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giovedì 18 aprile 2019

Le parole di Valerio, luce sull'Italia più buia

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Bomba ananas.
Ti piace l'unione di questi due termini. Ti dà la sensazione di tenere in mano qualcosa di vivo. O qualcosa che è stato vivo. Un ponte tra la vita e la morte. 

Persino una bomba può essere un ponte, ma quanti altri ponti ci sono in questo libro. 

Valerio Aiolli, per quanto mi riguarda, è una persona amica, che spesso incrocio nelle varie librerie, ma soprattutto è uno scrittore che seguo da molti anni. Riesce a farmi abitare i suoi libri fin dalle prime pagine: c'entro con naturalezza, prendo subito confidenza, avverto che in qualche modo la sua storia parla anche a me e di me.

E sì, è un libro di ponti Nero Ananas, uscito per Voland e autorevole candidatura allo Strega 2019. Per esempio tra la Storia che si compiace della esse maiuscola e le storie di chi la Storia la attraversa o ne è attraversato,  di volta in volta osservatore, comprimario, vittima; tra i grandi eventi - e i crimini - che hanno cambiato il nostro paese nella seconda metà del Novecento e ciò che è potuto succedere tra le mura di casa; tra il passato che ci ha segnato sottraendoci l'innocenza, se c'è mai stata, e un presente dove troppe domande senza risposta ancora ristagnano; tra i sogni di un adolescente e le dure lezioni di una realtà che non si piega ai desideri. 

Dentro ci sono quattro anni nella nostra storia, dal 1969 al 1973: una narrazione che prende le mosse dall'attimo dopo la strage che ci ha cambiato, Piazza Fontana, e che si conclude con un'altra bomba a seminare morte, alla questura di Milano. 

Pochi scrittori hanno saputo dominare questa storia, senza ridursi a scrivere romanzi-saggio o romanzi a tesi. Valerio ce l'ha fatta restituendoci qualcosa di vivo, che palpita capitolo dopo capitolo. Oltre gli intrecci tra pezzi dello Stato e trame nere, oltre i morti per strada e la strategia della tensione: perché qui dentro ci sono destini intrecciati, scelte e traiettorie individuali, valanghe di emozioni.

Perfino nello stragista la cui mano qualcuno ha armato c'è una profondità da scandagliare, un retrobottega su cui fare luce. Figurarsi se poi si tratta di raccontare una famiglia come tante. Magari con gli occhi di un ragazzino - pochi sono bravi come Valerio quando fa suo lo sguardo dell'adolescenza - che cresce in quegli anni. 

Come il sottoscritto. Anch'io, credo come Valerio, ero poco più di un bambino nell'estate delle Olimpiadi di Monaco. Trascorrevo le mattine studiando piazzamenti e classifiche sulla Gazzetta dello sport, per prepararmi all'indigestione di gare delle ore successive - persino l'hockey su prato, persino il tiro a segno - su una tv per la prima volta a colori. Le Olimpiadi mi evocavano il più bello dei mondi possibili. Poi arrivò il giorno del massacro e niente fu come prima per il mondo, così come era successo per l'Italia tre anni prima, a piazza Fontana.

Il bambino di Valerio, il bambino che ero io. A proposito di libri che parlano anche a me e di me.





giovedì 27 dicembre 2018

La stazione di montagna che la Storia non dimentica

"E non succederà nulla, signor capostazione. Noi qui siamo dimenticati".

Ci sono posti così, che sembrano dimenticati: quasi sempre per trovarli bisogna inoltrarsi in una valle appartata, inerpicarsi per un monte dove gli uomini sono pochi e sembrano appartenere a un altro tempo. Ma che siano davvero dimenticati quasi sempre è un'illusione, soprattutto se da quelle parti passa di tanto in tanto un treno.

Di un luogo così, che in realtà si troverà a fare i conti con la Storia più tremenda del Novecento, racconta Paolo Casadio ne Il bambino del treno (Piemme), gran bel romanzo dove l'invenzione si mescola sapientemente con la verità dei fatti. E con un luogo vero, Fornello, stazioncina della Faentina senza centro abitato intorno, prima del crinale che separa la Toscana dalla Romagna.

