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domenica 14 giugno 2020

Le storie come onde, nell'isola dalle ali di farfalla

Mare greco, mare di dei ed eroi le cui storie sono come le onde: una dietro l’altra, a prendere e lasciare sabbia per rimodellare le sponde 

Un’isola della Grecia, baie solitarie e sentieri di pastori all’interno: Astypalea, può essere questo l’altrove per leccarsi le ferite e scappare dalle delusioni. 

È il posto che Tito, uomo da sempre appassionato di politica, sceglie per fuggire da un’Italia dove non si riconosce più, segnata dall’intolleranza, dal pregiudizio. Ma ancora una volta non resiste alla tentazione di scrivere a Paolo con cui, malgrado l’età e i punti di vista diversi, da anni si confronta. 

Il loro è un canto e controcanto, tra richiami all’arte e alla poesia, mai banali, un pugno nell’ombelico della ignoranza diffusa e sempre in cattedra in un Belpaese dimentico della sua storia di approdo e di accoglienza dei sogni di gran parte dell’Eurasia antica e moderna. 

Sono cartoline da un’isola remota, messe l’una dietro l’altra, un autentico filo di Arianna per uscire dal labirinto e dal buio di un tunnel, un luogo angusto dove i confini contano più degli spazi aperti. Ma anche una conversazione sulle possibilità e sulle utopie, che diventa il terreno ideale per coltivare un’idea di futuro. Perché è quando le cose vanno peggio che si può davvero ripartire. 

«Vorrei sentirmi addosso questo uscire che è entrare, questo partire che è lasciare per diventare altro, che è perdersi e quindi forse ritrovarsi. E questa libertà, questa pienezza: vele gonfie di vento e una rotta che asseconderemo».

(dalla presentazione del libro L'isola dalle ali di farfalla di Tito Barbini e Paolo Ciampi, Spartaco edizioni)

giovedì 29 novembre 2018

A Buenos Aires una storia di amore e anarchia

Comincia con un refolo di vento che viene dall'Atlantico, col caldo dell'estate australe, con i ricordi che si dipanano come un gomitolo tra le vie di Buenos Aires, con l'occhio che cade su lettere che sono già un romanzo. Comincia con un viaggio che sospinge verso un altro continente per poter diventare un viaggio nel tempo. Comincia perdendo subito la strada, perché è solo così che gli enigmi di una vita potranno trovare se non un senso almeno una qualche risposta nella lingua del cuore. 

Perché poi cos'è un viaggio se non il sogno di una storia da raccontare? 

Così si domanda Tito Barbini, quasi all'inizio del suo ennesimo viaggio in quell'Argentina che da sempre gli è altrove fedele, così si domanda e già è evidente il desiderio, anzi, il bisogno di raccontarla, questa storia.

E come sempre nelle sue pagine, anche in questo suo ultimo libro  - Severino e América. Storia d'amore e anarchia nella Buenos Aires del primo Novecento (Mauro Pagliai editore) - ci si smarrisce per ritrovarsi e ci si ritrova per smarrirsi ancora: è il destino di Tito, come del suo lettore che, tra le altre cose, questa volta ancora più di altre gode di una magnifica incertezza: tra le mani ha un romanzo o un reportage, un viaggio o un atto di amore?

Storia di amore e anarchia, recita il sottotitolo: e vai a sapere se l'amore viene prima dell'anarchia o viceversa. L'uno e l'altra, in ogni caso, alimentano la storia struggente di Severino Di Giovanni e di América, del sovversivo venuto dall'Italia e della ragazzina di Buenos Aires.

Un amore tenero e tenace, un amore pulito, capace di resistere a tutto, agli agguati del destino come alle sentenze che discendono dalle scelte. Di resistere e di riscattare illusioni, mortificazioni, errori, crimini. 

Ci si tuffa, in questa storia, non per vedere come andrà a finire, ma perché ci sono sentimenti di cui ancora oggi abbiamo bisogno, oggi forse ancora più di una volta. E possono essere sentimenti che ci legano a una persona scelta tra infinite altre, ma anche sentimenti che alimentano un'idea di giustizia che riguarda tutti.

E si finisce per provare nostalgia per quella Buenos Aires di miserabili emigrati, di tristi suonatori di fisarmonica, di banditi sognatori, la stessa Buenos  Aires di un altro libro che ho letto in questi giorni, Letti da un soldo di Enrique González Tuñón (Arkadia editore). Autore che, guarda la coincidenza, fu presente all'esecuzione di Severino.

Si finisce per provare nostalgia per quell'idea impossibile e generosa che fu l'anarchia, quell'idea così capace di stare dalla parte del torto con la forza della ragione, o viceversa. 

Quell'idea che finora per me era soprattutto una canzone di Francesco Guccini e qualche verso di Pietro Gori. E ora, grazie a Tito, è anche una musica che si spenge in un vicolo imprecisato della città del tango. 



domenica 7 maggio 2017

Lungo i confini, per capire l'Europa che è e forse sarà

Comincia con un mappamondo in precario equilibrio nella stanza del figlio, assediato da pastelli colorati e da tante domande, ma diventa presto un lungo viaggio, anzi una sequenza di viaggi, non in Europa, ma intorno all'Europa.

Comincia interrogandosi sulla frontiera perduta - illusione di tutti coloro che, come il sottoscritto, hanno pensato a un'altra Europa dopo la caduta del Muro di Berlino - ma inevitabilmente si ritrova a fare i conti con i confini che da allora si sono persino moltiplicati e spesso sono anche diventati muro e filo spinato.

Ed è lì, ai margini dell'Europa, in luoghi che fino a qualche tempo fa era facile ignorare, che si può comprendere meglio cosa l'Europa è diventata, cosa siamo diventati noi.

