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lunedì 19 novembre 2012
mercoledì 11 maggio 2011
Ipazia e quel mistero che affonda nel cuore
C'era una donna allora ad Alessandria, il cui nome era Ipazia. Era figlia di Teone, filosofo della scuola di Alessandria, ed era arrivata a un tale vertice di sapienza da superare di gran lunga tutti i filosofi della sua cerchia
Così ci ha lasciato detto uno storico cristiano, Socrate Scolastico, e in fondo è poco meno di quanto sappiamo di Ipazia, donna che con la sua morte, prima ancora che con la sua vita, è diventata simbolo di molte cose. Donna che ha finito per rappresentare tutte le donne escluse e perseguitate, ma anche tutte le vittime dell'intolleranza e del fanatismo religioso. Lei, la pagana che nel quinto secolo dopo Cristo, nella metropoli della grande biblioteca, fu aggredita e massacrata da una schiera di monaci
Chi era davvero, Ipazia? Sacerdotessa o matematica? Eccentrica aristrocratica o raffinata filosofa? E perché fu uccisa?
A domande come queste ha provato a dare risposta una storica come Silvia Ronchey in Ipazia. La vera storia, un libro che è assai più bello del suo titolo, anzi del suo sottotitolo, decisamente fuorviante, perché questo è un libro che procede per sottrazione, che ripulisce le incrostazioni dei luoghi comuni, che mette in discussione i fatti assodati.
Il racconto di Ipazia allora diventa una sorta di Rashomon - vi ricordate la storia di quel delitto nel Giappone dei samurai, visto da diversi testimoni e da tutti raccontato in modo diverso?
E mentre si sgretolano le certezze di chi deve dare un senso a tutto, mentre ogni idea di piano o complotto convince meno della possibilità di un delitto mosso dall'oscurità umana di sempre - l'invidia che acceda, per esempio - ecco, sembra quasi di saperne di più sapendone in effetti di meno.
E di fronte a un assassinio per cui nessuno ha pagato - al contrario di quanto succede nei gialli - di fronte a questa vita che ci sfugge come sabbia tra le mani, con Silvia Ronchey possiamo condividere una sola convinzione:
Una cosa è certa: siamo e saremo sempre dalla parte di Ipazia
Che non è nemmeno poco.
Così ci ha lasciato detto uno storico cristiano, Socrate Scolastico, e in fondo è poco meno di quanto sappiamo di Ipazia, donna che con la sua morte, prima ancora che con la sua vita, è diventata simbolo di molte cose. Donna che ha finito per rappresentare tutte le donne escluse e perseguitate, ma anche tutte le vittime dell'intolleranza e del fanatismo religioso. Lei, la pagana che nel quinto secolo dopo Cristo, nella metropoli della grande biblioteca, fu aggredita e massacrata da una schiera di monaci
Chi era davvero, Ipazia? Sacerdotessa o matematica? Eccentrica aristrocratica o raffinata filosofa? E perché fu uccisa?
A domande come queste ha provato a dare risposta una storica come Silvia Ronchey in Ipazia. La vera storia, un libro che è assai più bello del suo titolo, anzi del suo sottotitolo, decisamente fuorviante, perché questo è un libro che procede per sottrazione, che ripulisce le incrostazioni dei luoghi comuni, che mette in discussione i fatti assodati.
Il racconto di Ipazia allora diventa una sorta di Rashomon - vi ricordate la storia di quel delitto nel Giappone dei samurai, visto da diversi testimoni e da tutti raccontato in modo diverso?
E mentre si sgretolano le certezze di chi deve dare un senso a tutto, mentre ogni idea di piano o complotto convince meno della possibilità di un delitto mosso dall'oscurità umana di sempre - l'invidia che acceda, per esempio - ecco, sembra quasi di saperne di più sapendone in effetti di meno.
E di fronte a un assassinio per cui nessuno ha pagato - al contrario di quanto succede nei gialli - di fronte a questa vita che ci sfugge come sabbia tra le mani, con Silvia Ronchey possiamo condividere una sola convinzione:
Una cosa è certa: siamo e saremo sempre dalla parte di Ipazia
Che non è nemmeno poco.
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Pensare che non ci sono mai stato in Piazza Vittorio, a Roma. Però forse è meglio così, perchè fa bene immaginare questo tessuto di voci, odori, colori. Per poi tuffarsi in queste pagine, che scivolano come acqua sulla pelle, senza doversi appesantire con l'urgenza della classificazione o qualche scomodo paragone.
Perchè è vero, questo libro è satira di costume e insieme romanzo giallo, e la storia desta perfino qualche suggestione letteraria che ha a che vedere con il Gadda del Pasticciaccio come con il mosaico di voci di Rashomon.
Però è meglio fermarsi qui, e per il resto scivolare via. Indugiando sulla piazza, sulle parole che si rincorrono intorno all'omicidio del "Gladiatore", sulle scene di vita quotidiana che girano intorno a un ascensore e a un condominio: che come in tutti condomini, si sa, richiede più capacità di diplomazia e inventiva di una crisi discussa al Palazzo di Vetro.