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domenica 11 maggio 2014

Ricordando Beatrice, nelle parole di Paolo Rumiz



E mentre il ragù, sobbollendo in cucina, sparge lo stesso odore italiano fiutato sui Monti Sibillini, nel racconto dei commensali emerge l'ombra di una regina: una certa Beatrice di Pian degli Ontani, vissuta oltre due secoli fa vicino al Passo dell'Abetone.

Una pastora che fu famosissima, che innumerevoli uomini tentarono inutilmente di battere, e che Tommaseo e Ruskin sentirono dal vivo, trascrivendone le rime su un libro fitto di straordinarie incisioni....

(Paolo Rumiz, La leggenda dei monti naviganti, Feltrinelli)

giovedì 15 agosto 2013

Ciò che gli alberi bisbigliavano tra loro

Più grande diventavo, più aiutavo il babbo nel suo lavoro.

E facevo molto altro. Pascolavo le pecore, con la rocca alla vita, facevo frasche, raccattavo le spighe.
 

Faticavo e crescevo, faticavo e sentivo venir su qualcosa da dentro di me.
 

Non aveva un nome, però le mie giornate possedevano una speciale gioia.
 

Mi beavo della quiete degli alpeggi, godevo dell’aura, sorbivo il silenzio ingioiellato di infiniti rumori.
Talvolta me ne stavo ferma a sorvegliare il gregge, con un filo d’erba in bocca: seduta nella natura guardavo e pensavo.
 

Mi incantavo al cospetto dei prati, che sono granai di vita.
 

Mi piaceva accoccolarmi sui cigli scoscesi. Lasciavo vagare il mio sguardo e la bellezza del creato mi rapiva.
 

Alle volte però le parti si rovesciavano. Non era la bellezza a conquistarmi. Ero io a coglierla alla sprovvista.
 

No, non mi guardi così, professore: sono cose difficili da esprimere per chi non ha i suoi studi.
Durava un istante e svaniva subito.
 

E io me ne rimanevo di sasso come per una rivelazione.
 

Rimiravo la natura e mi sembrava di stare rimpiattata dietro un uscio, a origliare e capire ciò che non mi spettava di sapere.
 

Potevo quasi comprendere ciò che gli alberi bisbigliavano tra loro.
 

E dopo mi scuotevo. Tornavo ai miei animali, alle mie erbe da falciare e caricarsi.
 

Come un mistero che si svela e che un attimo dopo ti scappa ancora.

(da Paolo Ciampi, Beatrice, Sarnus edizioni)

domenica 26 agosto 2012

Mi sembra un sogno, ancora un sogno

Mi sembra un sogno, ancora un sogno, che proprio io, Beatrice Bugelli, la pastora, abbia cantato in piazze gremite, che signori e letterati se ne siano rimasti a pendere dalle mie labbra. Ma questo gliel’ho già detto.
L’altro giorno mi son destata con questo pensiero: fossi stata sempre muta, a questo punto la mia sorte non sarebbe diversa. E di me non serberà comunque memoria il tempo.
Non fosse per persone importanti come lei, tutto quanto ho vissuto e fatto mi parrebbe una fantasia.
E io lo so, professore, che vorrebbe farmi una domanda che più o meno suona così: vale davvero qualcosa, la poesia, se non può essere ricordata?
Vale la pena?
E a me vien da risponderle così, professore, per come la intendo io.
Le rispondo che la poesia è come le sere quando fuori nevica e in casa c’è il paiolo sul fuoco, il legno brucia e scoppietta, il fumo sale e per un po’ tutto tace e per aria si spande una quiete che è un miracolo. E che allo stesso tempo è una folata, è vento di tramontana, solo che non è gelido, piuttosto caldo come un tizzone.
Le rispondo che la poesia è acqua fresca che scaturisce dalla roccia e ci disseta, che è ninna nanna con cui si appisola beato quell’unico paese tutto nostro che è il cuore. Ed è il placido conversare di fanciulle al fresco di una sera d’estate, quando si vagheggia di amori che non si vedono ma si portano nel cuore.
Io non so cosa si provi a lasciarle scritte, le parole, non so nemmeno cosa siano davvero quelle formichine nere che le persone istruite lasciano sui fogli.
Le parole mi scorrono dentro, libere, mi attraversano e mi prendono.
Sono sangue, sono vita. In esse, professore, mi c’interno. E con esse ritorno fuori e abbraccio il mondo.
Non sono rincitrullita e lo so che le parole scritte resteranno scritte in eterno, e che le mie parole, invece, sono come nebbia nel vento che scappa, sono fumo che sale al cielo.
Ma la parola detta, la parola cantata, è bella perché è unica, perché è tutta piena di melodia.
E questa melodia conta più di me e persino più di lei, professore.
Perché la bellezza è fiore che sfiorisce e poi ritorna.
Perché la poesia è bellezza e la bellezza dura per sempre, anche quando sparisce. Perché è gioia che rimane, splendore che aumenta. E se gli altri se ne scorderanno alla svelta, noi le troveremo sempre un posticino indisturbato, come una pietra preziosa in uno scrigno.
E sarà dolce sogno, carezza di ricordo, salvezza.
Dove sono allora  i canti della mia giovinezza?
Vorrei illudermi, dire che sono un’eco che vibra ancora su questi nostri monti. Magari è davvero così.
Perché questi versi sono i fiori incolti di questa terra.
Fiori che nascono e muoiono senza che nessuno debba curarsene.
Muoiono ma la primavera dopo sono di nuovo qui a rallegrarti.