E' qui che un giorno del 1935 arriva Giovanni Timi, vincitore del concorso per capostazione, insieme alla moglie incinta e a un cane. Un avanzamento di carriera che sa di confino, per un uomo che al partito fascista si è iscritto tardivamente e di mala voglia. 

Per la vita che è chiamato a fare sembra più un guardiano del faro che un capostazione, con la montagna al posto del mare. Le città sono lontane, qui ci sono solo mulattiere, torrenti, castagneti. Le notizie rimbalzano di lontano, trasportate sui pochi treni che transitano per la linea.

Eppure anche da qui, dalla sperduta Fornello, sarà possibile raccontare il decennio più terribile della storia italiana, tra la proclamazione dell'Impero e la catastrofe della guerra. Quante cose, che riguardano la stessa vita quotidiana: i maestri di montagna e le radio rurali, le celebrazioni di regime e il cinema ambulante, l'oscuramento antiaereo e le carte annonarie. E dentro tutto questo la storia di una famiglia. Giovanni, ma anche la moglie Lucia. Romeo, l'unico figlio, così chiamato in onore della strada dei Romei, ovvero dei pellegrini per Roma. E certo anche Pipito, cane con la predilezione per i perdenti. 

Figure che non si lasceranno dimenticare tanto facilmente. Almeno non tanto quanto è stato dimenticata la stazione di Fornello, bellissima. Oggi il tempo dell'incuria pare condannare un luogo che racconta un tempo che non c'è più. Meno male che un bel romanzo può fare persino questo, restituire speranza di vita a luoghi che la Storia non ha dimenticato, ma noi sì.   

giovedì 8 marzo 2018

Parole per i momenti che decidono la storia

C'è la lucida follia di Balboa, avventuriero di pochi scrupoli ed enormi ambizioni, che dopo  essersi fatto largo nella giungla a colpi di machete arriva a contemplare il Pacifico - primo europeo in un mondo che d'ora avanti non sarà più lo stesso. C'è l'incrollabile determinazione di Maometto, il sultano non il profeta, che non arretrerà di fronte a niente per conquistare Costantinopoli, genio e crudeltà per abbattere quelle mura e cambiare una storia millenaria. E c'è la musica che prima ancora che in uno spartito è dentro il cuore di un uomo morto e rinato, perché un giorno, dopo tanta pena, si componga un capolavoro che sarà riscatto e ringraziamento, quel capolavoro che è il Messiah di Händel.

Momenti fatali di Stefan Zweig (Adelphi) - non sono sicuro che questo titolo mi piaccia -  più che un libro sui grandi della storia è un libro sui grandi momenti che hanno segnato la storia. Momenti segnati da una scoperta, una rivelazione, un'impresa - e che come tali si staccano da tutti gli altri. Momenti che hanno rotto un equilibrio, cambiato un destino, chiamato a un bivio decisivo.

Gli uomini no, non è detto che siano stati altrettanto grandi. Come quel momento fatale che ha deciso Waterloo, senza avere come protagonista né Napoleone nè Wellington, ma un mediocre generale che decidendo di non decidere decise le sorti del conflitto.

Bello questo libro, che squaderna la storia per fissarne gli attimi di svolta. Bello perché ci sono gli uomini, protagonisti e allo stesso tempo vittime degli eventi. Bello perchè mescola volontà e destino e all'una e all'altro presta la forza della parola.

La parola quale quella di un grande scrittore come Zweig: di cui è facile raccomandare tutto.

giovedì 21 luglio 2016

Tucidide, il mestiere dello storico malgrado l'uomo

Tucidide, per diversi e anche per il sottoscritto un nome piuttosto ispido e parecchie imprecazioni nei lontani tempi del liceo, per quelle versioni dal greco tutte in salita.

Così è, ma se qualcuno volesse saperne di più ecco un libro di Luciano Canfora, edito da Laterza, che ci dice molto, perfino troppo. E che, nella giungla delle fonti e delle molte interpretazioni che dell'uomo ci sono state date, ci restituisce anche il fascino e l'importanza dello storico.

