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martedì 25 febbraio 2020

Libri che sono voce per rendere migliore la vita

C'è Michail, un quindicenne alle prese con le sorprese e gli ormoni della sua età. C'è Hanna,  donna dagli occhi azzurri e dalle poche parole, che inizia al sesso quel ragazzino, che ha la metà dei suoi anni. C'è un mistero, che solo dopo molte pagine acquisterà forme e consistenza, evocando i crimini peggiori del Novecento. E c'è la Germania appena uscita dalla guerra di Hitler, macerie disseminate nelle città e nei cuori, sentimenti di colpa e tentazione di oblio.

Il lettore di Bernhard Schlink (Neri Pozza) tiene insieme molte cose, è memoir e romanzo a tutto tondo, incrocia Storia e storie private, mette insieme educazione sentimentale, responsabilità morale di fronte al bene e al male, possibilità di riscatto. Si interroga sulle ragioni che fanno approdare a una scelta piuttosto che a un'altra, sul peso che il passato esercita sul presente, sui segreti di cui ognuno può essere depositario. Incredibile che io sia arrivato a leggerlo a distanza di tanti anni, anche dopo il film che ne è stato tratto, ma questa constatazione in realtà è un guizzo di speranza, quanti libri belli che ancora mi attendono. 

Chi è quella donna che esercita un'attrazione formidabile ma non si sa bene da dove viene e cosa ha fatto? E ci può essere un altro segreto oltre a quello terribile di quei giorni ad Auschwitz?

Un giorno, quando molta acqua sarà passata sotto i ponti, quando le loro strade si saranno radicalmente separate, Michail scoprirà che Hanna è analfabeta. E allora per lei sarà voce che legge, biblioteca vivente con i  capolavori della letteratura, serie di nastri incisi e fatti recapitare in carcere. 

Perché poi è questo che rimane, che rimarrà almeno a me: sì, anche la sollecitudine per una persona che è stata importante, malgrado tutto, però soprattutto la possibilità che la lettura possa fare di noi persone diverse, migliori. 
 

venerdì 29 novembre 2019

Se ti ritrovi compagno di cella del boia nazista

Se ben ricordo - dissi, inserendomi in quel tranquillo flusso di parole - a quel tempo, sui territori di Leopoli e di Ternopil' esistevano degli agglomerati di ebrei raccolti in ghetti e cammpi di lavoro. Se ne è mai occupato personalmente?

Stroop storse la faccia e parve lievemente agitato ma, quando ripetei la domanda, rispose affermativamente.

Giornata di pioggia, giornata uggiosa. Su Repubblica ho appena finito di leggere delle indagini su un tentativo di costituzione di un partito neonazista in Italia. Non riesco a togliere gli occhi dall'intervista a uno dei protagonisti, madre di famiglia e impiegata in uno studio contabile, che pare ci tenga a proclamarsi sergente di Hitler. Per lo meno non grida all'equivoco. Ad Auschwitz - pontifica - c'erano piscina, teatro, cinema. Non è andata come la raccontano.

Giornata uggiosa, giornata di brutti pensieri. Per levarmi di torno questa intervista sono finito dentro un libro che è stato dimenticato troppo alla svelta. Conversazioni con il boia di Kazimiers Moczarski (Bollati Boringhieri). Non fatevi depistare dal titolo e tanto meno dal nome dell'autore: è una lettura appassionante. Strano che, a quanto almeno mi risulta, non ci abbiano tirato fuori un film. 

E' anche una storia incredibilmente vera. Durante la guerra Moczarski ha combattuto i nazisti, solo che l'ha fatto militando in formazioni non comuniste. Una volta sconfitto Hitler la storia in Polonia ha girato velocemente e anche lui è diventato un nemico. Il tribunale socialista lo ha condannato a morte e ora attende il suo destino. Ignoro se per caso o per una qualche singolare volontà si trova a dividere la cella con un criminale nazista: Jurgen Stroop, organizzatore dello sterminio di 550 mila ebrei galiziani e di 71 mila prigionieri del ghetto di Varsavia.

 Vincendo il suo disgusto troverà il modo di farlo parlare. In seguito, liberato e riabilitato, dedicherà la sua vita a scrivere questo libro, che è assai di più di una potente testimonianza. 

Leggerlo mi ha lasciato scosso e sbigottito non meno del processo ad Eichmann nelle parole di Hannah Arendt. Non so se tirare in ballo la banalità del male, concetto per certi versi scivoloso. So che attraverso queste pagine nel male mi sono addentrato. E non appartiene al passato se si ritrova ancora persino nella testa di un'impiegata.

domenica 17 febbraio 2019

Indagine sul padre, criminale di guerra

Per anni avevo esitato a svolgere queste indagini, forse per un inconscio timore di imbattermi, seguendo le sue tracce, in scoperte che avrebbero superato le mie aspettative, senz'altro giù cupe. 

Già in altri libri, su tutti Paesaggi contaminati, Martin Pollack non si è certo sottratto alla verità e al suo orrore. Qui però gioca davvero a carte scoperte, lasciandosi alle spalle ogni imbarazzo, più forte di ogni ricatto degli affetti e delle emozioni.