(da Paolo Ciampi, Beatrice, Sarnus edizioni)

domenica 25 dicembre 2011

Le parole di Beatrice come un augurio per tutti

Con le parole di Beatrice, che risuonano come un canto di amore per la vita e per la poesia, un grande augurio di buone feste per tutti.


Le parole mi scorrono dentro, libere, mi attraversano e mi prendono.
Sono sangue, sono vita. In esse, professore, mi c’interno. E con esse ritorno fuori e abbraccio il mondo.
Non sono rincitrullita e lo so che le parole scritte resteranno scritte in eterno, e che le mie parole, invece, sono come nebbia nel vento che scappa, sono fumo che sale al cielo.
Ma la parola detta, la parola cantata, è bella perché è unica, perché è tutta piena di melodia.
E questa melodia conta più di me e persino più di lei, professore.
Perché la bellezza è fiore che sfiorisce e poi ritorna.
Perché la poesia è bellezza e la bellezza dura per sempre, anche quando sparisce. Perché è gioia che rimane, splendore che aumenta. E se gli altri se ne scorderanno alla svelta, noi le troveremo sempre un posticino indisturbato, come una pietra preziosa in uno scrigno.
E sarà dolce sogno, carezza di ricordo, salvezza.
Dove sono allora i canti della mia giovinezza?
Vorrei illudermi, dire che sono un’eco che vibra ancora su questi nostri monti. Magari è davvero così.
Perché questi versi sono i fiori incolti di questa terra.
Fiori che nascono e muoiono senza che nessuno debba curarsene.
Muoiono ma la primavera dopo sono di nuovo qui a rallegrarti.

martedì 11 ottobre 2011

Ci sono ancora le antiche parole di Islanda

Mi hanno acceso qualcosa, le riflessioni che lo scrittore islandese Jon Kalman Stefansson dedica alla letteratura della sua terra, che tra l'altro è il paese ospite alla prossima Fiera del libro di Francoforte (bella occasione, tra l'altro, per prendere confidenza con alcuni di questi autori di Islanda dai nomi impossibili): Dice Stefansson:

Credo che ogni islandese porti le saghe nel sangue, anche se non ne ha mai letto nemmeno una parola, perché per secoli sono state lette a voce alta dai miei connazionali nelle loro case di torba, generazioni e generazioni le hanno assorbite: i personaggi, le battute, gli atteggiamenti. E questo ci ha formati. Quindi è probabile che le saghe siano una parte di me, che mi scorrano nel sangue, ma raramente si presta attenzione alla circolazione sanguigna; il sangue continua a scorrere e nel frattempo si va avanti a vivere...

Ragionamento che  sfonda una porta aperta con me, toscano che ha il cuore dalle parti della montagna dove per secoli e secoli gente analfabeta si alzava in piedi nelle lunghe veglie intorno al fuoco e improvvisava poesia (storia che ho provato a raccontare con Beatrice).

