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lunedì 29 settembre 2014

La semplicità con cui venne alla luce il nome di Charlot


Il mio nome, solo a pronunciarlo, suscita ammirazione in ogni angolo del pianeta, in Birmania come nella Terra del Fuoco. 

Forse sarebbe meglio dire il nome del personaggio che ho creato, un pomeriggio di pioggia del 1914, durante la lavorazione di un cortometraggio, scegliendo degli abiti fuori misura in uno spogliatoio maschile.

Ma questi aneddoti li ho raccontati in ogni maniera, anche se mi sorprende sempre ricordare la misteriosa semplicità con la quale Charlot oi The Tramp, il vagabondo, come lo chiamo gli americani, venne alla luce.

(Fabio Stassi, L'ultimo ballo di Charlot, Sellerio)

venerdì 15 giugno 2012

Tre buoni propositi per questo viaggio


Rügen, finalmente: la nostra isola al termine di questo ponte che non finiva più, chissà come sarà con il vento contro. Ernesto, tanto per fare il buffone, si distende e bacia la terra. Io mi sento meglio.
Ora che siamo dall'altra parte, ora che il mare è distanza che separa e rassicura, è già più semplice rispondere a certe domande. Per esempio quella dell'altro giorno, vigilia di partenza: ma chi me l'ha fatto fare? Che, tra l'altro, è quanto si domandava pure Bruce Chatwin, con la sua domandina usata e abusata: che ci faccio qui?
Potrei rispondere che ritrovarmi qui con Ernesto già basta e avanza.

Però visto che ci sono aggiungo altri tre alibi. O se volete, altri tre propositi.
Proposito numero uno: dimostrare che non è vero che per i grandi viaggi sia sempre necessario il trampolino della solitudine. C'è un mio amico, Tito Barbini, che dopo una vita di impegno politico e di incarichi pubblici a un certo punto ha deciso di mollare tutto. Zaino in spalla si è messo a girare per il mondo raccontando le sue esperienze in libri bellissimi, come Le nuvole non chiedono permesso, Antartide, I giorni del riso e dell'oblio.
Tito sostiene che viaggiare da soli è una condizione necessaria per incontrare gli altri sulla strada. Capisco cosa vuol dire, ma io non sono lui. Mi piacerebbe partire per rimanermene solo, potendo contare, tra l'altro, su un decente livello di convivenza con me stesso. Però mi vedo ancora meglio a tuffarmi nell'altro che è al mio fianco semplicemente perché è venuto via con me. Anche se è un bambino: è un intero universo, un bambino.
Proposito numero due: dimostrare che ci sono grandi viaggi che non hanno bisogno di voli transoceanici, di drastici mutamenti di civiltà, di giornate a dorso di cammello. Che insomma posso rimanere nel mio continente senza passare per il forzato del villaggio turistico, escursione con guida, grazie. Viaggiatore vero anche a un'ora di volo da casa, se non a un'ora di cammino.
Proposito numero tre, peraltro strettamente collegato al proposito numero due: provare che se non è necessario finire in Birmania o in Namibia, non lo è nemmeno macinare chilometri e chilometri ogni giorno. Ci sono viaggi importanti che non si nutrono di grandi spazi, ma di movimenti lenti. Ci sono terre che per accogliervi esigono solo la capacità di scavare nelle loro profondità.
Rügen è una di queste terre, lo so. Sono qui per questo. Anche per questo. E crepi la pigrizia.

(da Paolo Ciampi, Le nuvole del Baltico, Mauro Pagliai editore)

giovedì 24 marzo 2011

In Birmania, senza essere Tiziano Terzani

Ci sono molti modi di viaggiare, molti modi di abbandonarsi col proprio sguardo al mondo. Molti modi di scrivere per raccontare quei viaggi.

E ci sono fin troppi libri, che raccolgono quei viaggi, quegli sguardi, quelle pagine.

Forse abbiamo bisogno anche di disintossicarsi, non della letteratura di viaggio, certo, ma di tante incrostazioni che su di essa si sono depositate. Troppa enfasi, troppa retorica del viaggiatore, troppa presunzione esibita da chi deve puntellare il senso di un'esperienza che si vuole unica e che deve trovare ragioni o pretesti.

C'è bisogno di voci sincere, oneste. C'è bisogno di nuovo sangue nell'esperienza del viaggio e del racconto di viaggio. E c'è bisogno delle parole misurate e sensate di chi sa che il primo viaggio è sempre nel mondo dei propri sentimenti e delle proprie convinzioni, anche se non siamo protagonisti di un'impresa e non ci troviamo al centro della Storia.

Come in Viaggio in Birmania (nemmeno il titolo ha effetti speciali), il cui autore non prova a spacciarsi come il Terzani o il Kapuscinski di turno. Michele Cucuzzella in Birmania - o se si preferisce in Myanmar - arriva come volontario, per fare una piccola grande cosa, insegnare inglese ai bambini.

Della Birmania e della sua cultura sa poco, mi pare. E proprio per questo le sue sono parole pulite, dirette, capaci di accompagnarci amichevolmente in questo paese magnifico e maledetto.

Dalla Off the road della Vallecchi un altro bel tassello che si aggiunge al mosaico delle ragioni per cui viaggiare forse non sarà indispensabile, però fa sempre bene.

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...