E forse ha esitato a lungo, prima di accingersi alla più difficile delle sue indagini, provare a fare verità anche tra le pareti di casa. Però dopo aver deciso è andato in fondo: il Morto nel bunker (Keller editore) è uno dei libri più intensi e veri su ciò che ha significato essere nazisti e far parte della macchina di sterminio di Hitler.

6 aprile 1947: in un bunker dalle parti del Brennero viene ritrovato il corpo di un uomo assassinato. E' il padre di Martin Pollack e lui non ha dubbi fin dall'inizio. La sua morte violenta - spiega - era la conclusione di una vita in cui la violenza aveva giocato un ruolo di primo piano.

Indagine su mio padre, così recita il sottotitolo di un libro che non fa sconti. Quel padre Martin Pollack non l'ha mai conosciuto, eppure la sua ombra - l'ombra di ciò che ha fatto negli anni più terribili - fin dall'inizio si è stesa su di lui. Il padre, ufficiale della Gestapo, membro delle forze speciali responsabili delle esecuzioni di massa dietro la linea del fronte, criminale di guerra.

Indagare sul padre, però, significa anche indagare su una famiglia dove il nazismo è riuscito a piantare radici salde. La cronaca familiare si mescola all'affresco storico, alle vicende di comunità di lingua tedesca fuori dalla Germania che dopo la dissoluzione dell'impero asburgico sono entrate in rotta di collisione con il mondo slavo, consegnandosi ai sentimenti nazionalistici più esasperati.

Una spirale di odio e violenza che culmina appunto nella carriera del padre. Sarebbe potuto andare diversamente? A quali condizioni?

Anche da queste domande si lascia inseguire Martin Pollack, senza perdere mai di vista il punto di vista di chi da quella macchina è stato stritolato.

Per la prima volta vedevo davanti a me delle vittime di mio padre e degli uomini ai suoi ordini, per a prima volta, belli o straziati, ebbero dei volti. 

Il resto è pietà, il resto è dovere della memoria: ovvero questo libro  crudele e appassionante. 

lunedì 12 novembre 2018

Germania anno zero, il bravo giornalista dopo Hitler

Il giornalismo è l'arte di arrivare troppo tardi il più in fretta possibile. Io non l'imparerò mai. 

Così scrive, come a giustificarsi, Stig Dagerman. E in realtà non ne avrebbe bisogno: nella raccolta di articoli pubblicati da Iperborea con il titolo Autunno tedesco dimostra di essere nel tempo e nel luogo giusto per raccontare un passaggio della storia che mette a nudo questioni di sempre e di tutti.

Germania, anno zero dopo la sconfitta della follia criminale di Hitler. Il paese è in macerie, il popolo alla fame. E' il momento della resa dei conti e di un presente sospeso tra gli orrori che si sono consumati e il groviglio degli alibi, degli opportunismi, dei rimpalli di responsabilità.

Abbondano i giornalisti inviati dal resto del mondo per raccontare la Germania vinta e distrutta. Ma la voce di Dagerman - un giovane inviato svedese con simpatie anarchiche e allergia per i luoghi comuni -  si stacca da quella di ogni altro.

Non generalizza, non astrae, non guarda solo dove vuole guardare. Si muove tra le macerie di Amburgo, Berlino, Colonia. Sale su treni stipati di senzatetto, scende in cantine popolate di disperati, prende nota di genitori che vedono i figli morire di stenti, di ragazzi che rubano patate, di ragazze che si accompagnano ai soldati vincitori. 

E' consapevole che la fame è una pessima maestra di democrazia. E' altrettanto consapevole dell'ipocrisia con cui si sta portando avanti il processo di denazificazione, lasciando a galla i peggiori per rifarsi sui più piccoli. Allo stesso modo, del resto, la guerra ha tolto di più a chi aveva meno, perché si bombardano le case, non i conti in banca.

Sosteneva Alain Finkielkraut:

Non cè bisogno della letteratura per imparare a leggere. C'è bisogno della letteratura per sottrarre il mondo reale alle letture sommarie.

Questo ci insegna Stig Dagerman, giornalista malgrado se stesso, soprattutto uomo che prima di tutto si è assunto la responsabilità dello sguardo, senza prescindere dal cuore. In questo simile a un altro grande del giornalismo che guarda al mondo e che al mondo si mescola. Quel Ryszard Kapuscinski che mi ha insegnato che il bravo reporter deve essere prima di tutto una brava persona. 

Ecco, è questo che ho trovato, nelle terribili storie della Germania del 1946.

lunedì 15 gennaio 2018

Fra i boschi e l'acqua, il tempo dell'incanto

Un libro e molti chilometri dopo, è ancora lui, Patrick Leigh Fermor, il ragazzo nemmeno ventenne che ha abbandonato l'Inghilterra e i suoi disastri scolastici per raggiungere a piedi quella che ancora chiama Costantinopoli. Lo avevo lasciato con le pagine di Tempo di regali, ecco ora Fra i boschi e l'acqua: seconda parte di una trilogia, proposta da Adelphi, che è uno dei vertici della letteratura di viaggio del Novecento. E anche questa volta Fermor non tradisce le aspettative, tutt'altro.