Però mi piace sentirmela dentro di nuovo, questa cosa. Sei islandese e magari non hai letto niente delle saghe che sono il fondamento della letteratura del tuo popolo. Eppure quelle parole antiche, quei versi che hanno risuonato nell'aria di chissà quali sere di inverno sono ancora con te. Come dentro di me abitano ancora le ombre di quei poeti che non sapevano né leggere né scrivere.

Potenza della parola che racconta e si fa poesia, capace di resistere anche se non diventa scrittura, o lettura.

sabato 12 febbraio 2011

Siamo noi Omero, il poeta cieco

Lo diceva Victor Hugo:
Il mondo nasce, Omero canta. È l’uccello di questa aurora

Omero, dunque. O meglio, l’uomo che abbiamo imparato a chiamare Omero. L’antico greco che ci ha regalato i poemi con cui inizia la storia della nostra letteratura e forse della nostra bellezza. Il poeta cieco, che non aveva occhi per guardare, ma che proprio per questo sapeva guardare più lontano di chiunque altro e staccare dal suo silenzio parole che risuonavano a lungo nel cuore degli uomini.

Tutto questo è Omero: la grandezza dei versi dell’Iliade e dell’Odissea e, nel ricordo di molti di noi, il busto di un anziano dall’espressione saggia e solenne, e poi magari le traduzioni e gli studi dei tempi di scuola.

Penso spesso a lui, credo che si sia in diversi a farlo. Eppure, cosa si sa davvero di Omero?

Già nell’antichità si erano moltiplicate le biografie, le vite immaginarie, le leggende. E già allora non si contavano le città che si contendevano il vanto di avergli dato i natali, da Atene a Rodi, da Argo a Chio e Smirne. Città, per inciso, quasi tutte dell’Asia Minore, tanto per destarci il sospetto che la nostra poesia in effetti sia arrivata da lontano, dall’Oriente.

Qualcuno assicurava che Omero era nato pochi anni dopo la guerra di Troia, altri che era nato parecchio dopo. Anche sul significato del suo nome ci si accapigliava: discendeva da una parola con cui i greci si riferivano ai non vedenti o dalla parola che indicava, più misteriosamente, un ostaggio?

Ce n’è voluta per iniziare a convincersi che forse Omero non è mai esistito. Anzi, che non è mai esistito perché in realtà di Omero ce ne sono stati centinaia, migliaia.

Infiniti Omero prima di Omero che hanno raccontato di Achille e di Ettore, del re Agamennone e dell’astuto Ulisse. Infiniti poeti che hanno cantato nelle feste e nei banchetti, hanno improvvisato versi che poi sono passati di bocca in bocca, hanno tramandato la memoria delle gesta, delle imprese e delle miserie dei loro eroi.

Così la più grande poesia della nostra letteratura è nata dalla parola leggera, imprendibile, evanescente di tanti poeti senza volto e senza nome.

Ed è bello pensare a tutto questo e poi pensare ai nostri nonni e ai nostri bisnonni, alla nostra Toscana contadina dove si passava le sera a veglia alzandosi in piedi per una rima, per un’ottava improvvisata da chi non sapeva né leggere né scrivere. Credo che sia per questo che qualche tempo fa mi è venuto di scrivere Beatrice: un modo per provare a saldare qualche debito di gratitudine.

È bello pensare a tutto questo, perché permette a ognuno di noi di ritrovare il dono della parola. Perché aiuta ognuno di noi a sentirsi un po’ Omero.

Pensate, ognuno di noi come il grande poeta cieco.

venerdì 24 dicembre 2010

Le parole di Beatrice sono auguri per tutti voi

Dalla mia Beatrice, una manciata di parole che mi suonano come un canto di amore per la vita e per la poesia. Parole che mi piacciono come un grande augurio di buone feste per tutti.


