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mercoledì 2 settembre 2020

Oltre il Danubio e i Carpazi, ciò che ci si lascia dietro


Ecco, pensò, basta andar via da un luogo ed è come se tutto quello che ci si lascia dietro non fosse mai esistito. E fissò i monti lontani dietro i quali spuntava il sole.


Questo è un libro potente, un libro che non finisce più, che fa girare la testa per tutte le vicende che racconta, i personaggi che mette in gioco, i passaggi da una visione di insieme al dettaglio più minuto e viceversa, un libro che è bello portare a termine, dopo essersi immersi in esso giorno dopo giorno, non senza una certa dose di coraggio.

E' storia, è  epica, è destino di un popolo raccontato attraverso le parabole di tanti destini individuali. Migrazioni, così si chiama. Più difficile pronunciare il nome dell'autore, Milos Crnjanski. Quasi scontato l'editore, Adelphi, con la sua storica attenzione alle voci della Mitteleuropa e dei Balcani.

Oltre mille pagine fitte fitte per narrare la storia dei soldati serbi che dopo aver perso la loro terra conquistata dagli ottomani, dopo aver combattuto con l'esercito degli Asburgo, guardarono alla Russia degli zar e dell'ortodossia per ricreare una nuova patria. 

Storia, insomma, di una terra promessa, ricercata, sognata, agognata, inseguita attraverso la valle del Danubio e i Carpazi, da conquistare con interminabili stenti e fatiche, da guadagnare malgrado le miserie umane di ogni genere.

Terra promessa che poi forse non accoglierà a braccia aperte e che forse sarà fonte di delusione, ma questa è già un'altra storia. Intanto bisogna partire da quella primavera del 1744, l'alba in cui Vuk Isakovic partì per la guerra, sentendosi dentro qualcosa di più di una premonizione:

Gli erano venute a noia quelle continue migrazioni e quell'inquietudine che né in lui né negli uomini che conduceva mai si placava. 

giovedì 14 maggio 2020

I Balcani sono le sue storie

Già, dove iniziano e dove finiscono i Balcani? Comprendono anche la Turchia europea? E che dire di Trieste? 

Potremmo cominciare e non smettere più con domande così, mescolando geografia e storia, rovesciando le complicazioni dell'una sull'altra e viceversa. Sì, non smettere più se non per stanchezza. Per rimanere con un pugno di mosche. 

I Balcani, figurarsi. Tutti più o meno sappiamo ritrovarli su una carta geografica, tranne poi confondersi o lasciarsi sorprendere. Per dire, il sottoscritto ha sempre fatto fatica a rammentarsi che per questa terra non esiste solo su un mare, che dall'altra parte ce n'è un altro non meno intrigante e difficile, anzi. L'Adriatico ma anche il Mar Nero.

Questo per quanto mi riguarda. E sempre per quanto mi riguarda ho tratto conforto e piacere dalla lettura di Dove iniziano i Balcani di Francesca Cosi ed Alessandra Repossi (Ediciclo): due viaggiatrici che da tempo ci portano nel mondo attraverso le storie di viaggio e la buona letteratura.

E' un bel libro, Dove iniziano i Balcani, col titolo senza punto interrogativo, tanto non ce n'è bisogno, tanto la domanda sarebbe piuttosto un'altra: non dove cominciano, ma cosa sono i Balcani.

L'Altro che ci è vicino, l'Oriente sotto casa: così sfuggente che pare una farfalla che si sottrae continuamente al nostro retino e quasi si prende gioco di noi.  

Meglio le storie dunque: si tratti della fortuna turistica di Bled come di Joyce a spasso per Pola, delle ville come delle isole galera di Tito, degli spiedini di carne onnipresenti come delle tracce lasciate da Danilo Kiš, autore che ci dovremmo tutti tenerci stretto, delle città inventate dal regista Kusturica come dei tormenti di Sarajevo, dei gatti del Montenegro come delle folle di Medjugorje....

Nessuna somma da tirare alla fine, nessuna vera conclusione. Tanto le storie bastano a se stesse. Non ne usciremo con confini più chiari, piuttosto con un diverso senso di prossimità. Ed è di gran lunga meglio così. 

  

giovedì 23 aprile 2020

Il buon giornalista, i Balcani e la guerra smascherata

Il bene prevale numericamente sul male, ma non sa fiutare il pericolo.