Casomai cambia il passo e con il passo il sentimento predominante.  Prima c'era l'urgenza del distacco, il tumulto della partenza, la fame di distanza, i chilometri da macinare, quanti più possibili. Ora tutto si rallenta, per incanto non per pigrizia. Più che la meta conta la deviazione. Più che la strada percorsa la pausa a cui affidarsi. Come un grande fiume che si è lasciato dietro i tumulti dei monti, che procede lento, maestoso, gonfio d'acqua. Come il Danubio, che senz'altro è uno dei protagonisti di questo viaggio.

Altri mille chilometri. Davanti si distende la pianura ungherese: l'immensa puszta che è premessa della steppa asiatica, i boschi della Transilvania, le Porte di Ferro dove Carpazi e Balcani sembrano darsi appuntamento.

Avanti, avanti ancora. Ma cedendo alle tentazioni, che volta volta sono la notte sotto le stelle, l'indolenza richiamata da un prato, una cena tra aristocratici in un maniero o un bevuta con gli zingari intorno a un fuoco.

Incredibile, è il 1934: e l'irrequietezza sembra appartenere ad altri anni, più vicini a noi. O forse è quella di sempre, quella dei giovani chierici vaganti che da sempre si mettono in movimento, per cercare se stessi prima che un altro mondo, o forse per scappare prima ancora che per cercare.

Incredibile, è il 1934: Hitler è da poco al potere - e certe avvisaglie Fermor le coglie, come no - presto questa Europa non ci sarà più. Quel remoto mondo rurale fu spazzato via nel decennio successivo - ricorderà - e adesso mi rendo conto della fortuna che ho avuto a poterne cogliere squarci prolungati, addirittura a esserne stato un poco partecipe. Discorso che ci offre profondità storica, non tutto è sparito solo dopo, ai tempi delle autostrade, del web 2.0, dei voli low cost.

Ma intanto con la sua andatura senza fretta, con la sua splendida  capacità di divagazione, c'è ancora tempo: fra i boschi e l'acqua.



lunedì 25 settembre 2017

Zweig e Roth, in fuga nell'estate dell'amicizia

Adesso sono persone in fuga attorniate da un mondo in vacanza.

Ostenda, Belgio, estate del 1936. In questa località balneare del Mare del Nord - e so che può destare qualche perplessità la definizione di località balneare - ci sono persone che non sono in villeggiatura. Non lasciatevi ingannare dalla risacca del mare e dalle cabine colorate. Malgrado le chiacchiere al bistrot e le passeggiate sul lungomare questa non è una vacanza, ma un esilio. Il punto di arrivo - o la tappa intermedia - di una fuga dalla Germania nazista.

Quanti personaggi, in questa folla in cui sè facile intrecciare amori e bevute. Ma oltre lo champagne e i capricci della varia umanità ci sono loro, Stefan Zweig e Joseph Roth, scrittori tra i più grandi della prima metà del Novecento. Ebrei entrambi ed entrambi in fuga, ma quanto diversi.

Zweig, ovvero il successo letterario e la capacità di stare al mondo, anzi di stare nel bel mondo. Bestseller, conti in banca, leggerezza delle relazioni, senso della possibilità: la Vienna che balla il valzer sul ciglio del precipizio. 

Roth, un successo che ancora non gli arride, il denaro preso in prestito e scialacquato, l'alcol ingurgitato a farsi male, il cuore che è un magazzino di rimpianti e di rancori: Leopoli e quella terra dell'yddish e dei villaggi ebrei che è già nostalgia, prima che gli assassini di Hitler lo spazzino via.

Persone diverse, parabole diverse, ma ora accomunate dal bando nazista e dalla condizione di esuli: a Ostenda rinnovano la loro amicizia, che per le singolari traiettorie della vita si protrae ormai da una decina di anni.

Eccoli. Stefan che guarda il mare e non trova più le parole per le sue pagine. E Joseph, con la tristezza negli occhi e nessuna voglia di rinfacciare a Stefan che sulla Germania aveva avuto ragione lui, già a suo tempo:  La Germania è morta. È stata solo un sogno, apra gli occhi, la prego. Stefan, che di lì a qualche anno scapperà in Brasile e lì si ammazzerà insieme alla seconda moglie. Joseph, che morirà alcolizzato a Parigi  prima dell'arrivo dei nazisti, santo bevitore che solo l'arte riscatterà.

Cos'è Ostenda? Un respiro, una sbronza, un bivio. L'attimo prima del pronti, attenti, via. L'illusione di un altro copione. E' le pagine di questo libro  - L'estate dell'amicizia di Volker Weidermann (Neri Pozza) - che sono storia, sono letteratura, sono vita e sono la scia che ne rimane.


mercoledì 11 novembre 2015

I am a camera with its shutter open, quite passive, recording, not thinking...

Christopher Isherwood racconta le sue peripezie nella Berlino dei primi anni ’30, dove si era trasferito con l’intenzione di scrivere un romanzo. Il risultato è un libro composto di sei piccole storie che ci restituiscono un ritratto arguto e a tutto tondo della capitale tedesca durante gli ultimi giorni della Repubblica di Weimar.

Lo sguardo del giovane inglese si fissa su una Berlino dissociata, scapigliata ed euforica ma allo stesso tempo segnata dalla crisi e da tensioni sociali incandescenti. Un mondo transitorio, agitato da fallimenti bancari e teatro delle violenze di strada di nazisti e comunisti, che inseguono i loro deliri sanguinosi di palingenesi sociale. Una città sospesa che non rinuncia a vivere, ma che sta scivolando verso una discontinuità traumatica.