Le parole mi scorrono dentro, libere, mi attraversano e mi prendono.
Sono sangue, sono vita. In esse, professore, mi c’interno. E con esse ritorno fuori e abbraccio il mondo.
Non sono rincitrullita e lo so che le parole scritte resteranno scritte in eterno, e che le mie parole, invece, sono come nebbia nel vento che scappa, sono fumo che sale al cielo.
Ma la parola detta, la parola cantata, è bella perché è unica, perché è tutta piena di melodia.
E questa melodia conta più di me e persino più di lei, professore.
Perché la bellezza è fiore che sfiorisce e poi ritorna.
Perché la poesia è bellezza e la bellezza dura per sempre, anche quando sparisce. Perché è gioia che rimane, splendore che aumenta. E se gli altri se ne scorderanno alla svelta, noi le troveremo sempre un posticino indisturbato, come una pietra preziosa in uno scrigno.
E sarà dolce sogno, carezza di ricordo, salvezza.
Dove sono allora i canti della mia giovinezza?
Vorrei illudermi, dire che sono un’eco che vibra ancora su questi nostri monti. Magari è davvero così.
Perché questi versi sono i fiori incolti di questa terra.
Fiori che nascono e muoiono senza che nessuno debba curarsene.
Muoiono ma la primavera dopo sono di nuovo qui a rallegrarti.

venerdì 30 luglio 2010

Quando Beatrice ci regalava ancora il suo canto

Ripenso spesso al canto di Beatrice e a queste parole, tratte dal mio libriccino. Ve le  ripropongo, perché penso che possano valere per tutti noi

Mi sembra un sogno, ancora un sogno, che proprio io, Beatrice Bugelli, la pastora, abbia cantato in piazze gremite, che signori e letterati se ne siano rimasti a pendere dalle mie labbra. Ma questo gliel’ho già detto.
L’altro giorno mi son destata con questo pensiero: fossi stata sempre muta, a questo punto la mia sorte non sarebbe diversa. E di me non serberà comunque memoria il tempo.
Non fosse per persone importanti come lei, tutto quanto ho vissuto e fatto mi parrebbe una fantasia.
E io lo so, professore, che vorrebbe farmi una domanda che più o meno suona così: vale davvero qualcosa, la poesia, se non può essere ricordata?
Vale la pena?
E a me vien da risponderle così, professore, per come la intendo io.
Le rispondo che la poesia è come le sere quando fuori nevica e in casa c’è il paiolo sul fuoco, il legno brucia e scoppietta, il fumo sale e per un po’ tutto tace e per aria si spande una quiete che è un miracolo. E che allo stesso tempo è una folata, è vento di tramontana, solo che non è gelido, piuttosto caldo come un tizzone.
Le rispondo che la poesia è acqua fresca che scaturisce dalla roccia e ci disseta, che è ninna nanna con cui si appisola beato quell’unico paese tutto nostro che è il cuore. Ed è il placido conversare di fanciulle al fresco di una sera d’estate, quando si vagheggia di amori che non si vedono ma si portano nel cuore.
Io non so cosa si provi a lasciarle scritte, le parole, non so nemmeno cosa siano davvero quelle formichine nere che le persone istruite lasciano sui fogli.
Le parole mi scorrono dentro, libere, mi attraversano e mi prendono.
Sono sangue, sono vita. In esse, professore, mi c’interno. E con esse ritorno fuori e abbraccio il mondo.
Non sono rincitrullita e lo so che le parole scritte resteranno scritte in eterno, e che le mie parole, invece, sono come nebbia nel vento che scappa, sono fumo che sale al cielo.
Ma la parola detta, la parola cantata, è bella perché è unica, perché è tutta piena di melodia.
E questa melodia conta più di me e persino più di lei, professore.
Perché la bellezza è fiore che sfiorisce e poi ritorna.
Perché la poesia è bellezza e la bellezza dura per sempre, anche quando sparisce. Perché è gioia che rimane, splendore che aumenta. E se gli altri se ne scorderanno alla svelta, noi le troveremo sempre un posticino indisturbato, come una pietra preziosa in uno scrigno.
E sarà dolce sogno, carezza di ricordo, salvezza.
Dove sono allora  i canti della mia giovinezza?
Vorrei illudermi, dire che sono un’eco che vibra ancora su questi nostri monti. Magari è davvero così.
Perché questi versi sono i fiori incolti di questa terra.
Fiori che nascono e muoiono senza che nessuno debba curarsene.
Muoiono ma la primavera dopo sono di nuovo qui a rallegrarti.

venerdì 23 luglio 2010

Omero, il poeta cieco che è in noi

Lo diceva Victor Hugo:
Il mondo nasce, Omero canta. È l’uccello di questa aurora

Omero, dunque. O meglio, l’uomo che abbiamo imparato a chiamare Omero. L’antico greco che ci ha regalato i poemi con cui inizia la storia della nostra letteratura e forse della nostra bellezza. Il poeta cieco, che non aveva occhi per guardare, ma che proprio per questo sapeva guardare più lontano di chiunque altro e staccare dal suo silenzio parole che risuonavano a lungo nel cuore degli uomini.

