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lunedì 22 ottobre 2018

Pane, miele e un abbraccio prima dell'alba

Ci sono notti che non dovrebbero trascorrere mai, perché solo nel buio c'è salvezza. Notti che consentono una possibilità di tregua, benché fragile e destinata a interrompersi con la prima luce. Sono segnate dall'attesa di quello che accadrà eppure, per qualche ora almeno, immobilizzano il destino in un limbo dove tutto sembra più vero.

E' una notte così, vigilia di due diverse condanne, che ci racconta Albrecht Goes in un libro che ho scoperto solo ora,  grazie al consiglio di un amico.Viva il catalogo delle buone case editrici, insomma, viva il passaparola che ci fa  resistere ai venti incostanti della novità.

Notte inquieta (Marcos y Marcos)  ci riporta all'ottobre 1942, dopo l'invasione tedesca dell'Unione Sovietica. Il contesto è questo, ma la guerra è sullo sfondo. Il nemico è solo un pensiero, gli eventi si consumano lontano dal fronte. 

C'è un giovane soldato, reo di diserzione, che all'alba sarà giustiziato. C'è un ufficiale che dovrà pagare la sua colpa con una missione suicidia a Stalingrado: questa notte abbraccerà per l'ultima volta la sua amata. E c'è un cappellano militare, cui i regolamenti consentono di portare conforto in questa notte. 

Il libro è tutto qui, in questi personaggi e in queste ore, quasi un'opera teatrale. Con una forza che sta nei fatti, forse nella stessa esperienza dell'autore, che davvero è stato pastore protestante e cappellano militare in guerra. Con una lingua che non ha bisogno di artitici ed effetti speciali, con la stessa densa semplicità delle pagine di un Heinrich Böll. 

Tempesta, immensa tempesta della notte, col tuo fragore furioso, scuoti pure le persiane, infuria contro di me, ma lascia che dormano ora coloro che vanno a morire!

Fuori infuria la bufera, fuori c'è la criminale follia degli uomini. Ma c'è ancora tempo per essere umani. Sia pure per concedersi a un abbraccio nel sonno, per spartire pane e miele, parole vere, addirittura un sorso di caffé vero.

giovedì 1 agosto 2013

Viaggiando con i treni di Ettore Mo

E' uno dei più grandi giornalisti viaggiatori, forse uno degli ultimi autentici, da quanti molti se ne sono andati una volta per tutte. E anche lui sembra ormai appartenere a un'altra epoca, la stessa dei Terzani e dei Kapuscinski, quando le guerre si raccontavano standoci in mezzo, quando non c'erano ancora cellulari e tablet e Gps.

Ettore Mo è tra coloro che sono riusciti a rimanere fedeli a se stessi, sarà che in definitiva non contano i sommovimenti della geografia politica e i tornado della tecnologia, ma la capacità di vivere con empatia il mondo che attraversi.

Mi mancava ancora di leggere il suo Treni. Nove viaggi ai confini del mondo e della storia, e finalmente ho potuto metterci le mani sopra. Scoprendo che il libro è qualcosa di meno e qualcosa di più di quanto promette il titolo. Di meno, perché i treni in effetti costituiscono solo un pretesto per una raccolta di reportage quanto mai eterogenei. Di più, per la stessa ragione: e forse i capitoli più belli sono proprio quelli in cui dei treni non c'è proprio traccia.

Libro diseguale, libro che varrebbe anche solo per alcune pagine: su tutte quelle dedicata ai Vecchi Credenti della Siberia e al vecchio reduce del mattatoio di Stalingrado.

giovedì 4 marzo 2010

L'ufficiale delle SS che "fece il suo lavoro"


Mamma mia, che dire di un libro come questo? Tutto e il contrario di tutto, come è necessario per un libro insieme disturbante e ipnotizzante, spaventosamente crudele eppure poetico, vero nella sua follia e nello stesso tempo tradito dalla sua stessa letterarietà. Perché tutto questo è Le benevole di Jonathan Littel.

Mi ha fatto paura fin dalle prime righe, questo romanzo fluviale di quasi mille pagine fitte fitte. Ho fatto mie tutte le critiche che a esso sono state rivolte, a più riprese ho provato risentimento e irritazione. Quasi tutte le sere ho avuto la tentazione di abbandonarlo, per poi riprenderlo sempre. Magari centellinandolo, assumendolo a dosi controllate, unico modo per non esserne travolto. Poi ieri sera l'ho terminato, dopo quasi due mesi che incombeva dal mio comodino. E oggi già mi manca.

Mi resterà a lungo dentro, Maximilian Aue, l'ufficiale delle SS che racconta in prima persona la follia criminale dello sterminio degli ebrei e della guerra nazista. Dentro, con la sua efferatezza, la sua spiazzante lucidità, il suo granitico rifiuto di ogni interrogativo morale, la sua incapacità di chiedersi semplicemente perché, il ribollire di pulsioni e istinti che accompagnano l'orrore.

"Non ho alcun rimpianto: ho fatto il mio lavoro, tutto qui". E quel lavoro Littel lo ricostruisce con un'attenzione a ogni particolare che toglie il respiro, proprio perché la sua parola non si limita a raccontare, e nemmeno a mostrare, fa di più, scaraventa dentro l'orrore. E' facile indovinare dietro tutto questo un pazzesco lavoro di documentazione, spinto fino allo studio del più piccolo tassello della macchina della morte.

Ma poi, detto questo, il fascino di questo libro è esattamente agli antipodi. Littel ci porta oltre la storia, arriva dalle parti del mito, il più orrendo e devastante dei miti. Il suo romanzo diventa tragedia a tutti gli effetti, tragedia della discesa all'inferno, tragedia che non si nega niente, nemmeno l'incesto, il massacro dei genitori, l'attrazione sessuale per il corpo di una impiccata.

E si possono perdonare gli eccessi verbali e qualche effetto speciale che fa un po' scuola di scrittura. Sono abbondantemente ripagati dall'incubo dei capitoli che descrivono le esecuzioni di massa degli ebrei nell'Europa orientale oppure l'assedio di Stalingrado. Che voglia di dimenticarmene, che voglia di rileggerlo.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...