Uomo di parte, Tucidide, discendente di famiglia importante nell'Atene del quinto secolo, personaggio di primo piano della politica, uomo con le mani in appalti e altri affari non del tutto trasparenti. Eppure in primo luogo storico. E storico di un genere particolare: non si tuffa in un passato lontano e ormai anestetizzato dal tempo trascorso, ma racconta esclusivamente ciò che avvenne ai suoi tempi.

E' lui che ci descrive con minuzia gli anni della guerra tra Atene e Sparta. Lui che mette al servizio della storiografia con un lavoro senza precedenti la geografia, l'economia, la scienza militare. Lui che  prova a individuare torti e ragioni, a volta costringendosi a risalire le correnti avverse delle appartenenze. Lui che prova a ricostruire i fatti senza le lenti distorte delle passioni.

Vai a sapere che uomo era davvero, Tucidide, come si comportò nella Grecia dei colpi di mano, delle disfatte in battaglia, dei tradimenti. Il sottotitolo del libro di Canfora - la menzogna, la colpa, l'esilio - qualcosa ci dice.

Eppure, pensate, fu questo ricco signore ostile alla democrazia a raccontarci per filo e per segno la
democrazia ateniese. Le cose, in fondo, non erano andate male sotto Pericle. Anche se forse più che la sostanza della democrazia erano state salvaguardate le forme.

Allo stesso modo fu lui, Tucidide, a indicarci i pericoli di una democrazia affidata solo alle maggioranze assembleari, dove chi ha ragione è spesso perdente. E raccontarlo non fu facile. Forse accompagnò le sue parole con un sorriso amaro o forse no.

Non so che uomo sia stato davvero, Tucidide, al di là di tutte le illazioni che non poteva non alimentare. Ma mi piace pensare che in lui si incarni lo storico quale essere: fedele a un lavoro di verità, malgrado tutto, malgrado anche se stesso.


lunedì 30 marzo 2015

Tra maori e polacchi, il mondo dimenticato a Montecassino


La Storia quasi sempre è storia dei grandi, non di coloro che la fanno e la subiscono davvero: dei generali e non delle truppe. Ma se la Storia, in questo senso, quasi sempre è amnesia e silenzio, la forza della scrittura sa restituire voce a chi non l'ha mai avuta, sa raccontare le storie nella Storia, forse perfino conservare brandelli di vita.

A tutto questo - mica poco - ho pensato immergendomi de Le rondini di Montecassino di Helena Janeczeck (Guanda), romanzo corale che raccoglie e racconta parabole di vita e di morte intorno alla terribile battaglia con cui, per quattro mesi nel 1944, gli Alleati tentarono di sfondare le linee tedesche in Italia. Ma chi erano gli Alleati? Americani chewing gum in bocca e cioccolata da distribuire? Inglesi capaci di andare all'assalto con il gusto di un'ultima battuta?

E no, c'era un mondo, in quella battaglia. Indiani, nepalesi, maghrebini. Un migliaio di ebrei che imbracciarono le armi per rivendicare il diritto a esistere, mentre il loro popolo veniva spinto verso le camere a gas. Un battaglione di maori che mai si sarebbe immaginato di combattere in Europa. Persino un esercito, quello polacco, resuscitato dai suoi stessi carnefici sovietici, quanto ne rimaneva, almeno, dopo le stragi di massa e l'invio nei gulag siberiani.

Non c'è la penna dello storico, in queste pagine, ma la penna della grande narratrice, che annoda e srotola storie, cambiando punti di vista, spostandosi da un tempo all'altro per raccontare le vicende di chi, pur combattendo con i vincitori, non è sfuggito al destino dei vinti. 

E per raccontarli può servire anche l'incontro in un taxi di Milano, o un viaggio in Italia del nipote di un veterano maori, oppure le esperienze di due ragazzi cresciuti a Roma nei nostri anni.... perché è anche così che si fa storia.

venerdì 19 dicembre 2014

Il povero e prezioso segreto di Dora


Da quel giorno la Parigi in cui ho tentato di ritrovare le sue tracce è rimasta deserta e silenziosa come allora.

Cammino per strade vuote. Per me restano tali anche la sera, nell'ora di punta, quando la gente si accalca agli ingressi del metro. 