Isherwood si mantiene a Berlino dando ripetizioni d’inglese e vive, assieme ad altri pigionanti assortiti, in un appartamento gestito da un’affittacamere, Fräulein Schröder, un po’ impicciona come tutte le affittacamere. Isherwood osserva con distacco abbastanza british la città e i suoi abitanti. Ne emerge una galleria di personaggi variegati, ognuno con i suoi desideri.

Successo, amore, magari solo la salvezza personale. Dalle desperate housewives annoiate dei quartieri bene al milieu proletario di Hallesches Tor. Alti borghesi e starlette stralunate che si strascicano fra bar e improbabili carriere nel mondo dello spettacolo.

Una narrazione che a tratti ricorda certe sinfonie di Mahler, in cui sonorità preziose sono inframezzate da materiali di estrazione più vile.

Isherwood passa dalle dimore borghesi di città e dagli chalet sul Wannsee agli alloggi plebei con le chiazze di muffa sul soffitto. Dalle conversazioni colte e annoiate con i rampolli degli industriali alla frequentazione delle bettole sottoproletarie.

Quando si finisce l’ultima pagina e si ripone il volume viene quasi spontaneo chiedersi cosa sia successo ai protagonisti delle storie del libro.

 Lo scrittore inglese, socialista idealista, abbandona infine Berlino quando Hitler diventa padrone della città e della Germania. Isherwood, assistito da una prosa leggera e accurata, non nasconde le proprie idee, ma allo stesso tempo non giudica, osserva, riporta e lascia parlare le sue storie.

Considerato spesso il capolavoro di Isherwood, Addio a Berlino  ha anche ispirato il celebre Cabaret di Bob Fosse, con Liza Minelli nella parte della protagonista. Un romanzo autobiografico che si legge con piacere.

                                                                                                                             SLB

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Christopher Isherwood, “Addio a Berlino”
Adelphi (collana Fabula), 2013
Traduzione di Noulian L.
Pagine 252, Euro 18,00

venerdì 17 luglio 2015

In Estonia, per scoprire ciò che abbiamo alle spalle

Un piccolo paese lontano, affacciato sul Baltico, uno di quei paesi di cui sa poco e che verrebbe da pensare tagliati fuori dalla Storia. E invece la Storia qui è passata e ripassata più volte, non ha fatto sconti, ha inflitto cara armati e campi di concentramento, ha presentato il conto con invasioni e dittature.

Estonia, un estremo lembo di Europa, un'identità di confine, una possibilità di libertà che si è dovuta fare largo nell'eterna contesa tra Russia e Germania. I tre racconti di Jaan Kross raccolti de La congiura (Iperborea) fotografano altrettanti momenti del secolo delle tragedie, il Novecento.

Tallinn, 1939: i sovietici si apprestano a occupare porti e basi militari, mentre gli estoni di lingua tedesca salgono sulle navi di Hitler. Pochi anni più tardi, l'Estonia è annessa alla Germania nazista. Ma la Liberazione significa solo 6 giorni di indipendenza: Stalin invade e annette. Cambiano i padroni delle carceri, ma nelle carceri finiscono sempre i dissidenti, gli oppositori, quelli che hanno anche solo inconsapevolmente intralciato il cammino.

Jaan Kross, grandissimo scrittore che ci spalanca una finestra su un mondo pressoché sconosciuto, tutto questo lo ha ben appreso sulle sue spalle, visto che è stato arrestato dai nazisti e poi, nel 1946, anche dai sovietici.

Ma questo libro non è solo autobiografia, assolutamente no. E' anche penna felice, che inventa, racconta, insegue i destini individuali, tenta di riacciuffarli nei buchi neri della storia. 

domenica 8 febbraio 2015

Rileggendo la guerra dei nostri nonni

Dedicato a suo nonno, ma anche ai 650 mila soldati italiani che, non facendo ritorno a casa, non ebbero mai la possibilità di diventare nonni. E' un bel libro, La guerra dei nostri nonni di Aldo Cazzullo (Mondadori), un libro diverso da molti altri usciti in occasione del centenario della Grande Guerra.

Un libro da consigliare anche a coloro che non sono grandi appassionati di Storia e che pure sono disposti a cercare le storie nella Storia. Come se un vecchio reduce, se potesse essere ancora in vita, ci accogliesse al fuoco del caminetto per raccontarci le sue vicende.

Ecco, proprio così. Perché questo è un libro che non ha una tesi da dimostrare né un vero e proprio filo a legare i vari capitoli.

Un libro, certo,  dove ci sono anche le storie di persone che hanno lasciato un segno importante: Pietro Badoglio che quel mattino a Caporetto non dette l'ordine di fuoco all'artiglieria, vai a capire perché; Giuseppe Ungaretti che nelle trincee non solo salvò se stesso ma anche le sue parole di poeta; e anche Hitler, che nelle trincee fu risparmiato da un soldato nemico, e chissà come sarebbero andate le cose, invece....

