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venerdì 5 dicembre 2014

Balzac e la vita che alla fine pretende il conto

Ci sono vite che la letteratura salva, ma anche vite che poi chiedono di saldare il conto alla letteratura: e il conto a volte è davvero troppo salato.

Prendete per esempio il grande Balzac, l'autore della straordinaria Comédie humaine, in Francia il più letto e acclamato degli scrittori, monumento nazionale quando ancora era vivo. La storia degli ultimi suoi anni è stata a lungo tenuta ben nascosta sotto una bella coltre di ipocrisia e forse anche di pietà. All'inizio del Novecento ce l'ha raccontata un altro scrittore francese, Octave Mirbeau, con una manciata di pagine che fecero scandalo e vennero addirittura bloccate dalla censura. Solo ora arrivano in Italia, grazie a Skira.

E dunque, cosa ci racconta Mirbeau in La morte de Balzac? Ci porta dentro un uomo alla fine della sua vita, che l'arte non può più salvare. Ci invita a trascurare le sue pagine per entrare nella stanza della sua agonia. Ci impone a fare i conti su ciò che rimane di tante glorie e di tante ambizioni.

Balzac nel suo epilogo, migliaia di pagine dopo: un uomo malato e derubato di molte cose, un corpo sfasciato e umiliato, soprattutto una solitudine che si fa perfino fatica a credere, figurarsi a sostenere. Nemmeno la moglie vorrà vederlo e salutarlo.

Un corpo abitato ancora da una splendida mente, che fino all'ultimo, mentre l'uomo se ne sta andando, spingerà lo scrittore a rivolgersi al medico: Pensate che domani possa rimettermi al lavoro? Suvvia! Sbrigatevi a curarmi! Devo lavorare!

Come in un romanzo, un romanzo di Balzac, il romanzo che Balzac non ha avuto modo di scrivere. Un romanzo invece della vita troppo vera e troppo esigente.

domenica 16 novembre 2014

E l'aria si incendia di desideri e preghiere

Nessuno ormai è solo con se stesso e il proprio destino, ognuno scruta l'orizzonte.

Di notte, nell'ora in cui è coricato, solo e sveglio nella casa protetta e sprangata, il suo pensiero vola ad amici e a terre lontane: forse, a quella stessa ora, si compie parte del suo destino, un attacco della cavalleria a un villaggio galiziano, un assalto per mare, le cose che, proprio in quell'attimo, avvengono a migliaia, e a mille miglia di distanza, toccano la sua vita.

E l'anima lo sa, si dilata, desidera, presagendo, anelando a coglierne una parte, l'aria si incendia di desideri e preghiere che volano da un capo all'altro del mondo.

(Stefan Zweig, Il mondo senza sonno, Skira)

giovedì 13 novembre 2014

Una notte senza sonno, la guerra alle porte

Più breve è ora il sonno del mondo, più lunghe le notti e più lunghi i giorni.

Comincia così il primo dei tre racconti di Stefan Zweig che Skira raccoglie in un piccolo prezioso volumetto - intitolato appunto Il mondo senza sonno - che consiglio di cuore a tutti coloro che, particolarmente in questi mesi, si interrogano sulla Grande Guerra e sulle ferite che le tragedie della Storia lasciano sulle persone che a esse sopravvivono.

Che poi è il tema su cui mi sembra giri per intero la scrittura di Zweig, con la sua voce inquieta, evocativa, spoglia di ogni retorica. Si tratti de Il mondo di ieri, un titolo che dice già molto sulle amputazioni prodotte dall'ecatombe mondiale, così come della meravigliosa Novella degli scacchi, dove tutto - l'odio e la follia, la tragedi
a che si è consumata e la tragedia incombente - pare concentrarsi sulle sessantaquattro caselle bianche e nere di una scacchiera.

Zweig, lo scrittore che un giorno fuggirà dalla Germania delle leggi razziali ma che anche in Brasile sentirà l'orrore del mondo impazzito. Tanto che un giorno del 1942 metterà fine alla sua vita.

Sono da leggere questi racconti che invece ci portano dalle parti del primo conflitto mondiale, l'avvio del secolo breve della lunga guerra. Da leggere soffermandosi proprio su queste prime righe, sul sonno che non arriva in una notte d'estate, afosa, inquieta; su una notte della prima estate di guerra, quando ancora sono più i "si dice" che le certezze; su questo tempo dilatato, appesantito dai sogni, dalle premonizioni, dalle attese, complicato dai grovigli di un destino che forse altrove si sta decidendo. 

martedì 11 novembre 2014

Ricordando ciò che è successo a Ypres


Eppure è giusto che in un luogo della terra si conservino i segni atrocemente visibili del grande crimine.

E' giusto che centomila persone vengano qui scoppiettanti nella loro spensieratezza, poiché, volenti o nolenti, queste innumerevoli tombe, queste foreste avvelenate, questa piazza a pezzi sono fonti di ricordo.

E ogni ricordo è formatore, perfino per la natura più primitiva e più inerte. Ogni ricordo, quale che sia la forma o la sua intenzione, riporta la memoria a quegli anni spaventosi che non debbono mai essere dimenticati. 

Mi sembra giusto e formativo che ogni anno, il 4 agosto, alle nove del mattino, nell'ora precisa in cui i tedeschi sono entrati nel paese nel 1914, tutte le campane del Belgio si mettano a suonare, le sirene delle fabbriche a fischiare e si sospenda il lavoro per qualche minuto....

(Stefan Zweig, Ypres, da Il mondo senza sonno, Skira)

martedì 17 gennaio 2012

Hopper, Carver e l'incontro che è bello immaginare

Se potessi tornare indietro non so se rifarei tutte quelle cose. Ma probabilmente sì. E' dalla vita reale che si raccolgono le storie. E le storie più incredibili sono quelle quotidiane.

Sono d'accordo con te. E' quasi scandaloso, per chi è in grado di accorgersene: quanta fantasia c'è nel reale, nella vita di tutti i giorni. Si tratta di ritrarla nel modo giusto, di darle forma o parola, ombra o silenzio, luce che immobilizza o buio che sospende.


Ecco qui, in poche parole si schiude il senso del lavoro di due dei grandi artisti del Novecento americano, il pittore Edward Hopper e lo scrittore Raymond Carver. Parole di un dialogo che non c'è mai stato, perchè non è mai esistito un loro incontro. Però poi è arrivato un altro scrittore, Aldo Nove, di un'altra età e di un altro paese, e questo incontro se lo è immaginato ed è arrivato a raccontarlo in Si parla troppo di silenzio (Skira edizioni): come consegnare un passaporto per la realtà.

Hopper e Carver: due artisti che hanno un posto particolare nel mio cuore, nel mio immaginario americano.

Non saprei vedere l'America senza la luce di Hopper, senza le sue strade e le sue case, senza i suoi sguardi che invadono le stanze spogliate dal sogno americano e catturano istanti in bilico, su qualcosa che non si saprà mai. Senza questi quadri che da tempo si sono impastati con le parole di Carver, con le sue storie che quasi sempre non portano lontano, e non lo devono, con questi altri istanti sospesi quasi sempre tra un disastro e una nuova possibilità. E vi confesso, mi dice poco e mi serve ancora meno la polemica sul Carver "autentico", al netto dei tagli del suo editor.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...