Non posso fare a meno di pensare a lei e di sentire un'eco della sua presenza in certi quartieri. L'altra sera, mi è successo vicino alla gare du Nord.

Ignorerò per sempre come passava le giornate, dove si nascondeva, in compagnia di chi si trovava durante l'inverno della sua prima fuga e nelle poche settimane di quella primavera in cui scappò di nuovo. E' il suo segreto.

Povero e prezioso segreto che i carnefici, le ordinanze, le autorità cosiddette d'occupazione, il Deposito, le caserme, i campi, la Storia, il tempo - tutto ciò che insozza e distrugge - non sono riuscite a rubarle.

(Patrick Modiano, Dora Bruder, Guanda)

giovedì 14 agosto 2014

Dorme più profondamente chi è stato inondato dalla Storia


Ogni nave piena di pensiero e conoscenza segua la sua rotta
Gli avvenimenti oscillano e infine cadono prima degli uomini
Ma l'oscurità non ha lanterna antivento
Dov'é Mileto dov'è Pergamo dove Attalia e dove
Costan Costantino tinopoli?
Tra i mille sonni uno è quello del risveglio ma per sempre.

Artemide Artemide tienimi il cane della luna
Morde i cipressi e s'inquietano gli Eterni
Dorme più profondamente chi è stato inondato dalla Storia
Su, incendiala con un fiammifero come fosse alcol

E' solo Poesia
Quello che rimane. Poesia. Giusta sostanziale e retta
Come forse la immaginarono le prime creature
Giusta nell'acerbo del giardino e infallibile nel tempo

(Odisseas Elitis, da Come Endimione, in Elegie, Crocetti editore)

giovedì 28 novembre 2013

Quando il giovane inglese investì Hitler

Giuro, poi non ne parlo più, ma il primo dei 101 incontri di One on One di Craig Brown (edizioni Clichy) è troppo bello perché non ne parli.

Monaco, Germania 1931. John Scott-Ellis è un gentiluomo inglese di nemmeno 20 anni che ha frequentato Eton con scarso rendimento e che in seguito si farà conoscere soprattutto nel mondo delle corse dei cavalli. Ignoro perché ora stia girando per Monaco alla guida di una Fiat.

Hitler non è ancora arrivato al potere, però bisogna essere ciechi per capire cosa potrà fare, se gli sarà permesso. Intanto la marea del consenso cresce a vista d'occhio. Il  Mein Kampf  ha già venduto oltre 50 mila copie. Quel giorno è appena uscito dalla sede del partito di cui è il leader indiscusso. Attraversa la strada dimenticandosi di guardare a sinistra.

Sebbene stessi andando pianissimo, un uomo è sceso dal marciapiede e mi si è praticamente buttato sotto la macchina, ricorderà più tardi John, con parole che più o meno devono essere di molti investitori.

L'uomo con i baffetti ne esce bene. Si rialza, saluta, se ne va. Suppongo che tu non sappia chi era quell'uomo. Le parole del suo compagno di viaggio frulleranno per molto tempo nella testa del giovane. Anche tanti anni più tardi, quando avrà modo di dire:

Per qualche secondo, ho stretto il destino dell'Europa in queste mie maldestre mani. Era solo un po' scosso, ma se in quell'incidente l'avessi ucciso, avrei cambiato la storia del mondo.

Chissà, se con la macchina non fosse andato tanto piano....

venerdì 25 ottobre 2013

La storia raccontata, che è come una preghiera

Quell'improvviso armistizio dopo il frastuono della giornata, quell'incontro al di là di ogni contingenza, quel momento di silenzio raccolto che precede le prime parole del racconto, la nostra voce finalmente identica a se stessa, la liturgia degli episodi... 

Sì, la storia letta ogni sera assolveva la più bella funzione della preghiera, la più disinteressata, la meno speculativa, e che concerne solamente gli uomini: il perdono delle offese.

Non confessavamo nessun peccato, non cercavamo di conquistarci nessuna fetta di eternità, era un momento di comunione, tra di noi, l'assoluzione del testo, un ritorno all'unico paradiso che valga: l'intimità.

Senza saperlo, scoprivamo una delle funzioni essenziali del racconto e più in generale dell'arte, che è quella di imporre una tregua alla lotta degli uomini.