Ma soprattutto le storie delle persone che erano i nostri nonni e che potevamo essere anche noi. I soldati massacrati l'istante dopo l'ordine di attacco, i prigionieri in mano austriaca a cui il governo italiano negò perfino il soccorso della Croce Rossa, i trentini che combatterono con l'impero e finirono bei campi di battaglia più lontani, incrociando i loro passi con la Rivoluzione russa, gli intervisti che dopo i tanti proclami scoprirono la realtà del massacro, i giovani fanti del Piave e del Monte Grappa, le donne che in quegli anni si fecero carico del lavoro e cominciarono a scorgere un futuro diverso....

Storie che sono la nostra storia. Storie da cui discendiamo anche noi e per cui siamo quello che oggi siamo.

venerdì 16 gennaio 2015

Il mistero di Alan Turing, padre del computer

Fra qualche giorno questa storia la vedrò anche al cinema, raccontata in The imitation game, ma intanto non è male arrivarci preparati, per cercare davvero di capire chi è stato davvero Alan Turing, il matematico inglese che ancora ci interroga, con le sue sfide scientifiche e i misteri della sua persona.

Alan Turing, cioè l'uomo che, negli anni della guerra contro Hitler,  riuscì a trovare la chiave per decodificare i messaggi generati da Enigma, la macchina che i nazisti ritenevano inviolabile: risultato di gran lunga superiore a una vittoria sul campo. Ma anche l'uomo che in molti indicano come il padre - uno dei padri - del computer. L'uomo che si è posto - e ci ha posto - domande che ancora danno le vertigini e che sanno di film di fantascienza, tipo: si può dire che una macchina calcolatrice automatica sia in grado di pensare?

Per saperne di più mi sono procurato L'enigma di un genio di Nigel Cawthorne (Newton Compton), rapida biografia che sa di libro fatto uscire in occasione del film, e che pure sa restituire, almeno in alcune pagine, il fascino del personaggio. Non solo lo scienziato, anche la persona: il ragazzo scontroso sui banchi di scuola, il giovane che correva quasi per punire il proprio corpo e che doveva arrivare fino alle Olimpiadi, l'omosessuale che la (sedicente) giustizia britannica condannò a una sconcertante castrazione chimica, l'uomo scomparso con morte prematura e misteriosa (suicidio? omicidio? incidente?), pare per una mela all'arsenico.

Non è un gran libro, ma c'è Alan Turing. In attesa del grande romanzo che merita.

martedì 23 dicembre 2014

Attraversando l'Atlantico con Woody Guthrie

Ero intrappolato tra due leggende. Mi sentivo come una fetta di salame in un panino eroico. "Fantastico! Andiamo!" dissi.

Ecco, più o meno comincia così, per l'italo-americano Jim Longhi, figlio di pugliesi approdati a New York una manciata di anni prima, uomo che vivrà una vita da film - da film alla Frank Capra o alla Billy Wilder - lui che attraverso svariati lavori improbabili - pugile, guardia del corpo, commerciante di calze - arriverà a laurearsi in legge alla Columbia University, a dedicarsi alla politica e alla scrittura, a farsi amico personaggi come Frank Sinatra e Arthur Miller, a fallire per pochi voti l'elezione al Congresso.

Però non è di tutto questo che parla Woody, Cisco e me, libro sorprendente e accattivante che ci propone Clichy. Qualche indizio piuttosto ce lo offre il sottotitolo, Tre uomini in mare. Niente a che vedere, però, con altri titoli che suonano più o meno allo stesso modo e che ci conducono dalle parti di Jerome K. Jerome e dell'umorismo inglese.

No davvero, perché Woody è Woody Guthrie, la leggenda del folk americano, l'uomo che ha fatto della sua chitarra un'arma potente contro il fascismo e che con le sue canzoni indica una strada ai lavoratori americani, dignità e sindacato, lotta e futuro. Quanto a Cisco, beh, si chiama Cisco Houston e nonostante il nome da Fratelli Marx è musicista anche lui, compagno di Woody in concerti, scorribande e immagino anche interminabili notti di alcool e chiacchiere.

Jim si ritrova al loro fianco quasi per caso, mentre cincischia tra un'esitazione e un timore nella fila per arruolarsi volontari nella Marina mercantile che sta sfidando Hitler. Che non è un compito di comodo, retrovia da imboscati: perché quelle navi che attraversano l'Atlantico, cariche di rifornimenti (soprattutto munizioni) sono essenziali per combattere i nazisti in Europa. Lo sanno anche i nazisti che con i loro sommergibili in quella primavera del 1943 hanno già affondato 700 di quelle navi e ucciso 6 mila marinai americani.

E dunque ci sono molti libri in questo libro: c'è la storia di un'avventura di guerra e la storia di Woody  e dei suoi due amici; ci sono alcune canzoni che sono entrate nella leggenda e c'è quell'immigrazione italiana che non ha niente a che vedere con le storie di mafia, ma semmai con l'orgoglio per la propria cultura; c'è l'antifascismo in terra d'America e c'è anche un ritorno in Italia, insieme allo sbarco degli Alleati, che ci consente uno sguardo diverso da molti altri. E certo, c'è anche un'America che sta dalla parte giusta, quella che sa regalare coraggio e speranza.

L'America che in fondo abbiamo scoperto di amare in tanti libri e film e che ora, inaspettatamente, ho ritrovato in queste pagine.

mercoledì 17 dicembre 2014

Modiano e la storia di Dora, che di sé non ha lasciato traccia

Sono persone che si lasciano dietro poche tracce. Quasi anonime. Non si distinguono da certe strade di Parigi, da certi paesaggi di periferie dove ho scoperto, per caso, che avevano abitato. Ciò che sappiamo di loro si riassume spesso in un semplice indirizzo. E questa precisione topografica contrasta con quanto ignorammo per sempre della loro vita... con quel vuoto, con quel grumo di ignoto e di silenzio.