Che bel libro che è Sui confini. Europa, un viaggio sulle frontiere di Marco Truzzi, pubblicato da Exòrma, casa editrice che difficilmente sbaglia un colpo. Nonostante il titolo, che odora di saggio, è un libro di viaggio, un gran libro di viaggio. Dall'Europa che è in Africa, nell'enclave spagnola di Melilla, dove preme la disperazione di un intero continente, all'Europa che si sottrae all'Europa dell'ordinata e indifferente Svizzera. Dal nord della Scandinavia, dove davvero non è tutto oro quello che luccica e dove anzi il gioco delle identità e delle esclusioni si è fatto complesso, fino ai luoghi della disperazione di Calais e Idomeni. Lungo frontiere nuove e vecchie, confini dimenticati e poi ritornati di attualità, per raggiungere alla fine il luogo che non è frontiera segnata sulle mappe, ma che più di tutti è frontiera, anzi frattura, taglio netto tra un prima e dopo, luogo dove l'Europa è morta e da lì ha provato a rinascere: Auschwitz.

Bello, bello davvero questo libro, che sa sfuggire alle tentazioni del discorso autoreferenziale, delle tesi precostituite, della dimostrazione di ciò che si voleva dimostrare. Che si fa occhi che non si stancano di guardare, dita che cercano su una carta una destinazione che non si era messa in conto, domande alimentate da una salutare curiosità.

E l'autore - insieme all'amico Angelo, fotografo e compagno di viaggio - non si tira mai indietro. E nella scrittura c'è con tutte le emozioni che in viaggio del genere può destare. Non solo infinita tristezza, ma anche capacità di raccontare e raccontarsi con umorismo. Se non ci credete, leggete le pagine sui due dispersi in una qualche strada di una Svezia che è quasi Norvegia: con la Volvo in panne e le renne che forse sono alci.....

Ci ho ritrovato tante delle cose che anch'io ho provato a scrivere, magari nei libri con Tito Barbini, da Caduti dal Muro a I sogni vogliono migrare. Ma questo non c'entra, quello che conta è che questo è un libro che fa bene leggere. 

giovedì 11 agosto 2016

In viaggio con Tito, a caccia di ombre

Racconta Luis Sepùlveda in Patagonia Express:

Iniziai a camminare nel parco, poi per le strade deserte, e all'improvviso mi accorsi che l'eco dei miei passi si moltiplicava. Non ero solo. Non sarei stato solo mai più. Coloane mi aveva passato i suoi fantasmi, i suoi personaggi, gli indio e gli emigranti di tutte le latitudini che abitano la Patagonia e la Terra del Fuoco, i suoi marinai e i suoi vagabondi di mare.

L'avevo già incontrata, questa frase, però sono contento che Tito Barbini l'abbia scelta come epigrafe de Il cacciatore di ombre, che dopo esser uscito per Vallecchi, viene riproposto ora da Aska.

Soprattutto libro che non ci sarebbe mai stato senza la scoperta dell'autore di non essere più solo. Aveva per compagno di viaggio un uomo che solo per l'anagrafe non c'era più, Don Patagonia, straordinaria figura di missionario ed esploratore.

Da scoperte così, ne sono convinto, devono essere segnati i nostri viaggi. Per dire, come fate a percorrere ciò che rimane del Vallo di Adriano, nel nord dell'Inghilterra, senza avvertire alle vostre spalle i passi dell'imperatore e dei suoi centurioni? Come fate a incamminarvi per la Via Francigena senza lasciarvi accompagnare dalle ombre dei suoi pellegrini?

Non siamo mai soli, nei nostri viaggi. Non lo dobbiamo essere. Coltiviamo la compagnia che ci arriva da altri tempi. Altre profondità regalano ai nostri viaggi.

mercoledì 13 gennaio 2016

Tito Barbini e quel bufalo che scarta di lato

Ricordate Buffalo Bill di Francesco De Gregori? Quella differenza che salta agli occhi tra un bufalo e una locomotiva?  Un treno va dritto, sulla strada tracciata dai binari, dritto fino alla stazione successiva, male che vada può accumulare ritardi. Un bufalo, no, non ha strade segnate: può diventare preda di un cacciatore, cadere sotto i suoi colpi, ma intorno a sè ha la prateria e può sempre scartare di lato.

Ecco, è da questa canzone - ma soprattutto dalla consapevolezza di essere partito come treno per poi farsi bufalo che scarta di lato - che comincia Quell'idea che ci era sembrata così bella, ultimo libro di Tito Barbini (Aska edizioni), il più intenso, il più sofferto: libro di viaggio anche questo - non saggio o autobiografia - ma viaggio nel tempo, viaggio nella storia che è quella di Tito e insieme quella dei tanti che generazione dopo generazione si sono spesi generosamente per un'idea che prometteva giustizia, eguaglianza, libertà.

Questa è la mia storia, afferma con orgoglio Tito, nella prima pagina. Lo avevamo lasciato con le sue  narrazioni di pirati, missionari, anarchici, sognatori negli ultimi lembi dell'America Latina e ora lo ritroviamo alle prese con una trama di vita che annoda i suoi fili nella Toscana dove, ai tempi, non era davvero difficile innamorarsi del comunismo. Quindi, se si possedevano voglia e stoffa, succedeva di percorrere le varie tappe della militanza e dell'impegno amministrativo. La storia di Tito, insomma, la strada segnata.

Lui poi un giorno, come il bufalo, ha scartato di lato. Ed è grazie a quello scarto se si è messo a viaggiare e da quei viaggi sono nati libri belli e importanti. Le nuvole non chiedono permesso fu il primo, titolo splendido, titolo che in fondo racchiude il destino di Tito, uomo che con il suo bagaglio leggero si è fatto anche nuvola che attraversa i confini.

Chi lo conosce, chi conosce i suoi libri, sa bene che viaggiare non ha mai significato liquidare una volta per tutte la passione della politica. Casomai a quella passione il viaggio ha portato in dono nuova linfa, uno sguardo più profondo, la forza dell'incontro, il senso di un cambiamento della realtà delle cose che non può prescindere dal cambiamento interiore.