Ha quasi un quarto di secolo, questo libro, ma ben pochi sono i granelli di polvere che si sono depositati sulle sue pagine, molte le parole, come queste, che andrebbero scolpite. Non è solo il reportage appassionato di un grande giornalista viaggiatore nella guerra che alla fine del secolo scorso insanguinò i Balcani, in paesi cui oggi non ci viene più di riferirci come ex Jugoslavia. E' molto di più, come per i libri di un altro reporter nei conflitti del Novecento, meglio se periferici e dimenticati, Ryszard Kapuscinski: che in Angola come in Bolivia raccontava storie che avevano piedi ben piantati per terra, ma non appartenevano solo alla cronaca. 

Così Paolo Rumiz e questo suo libro, Maschere per un massacro (Feltrinelli), opportunamente riedito a parecchi anni di distanza dalla prima uscita, mentre l'ex-Jugoslavia pareva già finita negli archivi della storia. Invece è ancora qui, deve essere ancora qui, con la sua lezione che vale per ogni guerra e direi per ogni crisi - anche laddove le armi tacciono - per ogni situazione in cui la tentazione di giocare a carte coperte o false è troppo forte. 

Un imbroglio, questa è la parola con cui Rumiz riassume ciò che si mise in moto per innescare quel conflitto. Perchè tale fu quel massacro costruito in laboratorio e sdoganato ai fessi come conflitto di civiltà, scontro tribale o generica barbarie. Imbroglio di cui molti furono complici, anche solo per conformismo, ignavia, pigrizia intellettuale. Persino rispettabili professori di linguistica o storici di secoli andati: perchè per predisporre la guerra si mobilitarono i vocabolari, si chiamarono a raccolta i morti, si fece del passato un deposito di munizioni. 

Maschere e bugie, ma anche una verità da opporre: L'odio esplode solo se c'è qualcuno che decide di servirsene. Individuare chi e come, ecco cosa può fare il buon giornalista, l'uomo che ha occhi per guardare e voce per le domande giuste.


 

lunedì 8 ottobre 2018

L'odore dell'Adriatico e i quattro gol al Brasile

Semplicemente, esistono stagioni nella vita dell'uomo, e nella vita degli imperi e dei reami, quando la cosa migliore è tirarsi da parte, scomparire in qualche luogo oppure passare a un'assenza totale e ottusa.


Anche l'insolita comitiva che compare all'inizio del libro, in marcia verso una sconosciuta località balcanica, sembra rispondere a questa esigenza. Scomparire per cercare pace, per scansare il peggio. Del resto cosa può fare un padre con un figlio condannato da una malattia senza speranza? Tanto più che il mondo intero sembra barcollare sul ciglio del precipizio, in quel giugno del 1938. 

Forse la risposta, se esiste, si potrà trovare solo puntando al sud: verso il mare e poi verso un improbabile hotel nell'entroterra, mentre a Parigi stanno per cominciare i Mondiali di calcio.

Non conoscevo Miljenko Jergović, scrittore di Sarajevo che verrebbe da definire di culto, malgrado in Italia sia ancora poco conosciuto e finora pressoché introvabile. Meno male che ci ha pensato Bottega Errante, editore friulano bravoa splancarci diverse finestre sulla letteratura balcanica, con un libro, Radio Wilimowski, allo steso tempo intenso e spiazzante.

Wilimowski, anzi, Ernest Wilimowski è una leggenda del calcio polacco, perché a Parigi riuscì a segnare quattro gol al Brasile -e mai nessuno è arrivato a tanto in una gara ufficiale. Polacco, ma anche tedesco: uomo della Slesia, per l'esattezza, prima che i successivi eventi recidano legami e identità, sospingendo per una volta per tutte a un'appartenenza piuttosto che all'altra. 

E chissà che cosa succederà di questo padre - un professore in pensione di Cracovia - chissà quanto tempo ancora resterà da vivere a suo figlio David. 

Nel frattempo c'è questa partita che pare ancora più vera ascoltata alla radio che seguita con la batteria di telecamere di oggio. C'è la magia delle parole dello speaker e c'è la sensazione di un'impresa irripetibile. E dopo, dopo c'è anche la sconfitta, come quasi sempre capita: ma intanto si può ancopra sognare, in questo angolo sperduto di mondo. E respirare gli odori dell'Adriatico, abbandonarsi al vento.  