Ecco, forse è tutto in queste righe il senso ultimo di un piccolo grande libro del premio Nobel Patrick Modiano, Dora Bruder (Guanda): persone inghiottite dall'oblio, tracce evanescenti e ombre che forse abitano le strade e le piazze delle nostre città, grumi di silenzio, vuoti che si spalancano come se ci stesse per franare il terreno sotto i piedi.

Si legge in un lampo, Dora Bruder, ma poi è uno di quei libri che non se ne vanno, che continuano a interrogare come dovere della memoria, come necessità di riparazione, come vita che è stata cancellata dalle nostre mappe. Molti altri libri, molte altre storie, lascerò passare prima di non avvertire più lo sguardo addosso, enigmatico ed esigente, di quella ragazza in copertina.

Qualcosa del genere è successo anche a me, con la storia di Enrica Calabresi, che anni fa ho cercato di raccontare in Un nome (Giuntina), onestamente concedendo a me stesso che non c'era molto da raccontare, o forse c'era da raccontare più un bisogno di verità, una ricerca, che la storia di una persona.

Con Un nome la professoressa ebrea suicida prima della deportazione e una foto di tempi sereni in copertina. Con Dora Bruder un ritaglio di giornale in cui due genitori ebrei chiedono notizie della figlia scomparsa nella Parigi occupata da Hitler. Vuoto e silenzio appunto. Anche se poi la fine di Dora è, almeno burocraticamente, nota. Un treno per il lager senza ritorno per questa adolescente che non ha lasciato praticamente niente dietro di sé. Ma prima, prima che è successo? Che vita è stata quella di Dora?

Un mistero che non cambierà la nostra vita. E che pure dà un senso al nostro modo di stare al mondo e di interrogare la storia.

venerdì 12 settembre 2014

Un idealista tedesco in Papua Nuova Guinea

Verrà perciò raccontata, a titolo esemplificativo, la vicenda di un singolo tedesco, un romantico, che come molti altri di questa specie fu un artista mancato, e se essa dovesse richiamare alla mente qualche analogia con un successivo romantico e vegetariano tedesco, che forse avrebbe fatto meglio a restare accanto al suo cavalletto, ebbene, ciò è del tutto intenzionale e non a caso.

Non che in realtà c'entri molto, l'Hitler evocato in questa citazione (a proposito, meglio sopprimere senz'altro quel "forse") con l'August Engelhardt che è il protagonista di Imperium di
Christian Kracht. Se non per il fatto che entrambi respirano l'aria della Germania di inizio secolo, così intrisa di volontà di potenza e di ideali che volano troppo alto, in attesa di schiantarsi al suolo.

Almeno al protagonista di Imperium non abbiamo massacri da attribuire, crudeltà da elencare, se non nei confronti di se stesso: giovane idealista, vegetariano, nudista, autore di un libro dal titolo che è insieme programma e auspicio - Un futuro spensierato. Il suo sogno? Avviare una piantagione di noce di cocco, non per calcolo imprenditoriale, ma per regalare all'umanità un nuovo modo di alimentarsi.

Un futuro da costruire, lontano, molto lontano: in un brandello di quell'impero coloniale che di lì a poco  la Grande Guerra avrebbe spazzato via anche dalle carte geografiche: perché chi si ricorda ora che c'era un pezzo di Germania in quella che oggi è Papua Nuova Guinea e che quella che chiamiamo Nuova Britannia un tempo era la Nuova Pomerania?

Come andrà a finire, mentre tutto il mondo vacilla sull'orlo del precipizio, non sto a dirlo. Ma questo è certamente un libro che si fa leggere: originale, intenso, spiazzante.

giovedì 28 novembre 2013

Quando il giovane inglese investì Hitler

Giuro, poi non ne parlo più, ma il primo dei 101 incontri di One on One di Craig Brown (edizioni Clichy) è troppo bello perché non ne parli.

Monaco, Germania 1931. John Scott-Ellis è un gentiluomo inglese di nemmeno 20 anni che ha frequentato Eton con scarso rendimento e che in seguito si farà conoscere soprattutto nel mondo delle corse dei cavalli. Ignoro perché ora stia girando per Monaco alla guida di una Fiat.

Hitler non è ancora arrivato al potere, però bisogna essere ciechi per capire cosa potrà fare, se gli sarà permesso. Intanto la marea del consenso cresce a vista d'occhio. Il  Mein Kampf  ha già venduto oltre 50 mila copie. Quel giorno è appena uscito dalla sede del partito di cui è il leader indiscusso. Attraversa la strada dimenticandosi di guardare a sinistra.

Sebbene stessi andando pianissimo, un uomo è sceso dal marciapiede e mi si è praticamente buttato sotto la macchina, ricorderà più tardi John, con parole che più o meno devono essere di molti investitori.