Quell'idea per cui si era tanto speso e che la Storia ha avuto molto fretta di liquidare Tito in qualche modo lo ha ritrovata proprio per il mondo: magari sotto altri nomi e bandiere, con parabole che hanno portato molto lontano, in un gioco di scomposizioni, rimandi, contaminazioni che non sono la fine di una storia, semmai un'altra storia.

Ed è anche vero che a quell'idea Tito ha già dedicato molte pagine di altri libri. Uno scritto anche insieme a me, il più esplicito rispetto al sentimento della sconfitta, Caduti dal Muro: un lungo emozionante viaggio nei paesi dove il socialismo reale ha lasciato le sue macerie. Però penso anche alle Rughe di Cortona, un libro di singolare bellezza, il racconto di un viaggio che è tutto un ritorno.

Ma questo libro ora è tutt'altra cosa: quell'idea Tito non l'affronta dopo che da buon bufalo ha scartato di lato. Questo è un viaggio per intero, un viaggio che parte da dove di deve partire. Come quando si scende un fiume e lo si fa dalle sue sorgenti. In questo caso una cittadina toscana, una famiglia comunista, un bambino con i suoi sogni.

Ne avrà di strada davanti a sè, quel fiume, prima di incontrare il mare. Prima di donare le sue acque al mondo.


venerdì 19 giugno 2015

Inseguendo l'ombra dell'ultimo pirata

Di questo sono sempre più convinto: i libri più belli sono quelli che sfuggono alle classificazioni, che non si fanno catturare troppo facilmente dalla nostra smania di ordine.

Ne sono ancora più convinto ora che ho avuto modo di leggere - e di godermi - l'ultimo libro di Tito Barbini, che è un amico, ma soprattutto è un grande scrittore viaggiatore, o piuttosto un viaggiatore scrittore, parole che non è indifferente mettere in una sequenza piuttosto che in un'altra... ma questo è un altro discorso.

E dunque l'ho letto, mi sono emozionato, ho covato il desiderio di saperne di più. Con le parole sono volato via, fino alle terre più lontane e addirittura fino a un altro tempo. Poi sono tornato a casa, mi sono rigirato tra le mani questo piccolo grande libro che arricchisce la collana delle Non Guide di Mauro Pagliai e mi sono domandato quale fosse lo scaffale giusto: romanzo, biografia, letteratura di viaggio? Solo per dire le prime cose...

Di questo libro mi piace già il titolo - L'ultimo pirata della Patagonia - capace di evocarmi avventure, distanze, traiettorie di vita che si fanno largo tra armi e burrasche - e mi piace ancora di più il sottotitolo: Viaggi veri e immaginari nei mari e nella terra ai confini del mondo.

Se tutti hanno un loro altrove immaginato, desiderato, a volte raggiunto, l'altrove di Tito non può essere che la Patagonia: quel paese alla fine del mondo sul quale ci ha regalato già molte pagine importanti.

Nemmeno la Patagonia, però, con la sua capacità di evocare ciò che davvero ci è essenziale, potrebbe bastarci, se fosse soltanto la cronaca di un viaggio. Tito sa bene che l'altrove si coltiva con la storia, con le storie. Non muovendoci semplicemente da un posto all'altro, ma andando in profondità, respirando il passato, raccontando le vite.

Ed ecco, dunque, che dopo Don Patagonia, lo straordinario missionario del Cacciatore di ombre, Tito incrocia i suoi passi con un'altra ombra: quella di Pasqualino Rispoli, l'ultimo pirata dei mari a sud dello Stretto di Magellano, pirata ma anche molto altro, direi piuttosto un Corto Maltese: avventuriero la cui storia si mescola a molte altre storie, di anarchici e generali, prostitute ed esploratori, indios e latifondisti.

Di più non vi dico, ma sono convinto che è proprio questo che deve fare lo scrittore viaggiatore (o il viaggiatore scrittore?). Scorgere le ombre, sceglierle, farsi accompagnare. E poi raccontarle. Tito, da grande affabulatore, ci riesce benissimo.

martedì 30 settembre 2014

Un racconto di viaggi è sempre una storia di incontri

E gli altri?

Per introdurre questo tema bisognerebbe precisare all'inglese: "last, but not least"... Insomma, la curiosità del viaggiatore e poi del narratore è una dote individuale, ma la storia che possiamo raccontare non sarà mai frutto solo del nostro lavoro.

"Senza l'aiuto degli altri non si può scrivere un reportage" diceva Ryszard Kapuscinski. Il reporter è solo "l'estensore finale", l'ultimo anello di una catena composta da moltissimi individui che ci offrono spunti, storie, riflessioni.

Un racconto di viaggio è sempre una storia di incontri. Non dimentichiamolo.

(Paolo Ciampi in Parole in viaggio di Alessandro Agostinelli, Tito Barbini, Paolo Ciampi, Romano editore)

lunedì 15 settembre 2014

Sul viaggio che è sempre ritorno

Mi pare che fosse in uno dei romanzi di Novalis, il grande romantico tedesco, che ci si rivolgeva ai viandanti con questa domanda: "Dove siete diretti?". E la risposta, inequivocabile, era questa: "Sempre verso casa".

Il viaggio in fondo è sempre un ritorno, perlomeno un ritorno a se stesso. Questo è anche il tema di fondo del mio viaggio più difficile e forse del mio libro più complesso, "Le rughe di Cortona". Un viaggio verso casa.

Un viaggio, aggiungo, in cui sono andato davvero a fondo. E lo so che per i pessimisti al fondo non c'è mai davvero fondo, ma io insisto a non annoverarmi tra di essi. Per me toccando il fondo non resta altro che putare i piedi e darsi la spinta per risalire.

In definitiva il senso del viaggio è stato proprio questo: chiudere un cerchio; smarrire il sentiero e poi ritrovarlo.

Arrivando comunque nel vivo delle mie questioni irrisolte.

