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martedì 19 marzo 2013

Il poeta del ghetto di Varsavia, che leggeva ai morti

Sfoglio e riordino le mie poesie scritte per coloro che non ci sono più. Le ho lette un tempo, a persone vive, calde, e credevo che saremmo sopravvissuti, speravo nella fine, nel domani, nella vendetta, nella gioia e nella ricostruzione.
Leggete.
E' la nostra storia.
E' ciò che leggevo ai morti.

Che brivido, leggere Cosa leggevo ai morti, libro esile per pagine immenso per contenuti che contiene poesie e prose di Wladyslaw Szlengel, uno di quei poeti dal nome impronunciabile che hanno fatto grande la letteratura di Polonia. Con una particolarità che è una stretta al cuore: la voce di Szlengel arriva dal ghetto di Varsavia, è poesia scritta e letta nei giorni dell'orrore nazista, per uomini e donne che probabilmente non vedranno il domani.

Poesia di un poeta che non arriverà alla liberazione, che sarà tra i sommersi. Poesia di un poeta che vede sparire uno a uno i suoi lettori. Poesia di un poeta che sa che finirà così, come fa a non aspettarselo, ma che in ogni caso non rinuncia ai suoi versi, anzi, a maggior ragione: e non perché conti su una gloria postuma, sul lettore del domani, ma perchè è proprio il lettore di oggi che conta.

Il lettore del ghetto. Il lettore che condivide la sua stessa sorte. Il lettore che forse nella parola troverà se non un senso, se non una speranza, il grido estremo della vita.

venerdì 4 febbraio 2011

Sorpresa, c'era l'amore nel ghetto di varsavia

Hendusia avrebbe potuto uscire, salvarsi, sopravvivere. Ma non voleva che i bambini avessero paura, che piangessero. E rimase con loro, pur sapendo che cosa sarebbe accaduto. Per senso del dovere o per amore dei bambini? All'epoca era la stessa cosa

Il ricordo di Marek Edelman è un fascio di luce rapido, nervoso, incostante. Indugia per un attimo, poi si sposta per frugare altrove, perché non c'è tempo per tutti i volti, le storie, i dolori, le vite inghiottite. Si sposta e quanto c'è dietro ritorna nell'oscurità, per rimanerci fino a che qualcuno non arriverà su quella pagina, non si soffermerà su quel nome.


Marek Edelman non è uno scrittore, non lo hai mai voluto essere. Marek Edelman è stato uno dei comandanti dell'insurrezione del ghetto di Varsavia, orgoglio estremo e disperato degli ebrei che presero alla sprovvista la più micidiale delle macchine di sterminio.

Marek Edelman è uno che ha visto andare alla morte qualcosa come 500 mila uomini e donne e bambini, e che poi, dopo che tutto questo era finito, non se n'è più voluto andare dalla Polonia svuotata della sua civiltà ebraica (e ancora contaminata dall'antisemitismo), perchè ne doveva presidiare le tombe abbandonate.

Era anche un uomo che per tutta la lunga vita che gli è rimasta ha saputo coltivare la memoria senza pretendere di parlare a nome delle vittime:

Non ho diritto di parlare a nome loro, perché non so se morivano nell'odio oppure perdonando i loro carnefici. E nessuno ormai lo potrà sapere. Ma ho il dovere di vegliare affinché il ricordo di loro non scompaia.

Ed era anche un uomo che si voltava indietro per guardare meglio anche al presente, ad altre guerre, ad altri crimini dell'umanità, ad altre ingiustizie.

In tutto questo a me piace ricordare anche Marek Edelman uomo schivo che ha saputo comunque donarci parole preziose. Come queste, racchiuse in C'era l'amore nel ghetto (Sellerio), un libretto che non so bene come definire, tutto fuorché una cronaca, un diario, un romanzo.