Tutto questo è Omero: la grandezza dei versi dell’Iliade e dell’Odissea e, nel ricordo di molti di noi, il busto di un anziano dall’espressione saggia e solenne, e poi magari le traduzioni e gli studi dei tempi di scuola.

Penso spesso a lui, credo che si sia in diversi a farlo. Eppure, cosa si sa davvero di Omero?

Già nell’antichità si erano moltiplicate le biografie, le vite immaginarie, le leggende. E già allora non si contavano le città che si contendevano il vanto di avergli dato i natali, da Atene a Rodi, da Argo a Chio e Smirne. Città, per inciso, quasi tutte dell’Asia Minore, tanto per destarci il sospetto che la nostra poesia in effetti sia arrivata da lontano, dall’Oriente.

Qualcuno assicurava che Omero era nato pochi anni dopo la guerra di Troia, altri che era nato parecchio dopo. Anche sul significato del suo nome ci si accapigliava: discendeva da una parola con cui i greci si riferivano ai non vedenti o dalla parola che indicava, più misteriosamente, un ostaggio?

Ce n’è voluta per iniziare a convincersi che forse Omero non è mai esistito. Anzi, che non è mai esistito perché in realtà di Omero ce ne sono stati centinaia, migliaia.

Infiniti Omero prima di Omero che hanno raccontato di Achille e di Ettore, del re Agamennone e dell’astuto Ulisse. Infiniti poeti che hanno cantato nelle feste e nei banchetti, hanno improvvisato versi che poi sono passati di bocca in bocca, hanno tramandato la memoria delle gesta, delle imprese e delle miserie dei loro eroi.

Così la più grande poesia della nostra letteratura è nata dalla parola leggera, imprendibile, evanescente di tanti poeti senza volto e senza nome.

Ed è bello pensare a tutto questo e poi pensare ai nostri nonni e ai nostri bisnonni, alla nostra Toscana contadina dove si passava le sera a veglia alzandosi in piedi per una rima, per un’ottava improvvisata da chi non sapeva né leggere né scrivere. Credo che sia per questo che qualche tempo fa mi è venuto di scrivere Beatrice: un modo per provare a saldare qualche debito di gratitudine.

È bello pensare a tutto questo, perché permette a ognuno di noi di ritrovare il dono della parola. Perché aiuta ognuno di noi a sentirsi un po’ Omero.

Pensate, ognuno di noi come il grande poeta cieco.

sabato 19 giugno 2010

Dai Tuareg all'Abetone, la poesia dei pastori


A volerla percorrere fino in fondo, questa è una storia che sembra fatta apposta per incantare e sedurre.

Una storia meravigliosamente generosa, che ci regala suggestioni a non finire: la poesia e la pastorizia, un sottile filo che si snoda attraverso i millenni. Non mi riferisco alle tante pagine che nel tempo si sono offerte a chi ama cibarsi di letteratura, dai lirici dell’antica Grecia ai cantori di tante finte Arcadie del nostro Seicento, fino al pastore errante dei versi di Leopardi, con il suo dolce canto notturno.

No, questa poesia è parola viva, parola che scappa via, parola di pastori veri. Poco importa che si trovi tra le rocce degli Abruzzi oppure tra i deserti solcati dalle carovane dei Tuareg. La domanda del poeta di Recanati – Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai, silenziosa luna? – appartiene a tutti loro. È fatta delle loro vite, segnate da albe rarefatte e da irrimediabili distanze, dalle fatiche della transumanza e dall’immobilità di meriggi infuocati.

Il pastore ha tempo per immergersi nel tempo universale, vive nel silenzio che a volte è maestro nello scolpire la parola.