(Tito Barbini, in Le parole in viaggio di Alessandro Agostinelli, Tito Barbini, Paolo Ciampi, Romano editore)

giovedì 11 settembre 2014

In viaggio con il rumore e il silenzio


Il mondo dei viaggiatori potrebbe essere diviso in queste due categorie: silenzio e rumore.

Ci sono luoghi del pianeta dove il rumore imperversa e luoghi che abbndano di slienzio.

E mi piace pensare che organizziamo i nostri viaggi sulla base di una miscela di questi due elementi, ogni volta che abbiamo bisogno più dell'uno o dell'altro.

(Alessandro Agostinelli, da Parole in viaggio di Alessandro Agostinelli, Tito Barbini, Paolo Ciampi, Romano editore)

lunedì 7 luglio 2014

Buone parole per raccontare buoni viaggi


È stato al termine di un'intensa giornata di docenza alla Scuola di narrazioni “Arturo Bandini”, qualche tempo fa. Avevo appena salutato le persone con cui avevo trascorso otto ore di confronto su molte esperienze e molte parole. Il tempo era volato via e anch'io me ne tornavo a casa con qualcosa in più di quando, quella mattina, mi ero presentato in aula. Prima di andarmene lo sguardo mi era caduto su alcuni fogli: gli appunti che mi ero preparato per l'occasione.

Non che li avessi seguiti passo passo. Anzi, tutto sommato li avevo trascurati, affidandomi agli interessi e agli umori di chi avevo davanti. Però erano stati utili – se non altro perché mi avevano aiutato a mettere a fuoco alcune idee sulla scrittura legata al movimento nel tempo e nello spazio. Ora li avevo abbandonati sul tavolo, come una cartella stampa dopo che si è scritto un articolo o come il biglietto di uno spettacolo appena concluso. Peccato, però. Forse, lavorandoci sopra, a qualcosa potevano ancora servire.

È stato in quel momento che mi sono venute in mente alcune persone che con me condividono la passione per il viaggio e soprattutto per la scrittura di viaggio. Buoni viaggiatori – senz'altro in questo migliori di me – in confidenza con la parola che si mette in cammino per raccontare quella fondamentale esperienza dell'uomo che è, appunto, il viaggio. Amici che scrivono, che leggono molto, che raccontano. Amici che, quando non sono in viaggio, spesso e volentieri sono impegnati in presentazioni, incontri, lezioni. Figurarsi se anche loro non avevano qualcosa, anzi, molto da condividere. Perchè non assem
blare le nostre esperienze, i nostri sguardi, i nostri consigli, per costruire insieme una piccola guida per la scrittura di viaggio?

L'idea è piaciuta ed ecco che n'è venuto fuori: questa piccola guida che vi proponiamo con la convinzione che in realtà si tratti dell'inizio di un percorso. Di un viaggio di parole – diciamo così – che intendiamo fare insieme – insieme anche a voi – per riflettere sul significato, sulle possibilità e anche sulle tecniche della scrittura.

Si parte da qui, con questa nostra squadra e con questo titolo nella collana Fuorirotta della Romano editore che contiamo diventi occasione per incontri, lezioni, seminari, chiacchierate in luoghi accoglienti e partecipati. E chissà che grazie a questo lavoro, fatto anche di proposte, approfondimenti, stimoli, perfino critiche, altre edizioni di questa guida e altri strumenti non possano vedere presto la luce.

Noi siamo qui. Pronti a questo viaggio. 

(Paolo Ciampi, con Alessandro Agostinelli e Tito Barbini, Parole in viaggio, Romano editore)

giovedì 10 ottobre 2013

L'ho trovato in una bancarella di Buenos Aires

Sono orgoglioso della mia libreria come di poche altre cose di casa. È bella, sa di antico. Castagno stagionato, aria di solidità, la semplicità che ha l’eleganza delle cose che sono come devono essere, senza artifici, senza strane pretese. Farebbe la sua figura in una vecchia biblioteca, di quelle con un odore particolare, che non so se è della carta o dell’inchiostro o della cera con cui si tratta il legno, ma che è quello e solo quello. L’odore delle vecchie biblioteche.

Pensare che è costata il giusto, forse addirittura meno del giusto. Trovata e presa da un vecchio rigattiere che a sua volta l’aveva trovata e presa come un’occasione irripetibile. L’intero archivio di un comune alluvionato, dato via per poco o niente come se il fango gli avesse inferto danni irreparabili.

Due scaffali sono solo per loro, i libri di Emilio. Le vecchie edizioni illustrate che mi sono trovato in casa, forse di mio padre, forse addirittura di qualche mio nonno; i meravigliosi cofanetti della Mondadori, uno per ciclo, che per qualche anno mi vennero regalati per Natale; i libriccini della Mursia, assai meno pretenziosi, con quei caratteri fitti fitti e quelle pagine così leggere che a volte girandole si strappavano; i volumi che più tardi amici come Tito mi hanno portato di ritorno dai loro viaggi. Questo ti piacerà, l’ho trovato in una bancarella di Buenos Aires...

Due scaffali possono non essere un granché per chi ama i libri, per chi li ama anche a prescindere dalla lettura, per chi li ama di un amore fisico, come oggetti del desiderio da guardare, toccare, annusare, sfogliare. Sono qualcosa di enorme se dentro ci sono tutte le ore che un ragazzino ha passato a leggere e fantasticare.

Come diceva Cicerone? Una casa senza libri è come un corpo senz’anima. Oggi capisco meglio cosa voleva dire.

Per l’ennesima volta ora li abbraccio con uno sguardo che ancora non è routine. L’indice corre lungo le coste, come a controllare che negli ultimi giorni qualche titolo non sia sparito.

Qui sono custoditi lunghi pomeriggi d’estate su una sdraio in giardino, per terra un altro libro in attesa e la caraffa del tè freddo di mia madre. E anche tante sere di inverno, la pioggia battente e io sotto le coperte: la mia cameretta come la cabina del comandante e fuori il fortunale che imperversa.