L'uomo con i baffetti ne esce bene. Si rialza, saluta, se ne va. Suppongo che tu non sappia chi era quell'uomo. Le parole del suo compagno di viaggio frulleranno per molto tempo nella testa del giovane. Anche tanti anni più tardi, quando avrà modo di dire:

Per qualche secondo, ho stretto il destino dell'Europa in queste mie maldestre mani. Era solo un po' scosso, ma se in quell'incidente l'avessi ucciso, avrei cambiato la storia del mondo.

Chissà, se con la macchina non fosse andato tanto piano....

martedì 17 settembre 2013

Le luci del coraggio nella notte di Hitler

Quando Hitler prese il potere ero nella vasca da bagno.

Comincia così Tutto ciò che sono di Anna Funder, giornalista e scrittrice australiana di cui qualche anno fa avevo già letto con piacere C'era una volta la Ddr. E che anche questa volta dedica il suo lavoro alle tragedie della Germania del Novecento.

Distratta, rassegnata, rancorosa, la Repubblica di Weimar da un giorno all'altro capitola. Hitler è il nuovo cancelliere e come sia potuto succedere è bene continuarcelo a domandare. Non era questo il paese della più forte socialdemocrazia europea? Quello che pochi anni prima sembrava addirittura poter imboccare la strada della rivoluzione operaia?

E certo il tumore nazista attacca il corpaccione malato della Germania con il disastro della Grande Guerra. Ma da quelle macerie non esce fuori solo il fanatismo omicida del pittore mancato - l'imbianchino come lo chiamerà Bertolt Brecht - e caporale senza apparente futuro. Da lì sortiranno anche giovani animati da generose utopie, pronti a mettersi in gioco per un mondo migliore, per una pace nella rivoluzione, per una rivoluzione di pace.

E' questa la storia - in parte autentica, in parte romanzata - che Anne Funder racconta. Quella di quattro giovani che non si arrendono, nonostante il terrore di Hitler.

Coraggio, resistenza, responsabilità. Anche in esilio, quando piuttosto si tratterebbe di inventarsi un'altra esistenza e si potrebbe più facilmente mollare gli ormeggi, piuttosto che continuare una partita disperata contro gli scherani di Hitler. Anche vigliaccherie e tradimenti, certo, perché è così che siamo fatti, senza nascondere nulla.

Ann Funder molti e molti anni più tardi, in Australia, avrà modo di conoscere l'unica sopravvissuta di questa storia. Come un testimone che passa di mano in mano. Per restituirci in pieno queste vite come barlumi di luce nella notte dell'umanità. Facciamone tesoro.


giovedì 22 agosto 2013

Non perdete la promessa dell'alba

Non mi sento colpevole. Ma se tutti i miei libri sono pieni di appelli alla dignità, alla giustizia, se vi si parla tanto dell'onore di essere uomini, forse è perché ho vissuto, fino all'età di ventidue anni, del lavoro di una donna vecchia, malata e spossata. Gliene voglio ancora, per questa ragione.

Anche a prescindere dalla sana invidia che provo per la scrittura di Romain Gary e dall'incanto di molte delle sue pagine. A rendere imperdibile La promessa dell'alba può bastare questa donna che sembra racchiudere dentro di sè tutta la tenacia dell'amore e la capacità di allagare il mondo con i suoi sogni. Trovatelo un altro personaggio così, nella varietà della letteratura planetaria: e in effetti è davvero difficile inventarselo, può essere solo vero.

Il libro, in effetti, ruota tutto intorno alla figura della madre di Romain, ebrea lituana che dopo la Rivoluzione fugge col figlio in Francia. E' sola e senza mezzi, ma sa già quale futuro dovrà spettare a Romain. Aviatore, diplomatico, scrittore. Non può essere che la Francia tradisca le attese, così come non può essere che la Francia sia invasa dalle truppe di Hitler. Così sicura che a certi dettagli - se dettagli sono - è il caso di provvedere per tempo.

Bisogna trovare uno pseudonimo, disse con fermezza, un grande scrittore francese non può portare un nome russo. Se tu fossi un virtuoso del violino andrebbe molto bene, ma per un titano della letteratura francese non va...

E chi l'avrebbe detto. E' proprio quello che è successo. La certezza del sentimento, è evidente, può resistere più e meglio della Linea Maginot. Il resto è solo la fatica di un figlio per non tradire le aspettative di una madre che aveva perso tutto se non un'idea di futuro.




lunedì 3 settembre 2012

Sorpresa, ai nazisti fece paura anche Bambi

Povero Bambi, cucciolo costretto a guardarsi dalla furia nazista, non solo dalle pallottole dei cacciatori....

Non la sapevo, questa storia, e sono contento di averla scoperta sul supplemento della domenica di Repubblica, grazie a un articolo di Mario Serenellini.

E dunque Bambi, prima di diventare il tenero film della Walt Disney, è stato un libro di successo di uno scrittore austriaco conosciuto come Felix Salten che, con i dovuti distinguo, è stato una sorta di Carlo Collodi mitteleuropeo, solo che dalla sua penna intinta nella fantasia non è venuto fuori un burattino di legno, ma questo piccolo cerbiatto.

Fu uno straordinario successo internazionale, Bambi, pubblicato per la prima volta a Vienna nel 1923. Ma chi se lo sarebbe mai aspettato che anni più tardi i nazisti lo avrebbero proibito e perfino condannato al rogo?