(Daniel Pennac, Come un romanzo, Feltrinelli)

venerdì 4 ottobre 2013

Rileggendo l'avventura del "pane nostro"

E' nato nella cenere, sulla pietra. Il pane è più antico della scrittura e del libro. I suoi primi nomi sono stati incisi su tavolette d'argilla in lingue ormai estinte. Parte del suo passato è rimasta fra le rovine. La sua storia è divisa fra terre e popoli.

Eccole, le prime righe di Pane nostro di Predrag Matvejevic, viaggio appassionante nella storia del pane, che poi nient'altro è che la storia dell'umanità. Fin dall'antico Egitto o dalle fertili pianure della Mesopotamia,

Storia di viaggiatori, pellegrini, marinai. Storia di traffici, di scambi, di guerre. La nostra storia.

La storia del pane conservato nelle madie e diviso tra i commensali, ma anche del pane che diventa leggenda, rito, poesia. Alimento del corpo e dello spirito. Sudore e ricompensa del lavoro. Pane guadagnato, elemosinato, rubato, sottratto a chi spetta, condiviso con chi non ne ha.

Per 20 anni Predrag Matvejevic ha lavorato su questo libro, ovvero ha lavorato sul pane per darci un altro pane - fatto di parole e lievitato con la passione.

Pagine, non meno affascinanti di quelle che diversi anni fa ci offrì con Breviario mediterraneo. Pagine per ricordarci ciò che troppo spesso ci dimentichiamo: che il pane è la vita, il pane siamo noi.

giovedì 3 ottobre 2013

Credevo di essermi liberato delle storie di follia...

Credevo di essermi liberato delle storie di follia, reclusione e gelo.

Non che mi aspettassi di mettermi a comporre lodi alla bellezza del mondo e al canto dell'usignolo, con francescana meraviglia, ma almeno pensavo di essermi lasciato alle spalle quelle ossessioni.

E invece ero stato scelto (è enfatico, lo so, però non saprei dirlo in altro modo) da quella storia atroce, senza volerlo mi ero messo sulla stessa lunghezza d'onda dell'uomo che ne era responsabile.

Avevo paura. Paura e vergogna. Mi vergognavo davanti ai miei figli di occuparmi di questa storia.

Ero ancora in tempo per fuggire? O la mia peculiare vocazione era proprio cercare di capirla, di guardarla in faccia?

                                             (Emmanuel Carrère, L'Avversario, Adelphi)

venerdì 19 luglio 2013

Dal cranio di Cartesio all'avventura delle idee

Un giorno chiuse i libri e partì, perché aveva deciso di non andar cercando altra scienza se non quella che avrei potuto trovare in me stesso, o nel gran libro del mondo.

Nemmeno lui, che certo non mancava di presunzione, avrebbe scommesso su ciò che l'attendeva: quella vertigine di scoperta, quel fiume straripante di novità forgiate dall'intelletto, quella sensazione di aver dato la spinta definitiva a un mondo vecchio di secoli, se non di millenni. Si chiamava Cartesio, e con il suo Discorso sul Metodo, fondò una nuova visione del mondo, il battesimo della modernità.

Anni dopo, nel 1650, il più gelido inverno che la Svezia ricordi, lo troviamo morente, forse per una polmonite. Un uomo ancora aggrappato alla vita, furioso con la malattia che gli sta sottraendo le carte che ancora vorrebbe giocare, indispettito con la regina Cristina, che lo ha invitato a Stoccolma, segnando la sua sorte. Tutta la sua scienza non gli servirà a vincere la partita a scacchi con il destino.

Le ossa di Cartesio di Russel Shorto (edizioni Longanesi) incomincia da qui, da quella notte in cui il grand'uomo che ha rivoluzionato il nostro modo di pensare, così come fece Aristotele per gli antichi, si congeda dal mondo.

Non è una biografia di Cartesio, è una storia di ciò che rimane di lui dopo la morte: e nemmeno un ragionamento sulla filosofia. Questa è la storia dei suoi resti mortali, tra riesumazioni e successive tumulazioni, e soprattutto la storia di una scomparsa inspiegabile, quella del suo cranio.