(da Paolo Ciampi, I due viaggiatori, Mauro Pagliai editore)

lunedì 23 settembre 2013

Il ritorno a casa di Tito Barbini

Per quanto un albero possa diventare alto, le sue foglie, cadendo, ritorneranno sempre alle radici. Tra le infinite citazioni sul senso e sul sentimento del viaggio, è con questo antico proverbio cinese per la testa che ho terminato la lettura di Le rughe di Cortona, l'ultimo libro di Tito Barbini (Romano editore).

Come capita spesso con la saggezza orientale, le parole sono semplici ma ciò a cui fanno riferimento è senz'altro più complesso. Siamo noi, quell'albero. Siamo noi quelle foglie che ritornano alle radici.

Semmai è quel “per quanto un albero possa diventare alto” che mi convince meno. Non “per quanto”, ma “proprio perché”: questo è come la vedo io. Proprio perché si cresce, proprio perchè con le nostre foglie si tocca il cielo, è ovvio, naturale, necessario tornare alle radici.

È esattamente quello che penso a proposito di Tito Barbini, scrittore e viaggiatore, o viaggiatore e scrittore, nell'ordine che si preferisce, ma anche persona che da lungo tempo ho avuto la fortuna di conoscere. È un albero cresciuto alto, Tito. Un albero che ha saputo liberarsi da ciò che lo appesantiva e lo piegava.

A un certo punto della vita Tito ha smarrito la strada – ed era una strada chiaramente segnata, apparentemente obbligata. A posteriori è stata la sua fortuna. È da allora che si è messo davvero in cammino: con i viaggi – che lo hanno portato verso le mete più remote e affascinanti – e con le parole – che certo sono un altro modo di viaggiare.

Per tutto questo oggi può tornare alle radici. Può cioè vivere l'esperienza più importante per il viaggiatore: il ritorno.

Non è affatto scontato, anche se è un pezzo che Tito ripete, a beneficio di tutti noi, che il viaggio è vero viaggio solo se implica il ritorno. Altrimenti è fuga, esperienza legittima, a volte necessaria, ma che non è il viaggio. Oppure è partenza fittizia, che non chiama in causa ciò che siamo e che possiamo diventare: turismo di molti chilometri e poca sostanza.

Non credo sia un caso che la letteratura – almeno la nostra letteratura – diventa davvero tale con una storia di un viaggio, l'Odissea. Un viaggio, prima ancora che una guerra. E non è un caso che questo viaggio sia in realtà un lungo, faticoso, contrastato ritorno.

E lo so che è un paragone ingombrante, ma con queste pagine Tito si è seduto accanto a me come un Ulisse con cui posso condividere parole e storie. E Cortona – straordinaria città che più volte ho avuto modo di visitare – ha progressivamente perso i suoi contorni per sfumare nel mito e diventare un'Itaca di Toscana.

Dopo averci accompagnato nelle estreme propaggini della Terra del Fuoco, sulle vette dell'Himalaya o alle sorgenti del Mekong, Tito ci ha fatto il regalo più bello: il ritorno a casa.

Il regalo più complesso, anche, perché penso che per uno scrittore di viaggi non ci sia niente di più difficile che raccontare il ritorno.

Vero che Tito è uno scrittore di viaggi molto particolare, che rifugge il diario, il resoconto, la narrazione lineare nel tempo e nello spazio. In particolare, con Antartide. Perdersi e ritrovarsi alla fine del mondo, il grande vuoto artico e il silenzio dei ghiacci avevano permesso di scavare impietosamente dentro e di amputare tutto ciò che alla vita non è davvero essenziale.

Ed ecco, mi sembra che Le rughe di Cortona possano riallacciarsi solo a quel libro, tra quanti ne ha pubblicati Tito in questi anni. Come se sulle mappe della vita avesse saputo tracciare una rotta diretta tra l'Antartide e Cortona. Anche questo un viaggio per sottrazione, per rarefazione. Ma solo per ritrovare l'origine, il porto sicuro, ciò che ha permesso tutto ciò che è venuto dopo.

E come non è diario il viaggio, non è autobiografia ciò che è stato. È assai di più, il lavoro della memoria – e non a caso Tito afferma all'inizio: la memoria è tutto ciò che siamo.

Diceva William Wordsworth: Il bambino è padre dell'uomo adulto.  Si comincia così e il resto è viaggio – l'albero che cresce – il resto è ritorno e memoria – le radici.

sabato 9 febbraio 2013

La rivoluzione che dissipò i suoi poeti

E prima di Maiakovskij toccò a Esenin, il grande Esenin, il poeta visionario e alcolizzato, il marito di Isadora Duncan, altro naufrago degli affetti e degli ideali. S’impiccò ai tubi del riscaldamento della sua camera all’hotel Astoria di San Pietroburgo. Poche ore prima, la notte del 27 dicembre, si era tagliato un polso e aveva scritto una poesia d’addio con il suo stesso sangue.

“Morire in questa vita, non è una novità – aveva scritto – Ma più nuovo non è certamente vivere”. Majakovskij lo aveva corretto: “In questa vita non è difficile morire - Vivere è di gran lunga più difficile”. Però chissà quali riflessioni gli strappò, solo il titolo di quell’ultima poesia: “A presto, amico mio, a presto”. Chissà.

Ti ringrazio, Tito, perché è merito di questo tuo viaggio tra le macerie dell’Unione Sovietica, se ho finalmente riaperto il cassetto dei miei ricordi, restituendo la luce ai miei poeti. Li avevo messi via, come si fa con una crisi adolescenziale di cui stentiamo a non vergognarci. Come l’album di fotografie che si abbandona a prendere la polvere.