C’è chi accosta la poesia dei pastori, in ogni caso la poesia popolare, a una non meglio precisata poesia naturale che i bambini, soprattutto loro, possiedono e talvolta manifestano. Viene in mente cosa Piero Citati raccontava di Tolstoi. Una volta lo scrittore russo si ritrovò a scrivere per ore e ore sotto la dettatura di due contadinelli che stava cercando di strappare all’analfabetismo. Gli pareva di scorgere il talento creatore, che era abituato a immaginare in Omero e in Puskin, personificato per la prima volta in due ragazzetti contadini: la poesia stava davanti ai suoi occhi; ed era una grande emozione vedere esteriorizzata questa terribile forza, che tante volte aveva sentito agitarsi dentro di lui.

Bello, come no. Però non mi pare un granché spacciare la poesia popolare, la poesia non scritta, per una sorta di bambinata. Il verso del pastore emerge dal lavoro e dalla meditazione. E poi perfino l’improvvisazione non si improvvisa, se così si può dire. Ha bisogno di una maestria che non si inventa, anche se difetta dell’istruzione che vantano i “veri” intellettuali.
Semmai preferisco pensarla come Ermolao Rubieri, nell’Ottocento autore di una storia della poesia popolare italiana.

Gli uomini prima di avere scritto, certamente parlarono. E anche la poesia… dee aver cominciato dallo essere popolare per poi diventare letteraria… Se i letterati possono perfezionare le favelle, quelli che le formano sono i popoli, e non è possibile che i popoli per cantare aspettassero il cenno dei letterati.


E il cenno dei letterati non serve, quando c’è da cantare il lavoro e la festa, il sudore e le stagioni, il riposo e la tavola.

Sono le voci di un coro che racconta la vita di milioni di uomini senza volto, senza nome: gocce di un fiume generoso.
Voci che rompono il silenzio, che restituiscono la parola a chi la sorte assegnata per nascita vorrebbe senza parola.
Voci di un mondo che, apparentemente, sembra da sempre uguale a se stesso e impermeabile a qualsiasi cambiamento.
Stornelli e rispetti, ninne nanne e ballate: un mondo di poesia che arriva da tempi remoti e che solo gli scempi delle ultime due o tre generazioni hanno provato a spazzare via. Forse non ci sono riusciti.

Da Paolo Ciampi, Beatrice. Il canto dell'Appennino che conquistò la capitale, Sarnus edizioni

domenica 28 marzo 2010

Beatrice e il professore, comincia così


È a tempo, professore. Entri, la prego, entri. Non stia lì.
Faccia attenzione, però: chini la testa, che quelle travi fanno male, a batterci contro. Ecco, così.
Come è ridotto, professore. Pare un pulcino bagnato, da quanto è fradicio. E come trema. Solo a vederla mette brividi di freddo.
È dura venire a piedi dal paese, con questa neve alta un metro così lesta a farti prigioniero. Ogni passo affondi e vai sempre più giù. Devi farti forza per tirare avanti. Il gelo entra nelle ossa, non se ne va più via. Prosegui, batti i denti e non c’è mai fine.
E lei è arrivato fin quassù. Grazie, professore, grazie.
Se l’aspettava questa cameruccia affumicata, questo pagliericcio?
Già. Soprattutto non si aspettava di trovarmi ridotta così. Una povera vecchia che sta per salutare il mondo, senza più forza nemmeno per tenersi in piedi.
Che dirle: nemmeno io me l’aspettavo.
Nei giorni scorsi sono stata malazzata, ma ieri mi sentivo bene. E per dirla tutta, anche fino a poche ore fa non avevo di che lamentarmi. Poi non so cosa mi ha preso, all’improvviso sono andata giù.
Che scena, tutti si sono spaventati. Hanno chiamato il prete per assistermi, e si sa, è questo il segno peggiore per chi si porta un corpo stanco come il mio… Dopo che mi ha visto l’ho pure sentito mormorare: “Per me non arriva a stasera”.
Invece mi sono riavuta, e ora sono qui. Distesa, ma proprio moribonda questo ancora no.
Mi era già capitato, di ritrovarmi con un piede nella fossa. Anche l’anno scorso il prete lo fecero salire in fretta e furia. Arrivò e mi ero già ripresa: non era ancora la volta buona.
E magari nemmeno ora se ne farà di nulla.
Certo, se non sarà oggi, sarà domani. Non posso sfuggire in eterno.
Non ne ho nemmeno voglia.
Guardi là in fondo, guardi il campicello dei morti che mi attende. Non è bello?
Con questo sole che scintilla sulla neve pare che mi saluti.
Per me è una promessa di pace.
Non le pare, professore?