Roba da specialisti che hanno tempo da perdere? Da eruditi che collezionano particolari più o meno inutili? No, assolutamente, perché da questa storia, apparentemente marginale, si squaderna la più grande avventura, quella appunto delle idee che sgomitano per imporsi al mondo.

Dice Russel Shorto nella prefazione di aver cominciato per caso, la volta che si imbattè in una curiosa figura di antropologo, quel tipo di persone che ti possono far venire il mal di testa, ma che poi, all'improvviso, ti tolgono senza preavviso la comoda poltrona del tuo punto di vista abituale.

Che bel libro, questo. Un libro che mi entusiasma ancora di più per ciò che c'è dietro. Il dettaglio che si insinua per caso nella vita, che diventa passione o forse ossessione, montagna di dubbi, di domande sul tempo perso, sulle energie prosciugate, tranne poi spalancare un orizzonte.

lunedì 18 marzo 2013

Diciannove vite nella pioggia della Grande Guerra

Nonostante la varietà di destini, ruoli, sesso e nazionalità sono tutti uniti dal fatto che la guerra li priva di qualcosa: della giovinezza, delle illusioni, della speranza, dell'umanità. Della vita.

Diciannove destini riuniti in un libro: la Grande Guerra come non avevo mai letto. E' un libro forte, commovente, autentico, La bellezza e l'orrore di Peter Englund (Einaudi), un libro da leggere, anche se non siete affamati di storia, anche se di libri sulla guerra ne avete già letti tanti, oppure non ne avete mai avuto voglia. Un libro da leggere, nonostante la mole, nonostante il titolo che decisamente non cattura.

Peter Englund, scrittore e giornalista svedese, ha raccoltoquesti  diciannove destini. Li ha seguiti passo passo, giorno dopo giorno, tracciando la parabola che ha portato ognuno di essi verso un epilogo, più o meno tragico. Ha divorato diari, testimonianze, lettere. Non ha inventato nulla.

E quello che è venuto fuori non è un libro sulla guerra. Ma piuttosto un libro sulla quotidianità della guerra. E sugli uomini e le donne investiti dalla forza della Storia, inghiottiti in eventi e in contesti in cui sono poco più di un numero o di un nome. Ognuno di noi avrebbe potuto essere una di queste diciannove vite.

Spiega Englund:

Ho cercato di ricondurre un evento epocale alle sue componenti minime, atomiche: il singolo essere umano e il suo vissuto.

C'è una poesia dolente e definitiva che vibra in queste pagine. Fin dalla dedica - a un Carl Englund ucciso alle porte di Amiens verso la fine della guerra e che non si sa nemmeno dove sia sepolto. E da quella pioggia contro la finestra con cui l'autore saluta il lettore. Pioggia, come le gocce degli uomini caduti in guerra.

domenica 3 febbraio 2013

La storia di Montale, che detesta il poco a poco

La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In ogni caso
molti anelli non tengono.
La storia non contiene
il prima e il dopo,
nulla che in lei borbotti
a lento fuoco.
La storia non è prodotta
da chi la pensa e neppure
di chi l'ignora. La storia
non si fa strada, si ostina,
detesta il poco a poco, non procede
né recede, si sposta di binario
e la sua direzione
non è nell'orario.
La storia non giustifica
e non deplora,
la storia non è intrinseca
perché è fuori.
La storia non somministra
carezze o colpi di frusta.
La storia non è magistra
di niente che ci riguardi.
Accorgersene non serve
a farla più vera e più giusta.

(Eugenio Montale, Satura I)

lunedì 14 gennaio 2013

Storia e fantasia dal Casentino a Gerusalemme

Che questo sia un romanzo storico o una storia della prima crociata 'attraversata' da un racconto più o meno immaginario, o qualunque altra cosa, non sono io a doverlo decidere: perché rispetto i generi letterari ma, grazie a Dio, non me ne occupo.

E allora, potrei provare io a rispondere a proposito di L'avventura di un povero crociato di Franco Cardini. Questo è di gran lunga più il libro di uno storico che di un romanziere. Di uno storico che per una volta ha usato un espediente narrativo e da esso si è fatto portare lontano.