Ora posso ritornare a uno dei libri che tra tutti mi hanno più emozionato nella vita. Pensa, un saggettino di poche pagine, uscito in quella collana dell’Einaudi con il quadrato rosso in copertina che negli anni Ottanta andava per la maggiore tra gli intellettuali di sinistra. Testi importanti e spesso anche decisamente pallosi.

Beh, a giudicare dal suo autore, pure questo libretto poteva essere classificato ad alto rischio di noia e indecifrabilità. Si tratta di Roman Jacobson, linguista di origine russa, maestro del pensiero che si definisce formalista e strutturalista – e pensa, Tito, ogni volta che nella cultura sento una parola che si chiude in –ismo, io propendo per la fuga.

Però il titolo è “Una generazione che ha dissipato i suoi poeti” e dentro c’è tutto quello che Majakovskij, ed Esenin, e tutti gli altri, mi hanno dato e poi tolto. C’è la bellezza della rivoluzione e il suo disastro. 

C’è la poesia che ha cantato una nuova epoca per essere poi da quest’ultima divorata, annichilita. La speranza e la disperazione. La vita che fa a pugni con la politica più alta, più generosa di ambizioni, quella che la vita la vorrebbe mutare dalle fondamenta. I versi che non ti possono salvare e che pure ti riscaldano il cuore. Preziosi. Insostituibili.

Non mi piacciono le citazioni troppo lunghe, lo sai, però questo brano di Jakobson te lo voglio trascrivere per intero. Dice esattamente quello che vorrei dirti, Tito, ma lo dice assai meglio di quanto potrei fare io.

In queste parole ci sei tu, e forse ci sono anch’io.

“Ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro perché ci potesse restare un passato. S’è spezzato il legame coi tempi. Abbiamo vissuto troppo del futuro, pensato troppo ad esso, in esso troppo creduto, e per noi non c’è un’attualità autosufficiente: abbiamo perso il senso del presente.
Siamo i testimoni e i compartecipi di grandi cataclismi sociali, scientifici e d’altri ancora. La vita quotidiana è rimasta indietro. Secondo una splendida iperbole del primo Majakovskij, “l’altra gamba corre ancora nella vita accanto”. Sappiamo già che i più intimi pensieri dei nostri padri erano in disaccordo con la loro vita quotidiana. 

Ma i nostri padri avevano ancora dei residui di fede nel suo carattere confortevole e universale.

Neppure il futuro ci appartiene. Tra qualche decennio ci affibbieranno duramente il titolo di “uomini dello scorso millennio”. Quando i cantori sono uccisi e le canzoni trascinate al museo e attaccate con uno spillo al passato, ancora più deserta, derelitta e desolata diventa questa generazione”.

(Da Tito Barbini e Paolo Ciampi, Caduti dal Muro, Vallecchi editore)

venerdì 20 luglio 2012

La generazione che dissipò i suoi poeti

E prima di Maiakovskij toccò a Esenin, il grande Esenin, il poeta visionario e alcolizzato, il marito di Isadora Duncan, altro naufrago degli affetti e degli ideali. S’impiccò ai tubi del riscaldamento della sua camera all’hotel Astoria di San Pietroburgo. Poche ore prima, la notte del 27 dicembre, si era tagliato un polso e aveva scritto una poesia d’addio con il suo stesso sangue.

“Morire in questa vita, non è una novità – aveva scritto – Ma più nuovo non è certamente vivere”. Majakovskij lo aveva corretto: “In questa vita non è difficile morire - Vivere è di gran lunga più difficile”. Però chissà quali riflessioni gli strappò, solo il titolo di quell’ultima poesia: “A presto, amico mio, a presto”. Chissà.

Ti ringrazio, Tito, perché è merito di questo tuo viaggio tra le macerie dell’Unione Sovietica, se ho finalmente riaperto il cassetto dei miei ricordi, restituendo la luce ai miei poeti. Li avevo messi via, come si fa con una crisi adolescenziale di cui stentiamo a non vergognarci. Come l’album di fotografie che si abbandona a prendere la polvere.

Ora posso ritornare a uno dei libri che tra tutti mi hanno più emozionato nella vita. Pensa, un saggettino di poche pagine, uscito in quella collana dell’Einaudi con il quadrato rosso in copertina che negli anni Ottanta andava per la maggiore tra gli intellettuali di sinistra. Testi importanti e spesso anche decisamente pallosi.

Beh, a giudicare dal suo autore, pure questo libretto poteva essere classificato ad alto rischio di noia e indecifrabilità. Si tratta di Roman Jacobson, linguista di origine russa, maestro del pensiero che si definisce formalista e strutturalista – e pensa, Tito, ogni volta che nella cultura sento una parola che si chiude in –ismo, io propendo per la fuga.

Però il titolo è “Una generazione che ha dissipato i suoi poeti” e dentro c’è tutto quello che Majakovskij, ed Esenin, e tutti gli altri, mi hanno dato e poi tolto. C’è la bellezza della rivoluzione e il suo disastro. C’è la poesia che ha cantato una nuova epoca per essere poi da quest’ultima divorata, annichilita. La speranza e la disperazione. La vita che fa a pugni con la politica più alta, più generosa di ambizioni, quella che la vita la vorrebbe mutare dalle fondamenta. I versi che non ti possono salvare e che pure ti riscaldano il cuore. Preziosi. Insostituibili.

sabato 30 giugno 2012

Odessa è molte cose, naturalmente. In primo luogo un nome che evoca un fascino lontano, qualcosa di esotico, direi, se poi non fossimo abituati a localizzare i luoghi dell’esotico in qualche altro angolo del pianeta.


Odessa è un crogiuolo di popoli affacciato sull’immensità asiatica, è la culla di un cosmopolitismo per predilezione, prima ancora che per vocazione, è la memoria della vecchia Russia bianca che guardava all’Europa, con i tè all’aperto e le dame con le crinoline, è il porto da cui salpavano le navi cariche di cereali con i suoi rudi lavoratori, avvezzi alla fatica e alla vodka. Le terme frequentate dall’aristocrazia e il sogno del riscatto sociale.