(Paolo Ciampi, Beatrice.Il canto dell'Appennino che conquistò la capitale, Sarnus. Disponibile anche su Ibs)

lunedì 28 dicembre 2009

Buone parole dall'Appennino


Beh, questo è un consiglio per un libro che credo in pochissimi oggi conoscono. Un libro quasi introvabile, ma che ci attanaglia con il fascino ruvido, e anche inatteso, del nostro Appennino qual era prima della televisione e delle settimane bianche. Un libro che fa bene perché ci riporta a certe nostre radici e ci aiuta a liquidare ogni pretesa di superiorità intellettuale, solo perché abbiamo studiato, perché viviamo la contemporaneità, o viviamo in città dove non mancano le occasioni.

Si chiama I racconti di Cutigliano, lo ha scritto Giuseppe Lipparini, un letterato bolognese che fin da giovane, per motivi di salute, ha frequentato e amato l'Appennino toscano. Qui ha preso moglie, qui ha scoperto la poesia degli umili e ha trovato motivi di ispirazione per la sua scrittura.

Mondadori pubblicò questa raccolta di racconti nel lontano 1930,una piccola coraggiosa casa editrice pistoiese ce l'ha riproposta qualche anno fa. Insomma, un libro che non lambirà mai alcuna classifica, destinato a pochi estimatori.

Eppure sono pagine preziose perché capaci di riportarci a un mondo antico nel momento del suo trapasso verso un'altra epoca. Capaci anche di offrire una sorta di risarcimento a una cultura mai riconosciuta come tale, nella convinzione che essa sia appannaggio dei letterati, che non possa esserci poesia dove c'è solo miseria.

Su questa montagna di poesia ce n'era tanta e bella.

Tutto questo non a caso è raccontato con gli occhi dell'intellettuale cittadino. Un mondo che anch'io ho provato a raccontare in Beatrice, la storia della poetessa illetterata di Pian degli Ontani. Per questo mi sento particolarmente vicino a questo libro. E a Lipparini, naturalmente. L'ho riletto in questi giorni, ma senza di esso forse non avrei mai scoperto nemmeno Beatrice.

venerdì 18 dicembre 2009

Lungo il Po assieme a Michele Marziani

More about La signora del cavialeSarà perché se c'è una cosa che mi emoziona, che mi restituisce il senso della verità, non è la storia con la esse maiuscola, ma la vita degli uomini che con quella storia si incrociano, anche se il più delle volte si limitano a subirla. Sarà perchè raccontare tutto questo è una dote rara, che sorge dall'umiltà, dall'attenzione, direi anche da una certa dolcezza: e quando la incontri, questa dote, è facile rinnovare il senso di sorpresa e giusto provare qualcosa di simile alla gratitudine.

Dico tutto questo perché questo è quanto ho "sentito" leggendo l'ultimo libro di Michele Marziani, La signora del caviale (Cult Book). E aggiungo che questa non è stata una "scoperta" causale, ma una lettura voluta, ricercata, dopo che di Michele avevo letto il precedente Umberto Dei. Biografia non autorizzata di una bicicletta, un libro che fin dal titolo rivelava quelle che, a mio parere, sono alcune delle sue più belle caratteristiche: una voce che per essere originale non ha bisogno di forzature o esibizionismi stilistici, che sa raccontare cose sode, che sanno di terra, di lavori manuali, di gente comune, ma anche di sguardi che si proiettano oltre, magari sfruttando il volo dei sogni.

Anche questa è una storia particolare, per l'ambientazione, prima di tutto: il Po della gente che del Po viveva,ancora negli anni del fascismo, un Po che non è più quello di Riccardo Bacchelli e che pure oggi ci pare più distante di una qualsiasi meta esotica.