Un documento, da questo è partito Franco Cardini: una donazione a un tale Rimondino di Donnuccio - magnifico nome medievale o forse da Armata Brancaleone - per il servizio reso al suo signore a Gerusalemme. Di Rimondino non si sa nient'altro, esiste solo questo documento, che quindi è assai meno espediente dei documenti inventati per le loro narrazioni da Alessandro Manzoni o da Umberto Eco. Però è sufficiente per accendere il riflettore della curiosità e della fantasia e per accompagnare Rimondino dalle terre del Casentino, montagna toscana, fino alla piana riarsa di fronte alla Città Santa, per l'assedio e poi il terrificante massacro che per la storia è la Prima Crociata: quella della Gerusalemme Liberata.

Forse la narrazione funziona così e così, perché il narratore poi si lascia prendere dallo storico, il grandissimo storico che ha voglia di descrivere, spiegare, illuminare tutto. E di Rimondino si perdono più volte le tracce. Ma che bellezza, il viaggio raccontato in queste pagine (a partire dall'Arno disceso con le zattere, tra molteplici rischi). E quanto ci sarebbe da ragionare sul sottile gioco di rimandi e corrispondenze tra la fantasia e la verità storica.

Per questo, forse, qua e là mi è capitato di avere la sensazione di 'toccare' la verità della prima crociata - e , diciamo così, il suo odore - più da vicino di quanto non mi sia accaduto quando l'ho avvicinata con i soli strumenti della ricerca storica.

Dichiarazione, poi, che va a riconoscimento della sincerità e dell'umiltà dello storico.

domenica 13 gennaio 2013

Lo straordinario romanzo della presa di Otranto

Com'è breve quello che si fa, quando si è vivi; che tremende speranze ogni tanto.

Che libro potente ed evocativo che è L'ora di tutti di Maria Corti (Bompiani), un libro che aveva acquistato alcuni anni fa, nel corso di una mia vacanza nel Salento - perché si sa, è bello sintonizzare un viaggio con le giuste letture - ma che poi mi era rimasto nella solita pila dei libri che forse un giorno o l'altro... fino a che mi sono deciso.

Temevo il romanzo storico trito e ritrito, galeoni e scimitarre a profusione, con l'infedele che viene dal mare a portare sventura, ennesima versione del Mamma li turchi. Temevo i toni da crociata, il grido di dolore ed esecrazione, l'alibi scovato nella storia, per alimentare ancora la fiamma dell'odio e dello scontro. E temevo, è vero, anche uno stile di altri tempi, perché questo non è un libro di oggi, è un libro di cui già nel 1963 uno come Giorgio Caproni scriveva cose così:

Una storia, la quale non tocca tanto l'epica esteriore dell'avvenimento, bensì, l'altra, quella molto più nascosta ed intima di coloro, uomini e donne, che ne furono i concreti protagonisti.

E la storia, va bene, è quella dell'assalto dei turchi alla città di Otranto, nel tardo Quattrocento, la conquista e il successivo spaventoso massacro. Ma poi tutto questo fa quasi da sfondo alle storie, alle persone, agli umili catapultati in tutto questo. E Otranto diventa terra di passioni, terra di umanità, terra di poesia.

venerdì 23 novembre 2012

Il pane siamo noi, la nostra vita

E' nato nella cenere, sulla pietra. Il pane è più antico della scrittura e del libro. I suoi primi nomi sono stati incisi su tavolette d'argilla in lingue ormai estinte. Parte del suo passato è rimasta fra le rovine. La sua storia è divisa fra terre e popoli.

Eccole, le prime righe di Pane nostro di Predrag Matvejevic, viaggio appassionante nella storia del pane, che poi nient'altro è che la storia dell'umanità. Fin dall'antico Egitto o dalle fertili pianure della Mesopotamia,

Storia di viaggiatori, pellegrini, marinai. Storia di traffici, di scambi, di guerre. La nostra storia.

La storia del pane conservato nelle madie e diviso tra i commensali, ma anche del pane che diventa leggenda, rito, poesia. Alimento del corpo e dello spirito. Sudore e ricompensa del lavoro. Pane guadagnato, elemosinato, rubato, sottratto a chi spetta, condiviso con chi non ne ha.

