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domenica 6 ottobre 2013

In Grecia, ospitalità prima di chiedere il nome

Molte cose in Grecia sono rimaste immutate dai tempi dell'Odissea, e forse la più notevole è l'ospitalità verso gli stranieri; più una regione è remota e montuosa, minore è il cambiamento a questo riguardo.

L'arrivo a un villaggio o a un cascinale non è molto diverso da quello di Telemaco al palazzo di Nestore a Pilo e di Menelao a Sparta - così vicino, a volo d'uccello, a Vathia - o dello stesso Odisseo, guidato dalla figlia del re alla reggia di Alcinoo. 

Non esiste descrizione migliore del soggiorno di uno straniero presso la dimora di un pastore greco di quella di Odisseo travestito quando entra nella capanna del porcaio Eumeo a Itaca. 

C'è ancora la stessa accettazione senza domande, l'attenzione ai bisogni dello straniero prima ancora di saperne il nome: la figlia che gli versa l'acqua sulle mani e gli offre un panno pulito, la tavola prima apparecchiata e poi presentata all'ospite, la premurosa offerta di vino e cibo, lo scambio di identità e di autobiografie, il letto preparato nella parte migliore della casa - la più fresca o la più calda a seconda delle stagioni - le preghiere all'ospite perché si trattenga a suo piacimento, e infine, alla sua partenza, i doni, sia pure soltanto di una manciata di noci o di mele, di un garofano o di un mazzetto di basilico; e la cura con cui gli si indica la via, accompagnandolo per un tratto e augurandogli buona fortuna. 

(Patrick Leigh Fermor, Mani. Viaggi nel Peleponneso, Adelphi)

martedì 24 settembre 2013

Mani, libro perfetto per chi sogna la Grecia

Sono le cose strane dell'editoria: nel giro di un niente Bruce Chatwin viene tradotto in Italia e diventa un autore di culto (oggi un po' meno), oggetto della venerazione di tutti gli appassionati di letteratura di viaggio; lo stesso non succede con Patrick Leigh Fermor, altro scrittore viaggiatore inglese, a mio parere ancora più grande e autentico di Chatwin, in ogni caso maestro e amico di quest'ultimo. Poco importa che Chatwin debba molto a Fermor: siamo ancora alle prese con il  Che ci faccio qui? del primo e trascuriamo il secondo.

C'è modo di rimediare. Cominciando magari con Mani, forse il libro più bello di questo singolare inglese che percorse interi continenti a piedi. Mani, cioé uno dei più aspri e inaccessibili lembi di Grecia, penisola del Peloponneso che penetra nell'Egeo. Roccia e mare e popoli antichi che non hanno mai ceduto di un palmo dinanzi a qualsiasi esercito che ha provato ad assoggettarli. Un mondo a parte.

Perfetto da leggere in un viaggio in Grecia - io l'ho divorato a Creta. Perfetto per chi comunque sogna questa terra che, volenti o nolenti, fa parte della nostra storia e prima ancora del mito che ci ha reso ciò che siamo. Perfetto per abbandonarsi alla luce e alle ombre del Mediterraneo, per cullarsi ai venti che rendono meno torride le estati, per respirare gli odori della macchia mediterranea e della salsedine. Perfetto per abbracciare le storie che arrivano da lontano e ancora ci appartengono - ereditate con le parole di Omero e di tutti gli altri.

E poco importa se anche la Grecia di Fermor non è più la nostra Grecia... o forse sì, se anche a noi, come a Fermor, capiterà in dono di incantarsi, ascoltando due pastori parlare come saggi di Bisanzio o guardando un cameriere indicare l'isola di cui raccontò Omero. 

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