Isaac Babel, figlio di Odessa, quel sogno se lo fece suo per intero e prima ancora che scrittore fu militante bolscevico. Negli anni eroici della rivoluzione prestò servizio nel controspionaggio, lavorò come traduttore per la Cheka – cioè per la polizia politica istituita da Lenin – e si occupò della requisizione dei viveri. Nel 1920, quando ancora infuriava la guerra civile fu assegnato all’armata a cavallo che provò a esportare la rivoluzione fuori dalla Russia e arrivò fin quasi a Varsavia, per essere poi ricacciata indietro.


Da questa esperienza venne fuori il suo capolavoro, L’armata a cavallo, appunto. Oggi è giustamente considerato uno dei libri imprescindibili del Novecento, ma allora la pubblicazione gli costò cara. C’era troppa verità, nella guerra che raccontava, ovvero troppa brutalità.


Altro che romanticismo rivoluzionario, ideali che volano alto: nelle sue pagine c’erano lo sporco e il sudore, i corpi sbudellati e i rivoli di sangue, la ferocia gratuita e la follia dei comandi.


Si fece molti nemici, il povero Babel, ma dopo fu assai peggio. Arrivò Stalin, arrivo il plumbeo terrore degli anni Trenta. Gli orrori della guerra lasciarono il campo agli orrori di una collettivizzazione di un regime che aveva tradito se stesso.


Babel si distaccò ogni giorno di più dalla vita pubblica e dalla speranza che l’aveva animato negli anni precedenti. Ma questo ritrarsi non bastò a procurargli la quiete. Cominciarono a criticarlo per il suo “estetismo”. E’ un’accusa che oggi potremmo prendere per un complimento e in ogni caso accogliere come un legittimo esercizio di critica letteraria. Ma in Unione Sovietica, in quegli anni, essere bollati come “esteti” non era lieve: entravi di diritto nella poco raccomandabile schiera dei borghesi decadenti e irredimibili.


Nel 1934, al primo congresso dell’Unione degli scrittori sovietici Babel si strappò dalla bocca parole pesanti. Stava diventando il “maestro di un nuovo genere letterario”, proclamò: il “genere del silenzio”.


Poi ci volle poco perché tutto precipitasse.


“Ora verranno a cercarmi”, scrisse dopo la morte di Maksim Gorkij, lo scrittore nelle grazie del regime che finora era riuscito a proteggerlo. E così fu. Babel venne arrestato nella sua casa di campagna, portato alla Lubianka, processato, condannato.


Lo fucilarono agli inizi del 1940, anche se ufficialmente lo si disse morto in un campo di prigionia in Siberia: la vedova ci mise 15 anni per scoprire la verità


Dopo la morte di Stalin venne completamente riabilitato: per quanto potesse significare, a quel punto. Quanto ai suoi manoscritti, sequestrati dalla polizia segreta, non vennero mai più restituiti.


Che cosa c’era tra quelle carte? Qualche altro capolavoro?


Nessuno, temo, ci potrà più rispondere. Però una cosa è sicura: è solo un potere criminale, quello che ruba le vite, e con le vite la bellezza della vita, quella bellezza che emerge anche da una pagina scritta.


E pure questi sono crimini contro l’umanità.

(da Caduti dal Muro, scritto con Tito Barbini, Vallecchi editore)

venerdì 15 giugno 2012

Tre buoni propositi per questo viaggio


Rügen, finalmente: la nostra isola al termine di questo ponte che non finiva più, chissà come sarà con il vento contro. Ernesto, tanto per fare il buffone, si distende e bacia la terra. Io mi sento meglio.
Ora che siamo dall'altra parte, ora che il mare è distanza che separa e rassicura, è già più semplice rispondere a certe domande. Per esempio quella dell'altro giorno, vigilia di partenza: ma chi me l'ha fatto fare? Che, tra l'altro, è quanto si domandava pure Bruce Chatwin, con la sua domandina usata e abusata: che ci faccio qui?
Potrei rispondere che ritrovarmi qui con Ernesto già basta e avanza.

Però visto che ci sono aggiungo altri tre alibi. O se volete, altri tre propositi.
Proposito numero uno: dimostrare che non è vero che per i grandi viaggi sia sempre necessario il trampolino della solitudine. C'è un mio amico, Tito Barbini, che dopo una vita di impegno politico e di incarichi pubblici a un certo punto ha deciso di mollare tutto. Zaino in spalla si è messo a girare per il mondo raccontando le sue esperienze in libri bellissimi, come Le nuvole non chiedono permesso, Antartide, I giorni del riso e dell'oblio.
Tito sostiene che viaggiare da soli è una condizione necessaria per incontrare gli altri sulla strada. Capisco cosa vuol dire, ma io non sono lui. Mi piacerebbe partire per rimanermene solo, potendo contare, tra l'altro, su un decente livello di convivenza con me stesso. Però mi vedo ancora meglio a tuffarmi nell'altro che è al mio fianco semplicemente perché è venuto via con me. Anche se è un bambino: è un intero universo, un bambino.
Proposito numero due: dimostrare che ci sono grandi viaggi che non hanno bisogno di voli transoceanici, di drastici mutamenti di civiltà, di giornate a dorso di cammello. Che insomma posso rimanere nel mio continente senza passare per il forzato del villaggio turistico, escursione con guida, grazie. Viaggiatore vero anche a un'ora di volo da casa, se non a un'ora di cammino.
Proposito numero tre, peraltro strettamente collegato al proposito numero due: provare che se non è necessario finire in Birmania o in Namibia, non lo è nemmeno macinare chilometri e chilometri ogni giorno. Ci sono viaggi importanti che non si nutrono di grandi spazi, ma di movimenti lenti. Ci sono terre che per accogliervi esigono solo la capacità di scavare nelle loro profondità.
Rügen è una di queste terre, lo so. Sono qui per questo. Anche per questo. E crepi la pigrizia.