Per 20 anni Predrag Matvejevic ha lavorato su questo libro, ovvero ha lavorato sul pane per darci un altro pane - fatto di parole e lievitato con la passione.

Pagine, non meno affascinanti di quelle che diversi anni fa ci offrì con Breviario mediterraneo. Pagine per ricordarci ciò che troppo spesso ci dimentichiamo: che il pane è la vita, il pane siamo noi.

martedì 23 ottobre 2012

La bambina che si inventò Pippi Calzelunghe

"Mamma, raccontami una storia".

Era il 1943 e a chiederlo era una bambina di sette anni, inchiodata a letto dalla febbre. Bambina fortunata, Karin. Sua madre era una persona dotata di ottima immaginazione. Immagino che abbia indugiato solo per un attimo, giusto il tempo di allungare lo sguardo sul viale fuori della finestra e gli alberi di Stoccolma.

Quindi cominciò a parlare. E dalle sue parole emerse la storia di un'altra bambina, che aveva i capelli rossi ed era tanto forte da sollevare un cavallo. Viveva da sola in una casa di legno affacciata sul mare, era amica di una scimmia e sognava le scorribande dei pirati.

Alla mamma le era venuto anche un nome: si chiamava Pippi Langstrump. Karin la corresse: "Mamma raccontami di Pippi Calzelunghe".

Forse tutto cominciò proprio con queste parole. Seguirono 145 milioni di libri venduti in tutto il mondo e traduzioni in 60 lingue: uno dei più grandi exploit editoriali.

Astid Lindgren, madre di Karin, ha avuto una vita lunga e fortunata. Però niente dev'essere stato così bello, così importante, così impagabile, come quel momento in cui iniziò a prendere vita, con la forza della fantasia, quella bambina dai capelli rossi. Con quell'altra bambina ammalata che poi azzeccò il nome giusto.

sabato 6 ottobre 2012

Erodoto, il curioso che non esitava a domandare

Intanto il termine storie nasce lì. Non risulta che qualcuno l'avesse usato prima di Erodoto. Il quale, va detto, lo usava con un significato leggemrente diverso da quello che usiamo noi: il termine greco che lui utilizzò (e da cui nacque il nostro storia), significava per lui inchiesta, ricerca: quello che lui amava fare, indagare.

Aveva delle curiosità (ne aveva a palate) e indagava per cercare delle risposte. Era il prototipo del pignolo che non si accontenta delle spiegazioni del depliant e alza la mano in continuazione chiedendo chiarimenti: che si trattasse delle maree del Nilo, delle guerre di conquista dei persiani o dei bizzarri costumi sessuali dei babilonesi, faceva poca differenza.

Gli interessava tutto. Una sua frase, tra le tante, descrive bene il personaggio: "Volendolo sapere, domandai".

(Alessandro Baricco, da Scoprite Erodoto, il viaggiatore pignolo, Repubblica)

giovedì 28 giugno 2012

Quando si è tagliati fuori dalla storia in comune

Cosa significa davvero quella fine dell'umanesimo a cui tanto di frequente scrittori e intellettuali vari fanno riferimento?

Può darsi che come per altre espressioni usate e abusate la sostanza sia poca e il fumo tanto. Ma se si vuol giocare a carte scoperte, fa pensare la traduzione che di questa espressione tenta Antonio Scurati nel suo La letteratura dell'inesperienza. Scrivere romanzi al tempo della televisione (Bompiani):



Fine dell'umanesimo significa non poter più vivere con i propri morti. Fine dell'umanesimo significa essere esclusi dalla comunione con i morti. Essere tagliati fuori dalla storia che abbiamo in comune.



Ecco, mi sa che è proprio così. Ciò che è intimamente dell'uomo comporta radici, legami con il nostro passato, appartenenza che ci proietta nel futuro. L'umanesimo, aggiunge Scurati, era il tentativo di stabilire una comunione di vita tra i vivi, i morti e perfino i non ancora nati.


Un ponte tra passato, presente e futuro. Cosa succede se viene meno questa comunione di vita?



E che senso ha il lavoro di uno scrittore se questo ponte si sgretola?

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

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