vedere, raccontare, iniziare.

Appena posso me le vado a comprare le saghe, me le porto a casa per regalarmi un sogno del Nord.

venerdì 10 dicembre 2010

Con Borges, il rimorso per qualsiasi morte

Riflettendo sul tempo, riflettendo sui crimini e i furti della Storia (sì, proprio la storia dei libri di testo), riflettendo su un libro così importante che è un pezzo che su di esso non riesco a scrivere nemmeno una riga (Gli scomparsi di Daniel Mendelsohn), oggi l'onda di un ricordo mi ha sospinto di nuovo verso le poesie di Jorge Luis Borges. Questa in particolare: Rimorso per qualsiasi morte. Una poesia su cui fa bene meditare.


Libero dalla memoria e dalla speranza,
illimitato, astratto, quasi futuro,
il morto non è un morto: è la morte.
Come il Dio dei mistici,
al Quale si devono rifiutare tutti i predicati,
il morto ubiquamente estraneo
non è che la perdizione e assenza del mondo.
Tutto gli abbiamo rubato,
non gli abbiamo lasciato né un colore né una sillaba:
qui è il patio che non condividono più i suoi occhi,
là è il marciapiede dove fu in agguato la sua speranza.
Perfino ciò che pensiamo
potrebbe stare pensandolo anche lui;
ci siamo spartiti come ladri
il flusso delle notti e dei giorni

mercoledì 13 ottobre 2010

Dall'Argentina quel libro che ci mancava

Un mattino d'ottobre del 192..., quasi a mezzogiorno, sei uomini entravano nel Cimitero del Oeste recando a braccia una bara di modesta fattura (quattro fragili tavolette) e di tale leggerezza che sembrava di portarvi non la carne sconfitta di un uomo morto, ma la delicata materia di un poema concluso

Ecco, è questo l'incipit, di Adàn Buenosayres, poderoso romanzo di Leopoldo Marechal che in questi giorni è stato presentato alla Fiera di Francoforte.

Non l'ho ancora letto, ma ce l'ho già con me, in rampa di lancio per così dire. Ogni giorno accarezzo la splendida copertina dell'edizione italiana e non mi fa paura la sua mole. E' un periodo in cui prediligo le letture svelte, ma presto attaccherò le sue 700 e passa pagine.

Comincerò da lì, da quelle parole in cui il narratore accompagna il feretro del poeta Adàn e dichiara di volerci raccontare i tre giorni decisivi della vita di questo suo amico perduto. E andrò avanti.

Mi aspetto molto, da questo libro. Ma intanto sono contento solo per il fatto che sia uscito. Perché è così: uscito nel 1948, dopo ben 20 anni di lavoro, Adàn Buenosayres è stato riconosciuto come il capolavoro della letteratura argentina del Novecento e  il suo autore è stato affiancato ai nomi di Borges e Cortazar. Ma in Italia nessuno lo aveva mai pubblicato. Ci mancava, semplicemente.

E' uscito ora per la Vallecchi. Ed è davvero un buon segno, soprattutto in un periodo così difficile, quando una casa editrice dimostra non solo intelligenza, ma anche il coraggio della scelta.

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