Vivono nelle parole gli uomini e le donne, vivono nelle storie che di loro si conservano e si tramandano. Ma perché non se ne perda traccia c'è bisogno di persone che se ne facciano carico. E che le scrivano o le accompagnino a un sorso di vino in un'osteria, sono come maghi, che in qualche modo restituiscono ciò che si può restituire della vita.
Uno di loro è Maurizio Maggiani, grande affabulatore, nei cui romanzi non ho mai cercato una trama compiuta, ma semmai una cascata di storie, che sgomitano, si incrociano, si sovrappongono, si tengono insieme. E questo vale più che mai per Meccanica celeste (Feltrinelli), libro a cui sono arrivato dopo una lunga attesa e con qualche diffidenza.

Un libro che è allo stesso tempo facile e impossibile da raccontare. Siamo nelle terre che Maggiani chiama il "distretto", lembo di terra aspra e isolata tra la Toscana e la Liguria, terra di marmo e ribelli, di emigranti e di santi che non sono nemmeno nel calendario. Il narratore mette in cinta la sua compagna la notte dell'elezione di Barack Obama. Nei nove mesi di attesa ci saranno le storie a preparare la vita che arriva. Storie che affiorano dalla memoria e dalla terra. Storie del narratore e del mondo intorno, con i suoi legami di sangue e di affetto. Avanti e indietro nel tempo, dall'antica Roma alle battaglie sulla Linea Gotica fino alla bomba della stazione di Bologna. E quante storie, quanti volti che emergono dalla folla e si fanno sostanza, cuore pulsante, racconto.
La Duse e la Santarellina, l'Otello e l'Omo Nudo, Don Gigliante e la Marta, fino al soldato venuto dal Brasile, lui che doveva liberare la Grecia e invece si trovò sotto le Apuane. Staffette partigiane e maestre elementari, suonatrici di fisarmoniche e pastori d'anime....
C'è un filo? Forse no, ma che importa. Il filo è la voce che narra. Il filo è noi che ascoltiamo. Il filo sono i racconti che ci salvano.
Come, la solita storia italiana che parte dagli anni Settanta e si sbraccia per arrivare più o meno ai nostri giorni?
Magari è la solita solfa: come erano belli quei tempi, quando si pensava di cambiare il mondo e tutti scendevano in piazza e sentivano di appartenere a qualcosa di più grande, tranne poi precipitare a rotta di collo nei terribili anni Ottanta.
Oppure, variante: belli, sì, quei tempi,ma quanta ideologia, quanta violenza, quanta incapacità di farsi i fatti propri, sarà stato quel che è stato, ma in fondo volete mettere, riscoprire gli affetti e la famiglia, un lavoro pulito e una vita senza grilli per la testa?
Ecco, mi aspettavo qualcosa del genere. La solita solfa in una delle due varianti.
E invece, invece ho scoperto qualcosa di diverso. Uno sguardo pulito e originale, che i fatti li racconta non dai luoghi dove (non) si è fatta la storia, ma dalla provincia profonda, San Benedetto del Tronto. Una narrazione che non sente il bisogno di raccontare tutto per filo e per segno, ma che sa andare al fondo di ciò che è stato.
Tre storie in una storia, tre atti, una piazza (la rotonda, appunto) come un fiume che si porta via tutto. Agorà e supermercato della droga. Politica e spaccio. Il tempo del futuro e quello della devastazione.
Gli anni che si fanno raccontare anche da una piazza che non è nemmeno Piazza Maggiore a Bologna o Piazza San Giovanni a Roma.
Una piazza come le mille e mille piazze del nostro paese. Una piazza ora grande come il mondo ora angusta come una galera.