 

domenica 6 maggio 2018

Per il mondo da giornalista allergico ai luoghi comuni

Sono un giornalista, e spesso i giornalisti cercano scampo nella cuccia tiepida dei luoghi comuni.

Così dice Flavio Fusi, giornalista di lungo corso che per decenni ha girato il mondo in lungo e in  largo, dalla Bosnia al Nicaragua, dal Kosovo al Chiapas, dalla Cecenia al Ruanda, insomma in ogni luogo dove un confine si sbriciolava oppure si faceva muro, le urne lasciavano il posto alle fosse comuni e la contabilità degli uccisi e degli esuli metteva in fila gli zeri. 

Lo dice all'inizio del suo Cronache infedeli (Voland editore), libro in cui appunto racconta le sue esperienze di inviato e corrispondente, ben disposto alla sorpresa e comunque allergico ai luoghi comuni. Uno su tutti, che per un certo periodo, dopo il crollo del Muro di Berlino, ha conosciuto una certa fortuna: quello della fine della storia. Figurarsi: ci avrebbero pensato i Balcani a chiudere la questione, qualche anno prima di un secondo e più pervicace luogo comune, quello dello scontro di civiltà.

Ha fatto altro Flavio Fusi, invece che inseguire luoghi comuni nobilitati da visioni e teorie: ha fatto il suo mestiere di cronista. E il cronista, si sa, si valuta dalle scarpe: se è bravo deve aver per forza le suole consumate, perché non si è accontentato del computer in redazione. 

Per una vita Fusi è andato a vedere là dove le cose accadevano. E più che ragionare delle sue idee e convinzioni ci ha mostrato quanto accadeva. Con l'umiltà che è virtù dei migliori giornalisti - penso per esempio a Rzysard Kapuscinski - ovvero dei giornalisti che non guardano al proprio ombelico, ma colgono i volti e gli sguardi, fermano dettagli che parlano da soli, raccontano la grande storia attraverso le piccole storie.

Tutto questo ritroviamo in questo libro filtrato attraverso la memoria e attraverso una grande qualità di scrittura: che non è enfasi e artificio, piuttosto è essere se stessi. 

Be there, essere là, come dicono gli americani. Virtù del giornalista che sta dove le cose accadono, fermo restando che la linea del fronte può essere anche la periferia di una nostra città. Prendere per mano il lettore, accompagnarlo dentro gli eventi,  fargli respirare l'aria: perché anche lui sia là, perché non possa dire "non mi riguarda".

Diceva il grande Kapu che il buon giornalista non può che essere anche un buon uomo: ci ho pensato parecchio, immergendomi in queste pagine. 

lunedì 15 gennaio 2018

Fra i boschi e l'acqua, il tempo dell'incanto

Un libro e molti chilometri dopo, è ancora lui, Patrick Leigh Fermor, il ragazzo nemmeno ventenne che ha abbandonato l'Inghilterra e i suoi disastri scolastici per raggiungere a piedi quella che ancora chiama Costantinopoli. Lo avevo lasciato con le pagine di Tempo di regali, ecco ora Fra i boschi e l'acqua: seconda parte di una trilogia, proposta da Adelphi, che è uno dei vertici della letteratura di viaggio del Novecento. E anche questa volta Fermor non tradisce le aspettative, tutt'altro.

Casomai cambia il passo e con il passo il sentimento predominante.  Prima c'era l'urgenza del distacco, il tumulto della partenza, la fame di distanza, i chilometri da macinare, quanti più possibili. Ora tutto si rallenta, per incanto non per pigrizia. Più che la meta conta la deviazione. Più che la strada percorsa la pausa a cui affidarsi. Come un grande fiume che si è lasciato dietro i tumulti dei monti, che procede lento, maestoso, gonfio d'acqua. Come il Danubio, che senz'altro è uno dei protagonisti di questo viaggio.

Altri mille chilometri. Davanti si distende la pianura ungherese: l'immensa puszta che è premessa della steppa asiatica, i boschi della Transilvania, le Porte di Ferro dove Carpazi e Balcani sembrano darsi appuntamento.