(da Paolo Ciampi, Le nuvole del Baltico, Mauro Pagliai editore)

domenica 15 aprile 2012

Perdersi e ritrovarsi alla fine del mondo

Forse per questo avevo bisogno proprio dell'Antartide: perché tante cose che mi porto dentro e per le quali mi manca il dono della parola esatta possano rimergere proprio laggiù, nel continente bianco che è un mondo a sé; nel Sud oltre ogni Sud, così vicino ai sogni da poter essere abitato anche dai tanti Tito Barbini che non sono stato, che non ho potuto o voluto essere, che ho sepolto o dimenticato dentro di me.


E ogni qualvolta mi alzo in volo con questo stato d'animo, ritrovo sempre un vecchio detto tuareg a farmi compagnia:


"Mettiti in cammino anche se l'ora non ti piace. Quando arriverai l'ora ti sarà comunque gradita"


E così andrà, anche questa volta.

(da Tito Barbini, Antartide.Perdersi e ritrovarsi alla fine del mondo, Polistampa)

sabato 10 dicembre 2011

Come le nuvole, che non chiedono permesso

Ci sono dei titoli così azzeccati da dirci già tutto, o quasi tutto. Prendete le nuvole, per esempio, così leggere, così libere, che non devono chiedere permesso, che semplicemente non possono essere fermate. Le nuvole, come le idee, si muovono senza carte di credito e senza visti di ingresso. A volte, quando gli alisei soffiano potenti, possono varcare oceani interi.

Ed è questa la storia di questo libro: la storia di un uomo con un passato importante nelle istituzioni e nella politica, la storia di un uomo che per perdersi e poi ritrovarsi ha abbandonato tutto portandosi dietro solo un bagaglio leggero di pochi indumenti, qualche libro indispensabile e alcune domande da cui non è possibile prescindere.

Tito Barbini lo conosco, so che questo libro è autentico. Le nuvole non chiedono permesso (Mauro Pagliai editore) è uscito due anni fa e io ho avuto la fortuna di leggerlo subito e di parlarne a lungo con lui. Ogni tanto ci ripenso: sarà che serve a rimarcare la differenza tra un viaggio e una vacanza in qualche altro posto che non sempre è un vero altrove.

E così ho ripercorso questo viaggio di Tito: dall'estrema punta dell'America del Sud, dove il sogno si può spingere solo fino ai ghiacci antartici, su su, senza mai prendere un aereo, a volte a piedi attraverso le frontiere, sempre assecondando solo uno spiritaccio vagabondo e curioso, su su fino all'Alaska.

Da solo, ma con una consapevolezza: che dopo le nuvole ritorna sempre il sole, come un cammino che riprende, come un pezzetto di utopia realizzato su questa nostra terra.

domenica 20 novembre 2011

Anche il Porcellino nel cimitero delle librerie

E dunque, anche la Libreria del Porcellino non ce la fa più, l'ho letto questa mattina sul giornale. All'elenco delle librerie che chiudono, senza prospettive di riapertura, se ne aggiungerà presto un'altra, che era quasi un'istituzione. Il Porcellino, nel cuore di Firenze, appena dietro Palazzo Vecchio, a un passo dalla fontana del Tacca dove da bambino mi capitava di gettare una monetina per inseguire qualche sogno - e la libreria era già lì, lo era da molto tempo.

Non che l'abbia frequentata molto, per essere sinceri. Le librerie sono come le amicizie, o come dovrebbero essere le amicizie, le incontri per caso, prosegui per ragioni che ti è difficile indagare, però sai che la fedeltà conta. O magari, semplicemente, il Porcellino non era sulla mia strada.

Però quando passavo lì davanti mi piaceva sbirciare, indugiare davanti alla vetrina che rimandava ad altri tempi, con tutti quei libri stipati, disordine che in realtà pareva ordine dettato dal gusto e dal piacere, non un titolo che non sembrasse scelto. Non mi consola più di tanto nemmeno che possa avere un futuro come libreria on line: è un'altra cosa, comunque.

Mi è venuta in mente la libreria di Charing Cross 84, Londra, autentica protagonista di un bellissimo film di tanti anni. Mi è venuta in mente la libreria di Buenos Aires raccontata e rimpianta da Tito Barbini nel suo bellissimo ultimo libro, Il cacciatore d'ombre (Vallecchi). Me ne sono venute in mente alcune altre, che mi mancano.

Un'altra adesso fa loro compagnia, nel cimitero delle librerie che c'erano e non ci sono più.

giovedì 13 ottobre 2011

Tutto ciò che serve a un libro di viaggi

Leggetelo tutto, perché merita, ma leggete con particolare attenzione le prime pagine de Il cacciatore di ombre (Vallecchi, collana Off the road), il libro che Tito Barbini dedica a quello straordinario personaggio che fu Don Patagonia, cioé Alberto Maria De Agostini, missionario ed esploratore di altri tempi riscoperto attraverso un viaggio in Argentina.

Leggete quelle pagine perché c'è tutto o quasi tutto quello che si deve pretendere dalla letteratura di viaggi.

Dice Tito:

Mi viene da  chiedermi se una storia può essere raccontata da uno scrittore senza che ci metta dentro la sua immaginazione

E ha ragione, Tito, perché la letteratura di viaggio non può essere solo resoconto, diario, cronaca, ha bisogno di quella immaginazione che Giacomo Leopardi definiva la prima fonte della felicità umana.

Dice Tito:

Ho sempre pensato che le storie di viaggio non siano mai storie personali

E ha ragione, Tito, perché il racconto di viaggio è in primo luogo viaggio condiviso.

Dice ancora Tito di non preoccuparsi troppo del tempo e dello spazio che prova a separarci, tanto anche le storie più distanti possono camminare insieme.

E se ci pensate, i nostri viaggi non sono mai solo spazio, sono sempre anche nel tempo.

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