A queste vite lungo il fiume Marziani sa davvero attribuire le giuste parole, fuori da ogni bozzettismo, da ogni tentazione folclorista. Non cercando una storia fuori dalla storia, ma addirittura accompagnando la sua narrazione verso uno degli snodi più drammatici del nostro Novecento, quello delle persecuzioni razziali e poi della guerra di Liberazione.

E' stata una bella impresa, lo so, e una sfida coraggiosa. Leggendo queste pagine mi è venuto in mente che quando con Beatrice ho provato a restituire la voce ai poeti contadini dell'Appennino ho comunque avuto la possibilità di raccontare un mondo fuori dalla storia. Più facile, senz'altro.

Ma questa è una divagazione, e in realtà con le poche righe che mi avanzano non voglio fare altro che esprimere il piacere provato per un romanzo che ha saputo farsi racconto leggero anche nel dramma, di quella leggerezza che ha la vita quando è alimentata dalla poesia o dai sogni di chi guarda l'età adulta.

Dimenticavo, mi resta la curiosità per gli storioni che un tempo, evidentemente, erano una ricchezza del Po. Credevo che si trovassero solo sul Volga o sul Mar Caspio. Ma anche questo è un altro discorso, rimedierò con wikipedia.

domenica 13 settembre 2009

Omero, il poeta cieco che è in noi


Lo diceva Victor Hugo:
«Il mondo nasce, Omero canta. È l’uccello di questa aurora»

Omero, dunque. O meglio, l’uomo che abbiamo imparato a chiamare Omero. L’antico greco che ci ha regalato i poemi con cui inizia la storia della nostra letteratura e forse della nostra bellezza. Il poeta cieco, che non aveva occhi per guardare, ma che proprio per questo sapeva guardare più lontano di chiunque altro e staccare dal suo silenzio parole che risuonavano a lungo nel cuore degli uomini.

Tutto questo è Omero: la grandezza dei versi dell’Iliade e dell’Odissea e, nel ricordo di molti di noi, il busto di un anziano dall’espressione saggia e solenne, e poi magari le traduzioni e gli studi dei tempi di scuola.

Stamattina mi è venuto di pensare a lui, leggendo un libro dedicato a Ulisse, "eroe e uomo". Eppure, cosa si sa davvero di Omero?

Già nell’antichità si erano moltiplicate le biografie, le vite immaginarie, le leggende. E già allora non si contavano le città che si contendevano il vanto di avergli dato i natali, da Atene a Rodi, da Argo a Chio e Smirne. Città, per inciso, quasi tutte dell’Asia Minore, tanto per destarci il sospetto che la nostra poesia in effetti sia arrivata da lontano, dall’Oriente.

Qualcuno assicurava che Omero era nato pochi anni dopo la guerra di Troia, altri che era nato parecchio dopo. Anche sul significato del suo nome ci si accapigliava: discendeva da una parola con cui i greci si riferivano ai non vedenti o dalla parola che indicava, più misteriosamente, un ostaggio?

Ce n’è voluta per iniziare a convincersi che forse Omero non è mai esistito. Anzi, che non è mai esistito perché in realtà di Omero ce ne sono stati centinaia, migliaia.

Infiniti Omero prima di Omero che hanno raccontato di Achille e di Ettore, del re Agamennone e dell’astuto Ulisse. Infiniti poeti che hanno cantato nelle feste e nei banchetti, hanno improvvisato versi che poi sono passati di bocca in bocca, hanno tramandato la memoria delle gesta, delle imprese e delle miserie dei loro eroi.

Così la più grande poesia della nostra letteratura è nata dalla parola leggera, imprendibile, evanescente di tanti poeti senza volto e senza nome.

Ed è bello pensare a tutto questo e poi pensare ai nostri nonni e ai nostri bisnonni, alla nostra Toscana contadina dove si passava le sera a veglia alzandosi in piedi per una rima, per un’ottava improvvisata da chi non sapeva né leggere né scrivere. Credo che sia per questo che qualche tempo fa mi è venuto di scrivere Beatrice: un modo per provare a saldare qualche debito di gratitudine.

È bello pensare a tutto questo, perché permette a ognuno di noi di ritrovare il dono della parola. Perché aiuta ognuno di noi a sentirsi un po’ Omero.

Pensate, ognuno di noi come il grande poeta cieco.

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