Avanti, avanti ancora. Ma cedendo alle tentazioni, che volta volta sono la notte sotto le stelle, l'indolenza richiamata da un prato, una cena tra aristocratici in un maniero o un bevuta con gli zingari intorno a un fuoco.

Incredibile, è il 1934: e l'irrequietezza sembra appartenere ad altri anni, più vicini a noi. O forse è quella di sempre, quella dei giovani chierici vaganti che da sempre si mettono in movimento, per cercare se stessi prima che un altro mondo, o forse per scappare prima ancora che per cercare.

Incredibile, è il 1934: Hitler è da poco al potere - e certe avvisaglie Fermor le coglie, come no - presto questa Europa non ci sarà più. Quel remoto mondo rurale fu spazzato via nel decennio successivo - ricorderà - e adesso mi rendo conto della fortuna che ho avuto a poterne cogliere squarci prolungati, addirittura a esserne stato un poco partecipe. Discorso che ci offre profondità storica, non tutto è sparito solo dopo, ai tempi delle autostrade, del web 2.0, dei voli low cost.

Ma intanto con la sua andatura senza fretta, con la sua splendida  capacità di divagazione, c'è ancora tempo: fra i boschi e l'acqua.



sabato 25 marzo 2017

Mare calmo, correnti sotto, dopo la guerra in Bosnia


Nel posto dove sono nata sarei anche potuto venire al mondo come bosniaca. Sarei stata la stessa persona, eppure tu mi avresti guardata con occhi diversi - come vittima. In quanto serba, tutti mi vedono come potenziale carnefice, senza sapere niente della mia vita e dimenticando che ci sono vittime anche tra i carnefici e che le vittime diventano carnefici nel momento in cui ne hanno l'opportunità.

Ecco, forse basterebbero queste cinque righe, per consigliarvi la lettura di Mare calmo di Nicol Ljubic, giornalista nato a Zagabria ma che vive e lavora in Germania e che in tedesco scrive. E che tedesco a tutti gli effetti è, non fosse che presumibilmente si porta dietro le memorie e le ferite dei Balcani da cui proviene, passato con cui non è facile fare i conti.

Nemmeno quando il presente è quiete (apparente) dopo la tempesta, mare calmo, appunto. Sotto si agitano sempre le correnti.

Ed è questa anche la storia del libro. Che è una storia di amore di due ragazzi per cui la guerra in Bosnia potrebbe essere un ricordo sfocato di infanzia, ciò che i padri e i nonni raccontano, qualora non preferiscano il silenzio. Ma cosa succede se i due appartengono - brutto questo verbo, ma è il caso di usarlo - se appartengono a storie diverse e contrapposte del mattatoio in Bosnia? Cosa succede se il padre di lei viene accusato di crimini di guerra e consegnato al Tribunale dell'Aia per il processo?

Sulla trama non aggiungo niente - leggetelo piuttosto questo libro, con cui l'editore Keller ancora una volta ci accompagna nelle letterature e nelle storie di un'Europa che conosciamo meno e che talvolta addirittura stentiamo a riconoscere tale.

Leggetelo - per scoprire ciò che si agita dopo i naufragi, ciò che rimane come cicatrice anche dopo la lunga convalescenza. E per inseguire, fa sempre bene, le parabole dei sentimenti e delle singole vite allorché si scontrano con i muri della Storia. 

martedì 6 dicembre 2016

L'amore perduto di Don Chisciotte, anzi, di Cervantes

Oggi sono sulle tracce nientemeno che di Cervantes. In cerca della verità sulla sua prigionia in quella fortezza a picco sul mare da cui, forse, sarebbe nata una delle figure femminili più idealizzate della letteratura.
Don Chisciotte e Dulcinea, nella realtà, si sono incontrati qui. Nei Balcani.

Ci sono libri che hanno la capacità di mescolare viaggi e sogni, viaggi nei libri e viaggi nella realtà dei posti, mi verrebbe da dire anche verità e finzione, se solo si potesse mai sapere dove termina l'una e dove comincia l'altra, perché poi vai a sapere: non è autentica anche la fantasia che irrompe nelle nostre giornate e si fa rivelazione? O la stessa letteratura che galoppa con l'immaginazione?

Questioni complesse, ma anche ingredienti che stanno tutti dentro L'amore perduto di Cervantes, opera di Angela Rodicio, giornalista spagnola con trascorsi importanti di inviata nelle guerre dei Balcani.