Successe proprio questo: e non solo perché Felix Salten si chiamava in realtà Siegmund Salzmann ed era un ebreo di origine ungherese. E' anche che i nazisti intravidero nella storia di Bambi cose che non c'erano nemmeno nell'intenzione dell'autore, non fosse altro che il libro era stato scritto quando per Hitler la cancelleria era ancora un miraggio. Bambi, insomma, sapeva troppo di allegoria politica sulla persecuzione degli ebrei.

Ci sarebbe molto da dire su questa storia. Sui libri che sono davvero barche in balia di venti e correnti che di volta in volta le spingono verso significati nuovi e talvolta inattesi. Sulle dittature che sfoderano il pugno di ferro ma in realtà hanno paura di tutto. Sul nazismo, con cui non poteva finire in altro modo, se agli inizi non seppe far altro che prendersela con un cerbiatto.

E certo che ci penso e ci penserò. Ma ora mi viene in mente anche un'altra cosa. Bambi, il film, è del 1942. La Walt Disney lo produce nel bel mezzo della guerra. Che anche il cucciolo, con tutti i suoi amici della foresta, sia stato chiamato in causa per resistere a Hitler?

venerdì 1 ottobre 2010

Se anche Hitler fosse stato quell'altro

Cosa c'è nella strada che non si prende? Quale altra vita ci avrebbe aspettato se in qualche punto del nostro passato non ci fosse stato quel gesto, quella parola, quella deviazione quasi impercettibile da un altro destino?

Non puoi leggere questo libro senza farti sorprendere da domande come queste. Non puoi richiuderlo senza farti accompagnare da qualcosa che ristagna come un'esitazione, un dubbio che resiste perché non vuole farsi assoluzione per insufficienza di prove.

Non sceglie la via più piana Eric-Emanuel Schmitt in La parte dell'altro (e/o edizioni). L'immensità della nostra vita nel bene come nel male ce la lascia intuire attraverso la parabola dell'uomo che per noi è e non può che essere il paradigma del male. Eppure quello stesso uomo avrebbe potuto essere qualcos'altro, se solo se...

Già,  chissà, chissà cosa sarebbe successo se Hitler avesse potuto assecondare un sogno giovanile, se fosse riuscito a diventare un pittore di successo, invece che lo squallido "imbianchino" di Brecht. Quanto sarebbe stato meglio per il mondo e anche per lui, se avesse davvero fatto sua la parte dell'altro.

Un libro appassionante, curioso, costruito e scritto bene, con la vita vera e la vita possibile che viaggiano in parallelo spingendoci sempre sul ciglio di quello che avrebbe potuto essere e non fu... Un libro che si può leggere perfino senza lasciarsi soverchiare dalle elucubrazioni sulle respondabilità e sulle circostanze che fanno di una vita ciò che è.

Senza assoluzioni di sorta, e questo è importante, perché forse non sei stato tu a tracciare la strada, ma sei senz'altro tu, chiunque tu sia, a imboccarla e a percorrerla fino in fondo...

mercoledì 31 marzo 2010

La persona "seria" che fece paura a Hitler



Era un teologo tedesco, Dietrich Bonhoeffer, convinto che la teologia non può accontentarsi di galleggiare nei cieli, deve stare con entrambi in piedi ben piantati sulla terra.

Un teologo che riconosceva come unica autorità con cui Dio si manifesta tra gli uomini "l'autorità di coloro che soffrono": e questo è già molto. Sicuro poi che la preghiera dovesse farsi azione, la solitudine comunità. E che non era possibile voltare le spalle ai torti del mondo, nemmeno in nome di Dio. E questo è moltissimo, per me che in genere ho poco in comune con i teologi.

Successe che il destino di Dietrich Bonhoeffer, uomo di chiesa, si incrociò con quello di Hitler: e apparentemente non ci doveva essere partita. La pulce schiacciata dagli assassini del Reich.

Apparentemente fu proprio così che andò. Il teologo che aveva scelto la Resistenza non ebbe scampo. Riuscì solo a intravedere la salvezza, lui che amava la vita, che voleva testimoniare la vita con la vita. Fu ammazzato in un campo il giorno prima della liberazione, per ordine espresso di Hitler, che solo una settimana più tardi si uccise nel bunker di Berlino.

Dietrich Bonhoeffer fu impiccato a una forca improvvisata in tutta fretta, il suo corpo bruciato. Eppure fu più grande, più forte dei suoi assassini.

Lui che fin dall'inizio non usò giri di parole per denunciare i pericoli del nazionalsocialismo. Che tornò consapevolmente dagli Stati Uniti, a guerra già cominciata, per condividere il destino del suo popolo e aiutarlo a uscire dal tunnel.

Dietrich Bonhoeffer era un tedesco. Ma anche allora c'erano tedeschi così, non tutti erano come Hitler.

Questo libro, bello, ci aiuta a esserne consapevoli. E c'è una cosa che ci dice Eraldo Affinati e che mi ha particolarmente colpito:

I resistenti tedeschi, ritratti insieme alle mogli, ai figli, vissero in una rete di affetti familiari... Il nazista, al contrario, è spesso un uomo solo insieme ad altri uomini soli.


Credo che voglia dire qualcosa, anzi, molto.

Dietrich Bonhoeffer, semplicemente, era una persona seria. E anche oggi abbiamo bisogno come del pane di persone come lui.

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...