Se proprio proprio direi che anche questa è in qualche modo letteratura di viaggio, perché anche la memoria può rappresentare un viaggio. Un viaggio nell'inferno del ghetto. Ma non solo nell'inferno, perché come il viaggiatore è tale se è capace di guardare l'umanità che abita (e abitare è verbo diverso da popolare) le terre che attraversa, così lo sguardo di Marek Edelman ci porta testimonianza di umanità, prima ancora che di crudeltà.

Grazie a lui ho capito che è si fa un torto a semplificare, generalizzare, ridurre. Che non ci si può accontentare solo del termine di vittime per le vite che fiorivano nel ghetto.

C'era l'amore nel ghetto, appunto. Anche nel ghetto si sognava, si sperava, si faceva politica, si scriveva, ci si innamorava. Ed è proprio per tutto questo che l'orrore dello sterminio fa ancora più orrore.

venerdì 29 gennaio 2010

Ebbene sì, c'era l'amore nel ghetto


Hendusia avrebbe potuto uscire, salvarsi, sopravvivere. Ma non voleva che i bambini avessero paura, che piangessero. E rimase con loro, pur sapendo che cosa sarebbe accaduto. Per senso del dovere o per amore dei bambini? All'epoca era la stessa cosa

Il ricordo di Marek Edelman è un fascio di luce rapido, nervoso, incostante. Indugia per un attimo, poi si sposta per frugare altrove, perché non c'è tempo per tutti i volti, le storie, i dolori, le vite inghiottite. Si sposta e quanto c'è dietro ritorna nell'oscurità, per rimanerci fino a che qualcuno non arriverà su quella pagina, non si soffermerà su quel nome.

Marek Edelman non è uno scrittore, non lo hai mai voluto essere. Marek Edelman è stato uno dei comandanti dell'insurrezione del ghetto di Varsavia, orgoglio estremo e disperato degli ebrei che presero alla sprovvista la più micidiale delle macchine di sterminio. Marek Edelman è uno che ha visto andare alla morte qualcosa come 500 mila uomini e donne e bambini, e che poi, dopo che tutto questo era finito, non se n'è più voluto andare dalla Polonia svuotata della sua civiltà ebraica (e ancora contaminata dall'antisemitismo), perchè ne doveva presidiare le tombe abbandonate.

Era anche un uomo che per tutta la lunga vita che gli è rimasta ha saputo coltivare la memoria senza pretendere di parlare a nome delle vittime: "Non ho diritto di parlare a nome loro, perché non so se morivano nell'odio oppure perdonando i loro carnefici. E nessuno ormai lo potrà sapere. Ma ho il dovere di vegliare affinché il ricordo di loro non scompaia".
Ed era anche un uomo che si voltava indietro per guardare meglio anche al presente, ad altre guerre, ad altri crimini dell'umanità, ad altre ingiustizie.

In tutto questo a me piace ricordare anche Marek Edelman uomo schivo che ha saputo comunque donarci parole preziose. Come queste, racchiuse in un libretto - C'era l'amore nel ghetto, pubblicato da Sellerio - che non so bene come definire, tutto fuorché una cronaca, un diario, un romanzo.

Se proprio proprio direi che anche questa è in qualche modo letteratura di viaggio, perché anche la memoria può rappresentare un viaggio. Un viaggio nell'inferno del ghetto. Ma non solo nell'inferno, perché come il viaggiatore è tale se è capace di guardare l'umanità che abita (e abitare è verbo diverso da popolare) le terre che attraversa, così lo sguardo di Marek Edelman ci porta testimonianza di umanità, prima ancora che di crudeltà.

Grazie a lui ho capito che è si fa un torto a semplificare, generalizzare, ridurre. Che non ci si può accontentare solo del termine di vittime per le vite che fiorivano nel ghetto.

C'era l'amore nel ghetto, appunto. Anche nel ghetto si sognava, si sperava, si faceva politica, si scriveva, ci si innamorava. Ed è proprio per tutto questo che l'orrore dello sterminio fa ancora più orrore.

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