E un viaggio nei Balcani è anche questo: lungo la costa del Montenegro, fino all'odierna Ulcinj, l'antica roccaforte veneziana di Dulcigno. Fino a una storia che da quattro secoli si tramanda e che ha il sapore della leggenda, ma appunto anche della verità.

Non è qui che Cervantes è stato portato prigioniero dopo la battaglia di Lepanto? E sarà poi vero che in questa fortezza ha finito per innamorarsi della figlia del bey?

Già, una storia degna di un romanzo di Emilio Salgari. Oppure del Don Chisciotte.... Dulcigno, Dulcinea.... Nomi che si richiamano, che evocano complicità, ricordi, corrispondenze.

Dalla giornalista spagnola in viaggio al viaggio di Cervantes. Dalla storia di quest'ultimo al suo grande romanzo, di imprese e sogni, di follia e di amori. Il racconto del prigioniero, romanzo dentro il romanzo e prima ancora forse vita, ma anche Dulcinea, nome armonioso, peregrino e significativo e allo stesso tempo nome di una cittadina affacciata sull'Adriatico...

C'è da perdere la testa.... Oppure semplicemente da abbandonarsi, alla corrente della parole, alla risacca delle vicende che ci riguardano.  

martedì 26 aprile 2016

Questa è l'Europa, fosse comuni sotto i campi di grano

Sono le fosse comuni in cui furono gettati i corpi degli ammazzati. Sono le paludi, i fiumi, le doline adoperate come discarica dei morti senza nome. Sono i boschi e i campi che ancora oggi conservano segreti che troppi hanno trovato conveniente lasciare tali.

Paesaggi contaminati, li chiama Martin Pollack, giornalista e scrittore tedesco che il problema della memoria e dell'oblio se l'è ritrovato in casa, figlio e nipote di nazisti convinti e senza pentimento - e dev'essere insopportabile sapere che tra i tuoi famigliari c'è anche il comandante di una squadra di sterminio in Europa orientale.

Paesaggi contaminati è anche il titolo del libro che ora l'editore Keller propone al lettore italiano. Libro intenso, a metà tra il saggio e il reportage, che colpisce duro a ogni pagina, consegnandoci a un orrore smisurato. Dolore, ingiustizia, colpa. Ma anche memoria e pietas. Perché questa è l'Europa, un immenso cimitero senza croci, una distesa di fosse comuni.

Sì, questa è l'Europa, tra i Balcani e l'Ucraina, la Polonia e l'Austria: una terrificante successione di luoghi dove l'uomo ha praticato lo sterminio di massa e si è liberato dei cadaveri come si farebbe con le carcasse degli animali, infliggendo l'estremo oltraggio.

Questi luoghi sono oggi luoghi diversi. Anche se la terra ha coperto tutto. Anche se l'erba è ricresciuta e gli alberi hanno messo radici. Almeno la loro percezione è cambiata, lo si capisce nei silenzi e nelle parole sommesse, imbarazzate, di chi abita nei dintorni.

Poi è vero, bisogna vedere. Bisogna voler vedere. Perché non è facile accettare che anche il bel Danubio blu sia una grande fossa comune. E che le patate e le cipolle crescano su ciò che rimane di quei poveri corpi.

Quando paesaggi idilliaci celano oscuri segreti, recita la copertina. E questa davvero è l'Europa. Non l'Europa del Medioevo, ma ciò che ci ha lasciato l'Europa del Novecento. 
 

martedì 29 marzo 2016

Accompagnando il Danubio fino al suo mare

Quasi tremila chilometri dalla sorgente alla foce, attraverso dieci paesi e molteplici lingue, culture, storie. Sedici tappe più che robuste, molti incontri, suggestioni ed emozioni a non finire, perché si sa, pedalare fa bene al cervello, ci spinge addirittura più lontano di quanto consentano le ruote. Per poi raccontare tutto questo in un libriccino di novanta pagine, solo novanta pagine, dense ed essenziali, tanto che come non leverei una parola, difficilmente ne aggiungerei una.


Eccolo Il mio Danubio di Guillaume Prébois, giornalista ciclista che Ediciclo ci propone, con prefazione di Paolo Rumiz. L'ho letto per Pasqua, nelle pause di un'escursione in bici lungo il Sentiero della Bonifica, nel cuore della mia Toscana. E leggendolo mi sono lasciato trasportare nel cuore dell'Europa, ho rivissuto qualcosa dei tratti di Danubio che già sono riuscito a percorrere e ho fantasticato su altri viaggi nei Balcani e fino al Mar Nero. Ho riassaporato vecchie letture di Claudio Magris e di altri scrittori del grande fiume e attraverso di loro ho fantasticato su altri fiumi da accompagnare dalla sorgente alla foce - e perché no, per una volta anche dalla foce alla sorgente.

Poesia dello sforzo fisico che è un patto con noi stessi e con le terre che attraversiamo. Bicicletta che diventa assai di più di un mezzo di trasporto e si fa strumento di conoscenza, addirittura di indagine di ciò che ci circonda. E per il resto scrittura meravigliosamente limpida, capacità di cogliere nel viaggio ciò che davvero conta.

Lungo il fiume che è stato confine e via d'acqua. Da Ovest a Est, in direzione contraria rispetto alle invasioni, alle ondate dei popoli nomadi, alle orde che sono paura ancestrale. Per ritrovare, riscoprire, rinsaldare. Perché questo è il viaggio, questo è ciò che ci si riporta a casa quando il fiume si getta nel suo mare.

lunedì 7 settembre 2015

Oltre i confini di Oriente con Balkan Circus

Beh, per me è questo che devono essere i libri di viaggio, mica un itinerario, una meta tracciata su una mappa, una successione di tappe, piuttosto un caleidoscopio di emozioni, un groviglio di storie da provare a dipanare. Proprio così, come in questo Balkan Circus di Angelo Floramo (Ediciclo).

Libro che ti prende alla sprovvista, libro che come tutti i buoni libri non riesce facile definire. Cosa c'è dentro? Racconti? Reportage? Ricordi? Sfuggono a ogni classificazione, le pagine di Floramo, ed è bene così, perché l'unica cosa di cui abbiamo davvero bisogno è quello di lasciarsi andare, liberi da ogni impaccio.

Prima di tutto ci sono i Balcani, in questo libro, ma i Balcani come condizione dello spirito piuttosto che come luogo da rintracciare sulla carta. Un mondo matto fatto di disperata bellezza che non posso fare a meno di amare, dice Floramo, e non ci si può far nulla, ci sono altrove che ti catturano così e non ti mollano, nonostante tutto il veleno che quella bellezza può celare.

Ma non ci sono mica solo i Balcani. Perché i Balcani sono già l'Est.... quell'Est sterminato, che per chi appartiene alla terra di confine di Floramo - all'incirca la stessa di un Claudio Magris o di un Paolo Rumiz - non può essere che inquietudine e seduzione perenne. Confine da varcare, in ogni caso.

L'Est, che richiama e a cui è difficile sottrarsi. L'Oriente che non finisce più. Il mondo slavo, che si spinge fino al Pacifico e che prima o poi bisognerà imparare a conoscere. E le pianure battute dal vento, le frontiere che a ogni giro della storia si sono sgretolate e spostate, il crogiolo dei popoli, delle lingue, delle ambizioni e delle sconfitte. Le pianure gelate, le betulle e il volo dei corvi, le terrificanti bevute di vodka. E i brindisi, perché in queste terre che hanno bevuto troppo sangue, è in compagnia che si beve e si beve sempre per qualcosa. Fosse anche il bicchiere della staffa.

Annusa il pane, e sentirai la terra. Poi mangia veloce una fetta di grasso, per ricordarti che non passiamo invano. E butta giù tutto il bicchiere, fino in fondo. Quello che resta, saranno le lacrime.

venerdì 8 agosto 2014

Quanto costò quella guerra fatta quasi per gioco

 Figurarsi che noi ce la siamo praticamente dimenticata, ci siamo lasciati scappare anche l'occasione del centenario. Giusto qualche reminiscenza dei tempi di scuola, prima di un'alzata di spalle, prima di andare avanti: una guerricciola da niente, di quelle che non fanno troppo male.

Poi arriva un libro come La Scintilla di Franco Cardini e Sergio Valzania, pubblicato ne Le Scie di Mondadori, e la prospettiva cambia non poco. Perché, ci spiegano i due storici, la guerra di Libia non è stata solo una conquista piena di pagine ingloriose, crudeli, scellerate. Peggio, molto peggio, perché è stato con quell'impresa, chiamiamola così, voluta dall'Italia sostanzialmente per ragioni di politica interna, che il mondo intero si è messo in movimento, oltre ogni previsione e capacità di controllo, fino a precipitare nella voragine della Grande Guerra.

Certo, non "la" causa, la ragione di tutto.  Piuttosto la piuma che aggiunta al peso fa franare tutto. La scintilla, appunto, che appicca il fuoco alla polveriera. C'era già prima, la polveriera, ma chi c'è entrato dentro in quel modo?

Fino a quel momento l'Europa aveva saputo controllare le tensioni, gestire le crisi, trovare una via di uscita. Ma da quando gli italiani sbarcarono sull'altra sponda del Mediterraneo, per appropriarsi di quello "scatolone di sabbia", senza nemmeno sospettare l'esistenza del petrolio, niente fu come prima.

L'impero ottomano dimostrò una volta per tutte la sua irrimediabile debolezza. Sui relativi appetiti si scatenarono due guerre balcaniche. Soprattutto in cancellerie di Stato e quartier generali si diffuse l'idea che la guerra potesse essere un buon modo di risolvere la crisi: rapido e abbastanza indolore, una sorta di Risiko per rettificare confini ed equilibri.

Poi successe tutto quello che è successo. In Tripolitania e in Cirenaica cominciò davvero il secolo breve della lunga guerra. E tutto per un'avventura su cui, ancora oggi, rimane il giudizio senz'appello di Gaetano Salvemini, un uomo quale ce ne vorrebbero molti ancora oggi in Italia, ma che ha avuto il problema di essere compreso solo troppo tardi:

Sia il quando, sia il perché, sia il come dell'impresa libica non si spiegano, se non tenendo presenti la incultura, la leggerezza, la facile suggestionabilità, il fatuo pappagallismo delle classi dirigenti italiane.

Un libro da meditare. 

mercoledì 5 febbraio 2014

Cosa succede se si parla di Eric Ambler

Doveva essere uno scrittore di successo per chi alla lettura chiede soprattutto la possibilità di evasione. Intrigo, mistero, esotismo in buone dosi. Istanbul, per esempio. O qualche altro angolo di un Mediterraneo che allora non era solcato dalla flotta Costa. Spie e treni a vapore. Avventurieri e fumerie d'oppio. Io lo rammento soprattutto per il film tratto dal suo Topkapi, storia di un rocambolesco furto.

Per intendersi: questi gli ingredienti vincenti di Eric Ambler. Grosso modo titoli piuttosto adatti a collane quali I gialli o i Segretissimi Mondadori. Eppure l'altro giorno proprio su un libro di Eric Ambler, La maschera di Dimitrios (Adelphi), abbiamo discusso al circolo di lettura che da qualche tempo si riunisce all'Sms di Peretola. Nessuno ha ricordato il film, protagonista Peter Lorre, che anche da questo libro è stato tratto - Ambler era evidentemente un autore congeniale al cinema anglosassone. Non mi pare nemmeno che ci siano stati commenti sulla qualità della trama e sulla forza dei dialoghi.

Ma se ora provo a mettere ordine alla discussione, non ci riesco. Senz'altro abbiamo parlato della capacità di Ambler di giocare con la finzione narrativa, uscendo ed entrando dentro la storia e in qualche modo sfidando le regole del genere. Per un po' abbiamo indugiato sulla sua capacità di rendere vivi e credibili i personaggi. Poi però è come se le dighe si fossero aperte: e seguendo una traccia dietro l'altra, eccoci a riflettere su Istanbul all'inizio del Novecento, sui massacri tra greci e turchi che oggi abbiamo dimenticato e che pure ancora oggi spiegano un bel po' di cose, di genocidi dimenticati e di meccanismi della memoria, che non è ben chiaro com'è che salvino alcuni fatti per lasciarne indietro altri. E anche di persecuzioni subiti da popoli, di ferite ancora aperte, di letteratura che a volte è l'unica risorsa che abbiamo per ricordare. E di Balcani, naturalmente anche di Balcani, com'erano e come forse sono ancora.

Mica male. E tutto questo, figurarsi, proprio grazie a Eric Ambler. 

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