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martedì 1 settembre 2015

In America, sulla strada del blues

E allora è davvero questa la strada che racconta l'America, la sua storia, la sua sofferenza, i suoi sogni. Questa la strada indissolubilmente legata alla sua musica e capace di rappresentare, nel bene e nel male, l'immaginario degli States. Mica quella che va verso il selvaggio Ovest, quella di Jack Kerouac e del pollice alzato a chiedere un passaggio da parte dei tanti epigoni della beat generation. Ma questa, che l'America la taglia da nord a sud, o per meglio dire da sud a nord. Da New Orleans a Chicago. Dal delta del Mississippi al cuore dell'industria dell'Illinois. La strada del blues.

E' questa strada che Giuliano Malatesta racconta in un bel libro, Blues Highway (Arcana edizioni). Un viaggio che non è solo un itinerario in un secolo di musica americana, dalla Chicago di Muddy Waters al quartiere francese di New Orleans, passando per Memphis di Elvis Presley.

No, non può essere solo questo, lungo i chilometri della mitica 61, la strada dove, secondo Bob Dylan, Abramo sacrificò Isacco.  Non sarebbe possibile, sulla highway intimamente legata alle piantagioni di cotone, alle lotte per i diritti, alla grande migrazione verso il nord industriale.

Il blues? Malinconia e speranza di riscatto. La colonna sonora che accompagna una storia che non è più solo di un popolo, che si incide nel cuore di chi vuole ascoltare. Il blues che ci portiamo dietro, con la voce della grande Bessie Smith:

Mi sono svegliata stamattina, e il blues girava intorno al mio letto
Sono andata a fare colazione; il blues mi era entrato dentro il pane

sabato 14 settembre 2013

Imbarazzato da parole astratte, come gloria e onore

Non dissi niente. Ero sempre imbarazzato dalle parole sacro, glorioso e sacrificio e dall'espressione invano. 

Le avevamo udite a volte ritti nella pioggia quasi fuori dalla portata della voce, in modo che solo le parole urlate giungevano, e le avevamo lette su proclami che venivano spiaccicati su altri proclami, da un pezzo ormai, e non avevo visto niente di sacro, e le cose gloriose non avevano gloria e i sacrifici erano come i macelli a Chicago se con la carne non si faceva altro che seppellirla.

C'erano molte parole che non si riusciva ad ascoltare e si finiva che soltanto i nomi dei luoghi avevano dignità. Anche certi numeri e certe date, e coi nomi dei luoghi erano l'unica cosa che si potesse dire che avesse un significato.

Parole astratte come gloria, onore, coraggio o dedizione erano oscene accanto ai nomi concreti dei villaggi, ai numeri delle strade, ai nomi dei fiumi, ai numeri dei reggimenti e alle date.

(Ernest Hemingway, Addio alle armi, Mondadori)

martedì 16 aprile 2013

I grandi alberghi che puntano sul caro vecchio libro

Faccio fatica a crederci, ma ho controllato, pare proprio sia così: negli Stati Uniti gli hotel puntano sui libri. Ripeto: sui libri, e non solo sulla carta dei vini, sulle piscine con acqua di mare, sui trattamenti di bellezza.

Ricavo questa notizia da un articolo di Massimo Gaggio sul supplemento settimanale del Corriere della Sera, nel quale si segnala che alcuni prestigiosi hotel - per dire dal Marriott di Philadelphia all'Hyatt di Chicago o all'Hilton di San Diego - hanno deciso di riservare spazi riservati alla lettura e magari di sistemare alcuni scaffali nella stessa hall.

Ma come: rispuntano così i cari vecchi libri, per di più in posti che si presume frequentati da gente ben attrezzata di tablet e altre diavolerie digitali? E proprio negli alberghi, quando magari la libreria appena svoltato l'angolo ha chiuso o sta per chiudere?

Eppure pare proprio sia così. La cosa è stata attentamente valutata dai grandi manager di queste catene alberghiere e, è chiaro, ha ben poco a che vedere con l'omaggio alla cultura: pare che in questo modo i clienti indugino di più in sale e corridoi dove altrimenti sarebbero solo di passaggio e così consumino qualcosa in più.

Motivazioni poco nobili, per una cosa buona o giusta. Va bene così, per i libri, va bene anche un hotel in cui difficilmente metterò piede.

lunedì 8 aprile 2013

Metti che un ragazzo ruba una mela

Quante, quante volte continuavano a chiedermi
mentre mi pagavano del vino oppure birra,
a Peoria, prima, e più tardi a Chicago,
Denver, Frisco, New York, ovunque stavo,
come mi era capitato di fare la vita
e che cos'era a farla cominciare.
Bene, io gli raccontavo di un vestito di seta,
e di una promessa di matrimonio da parte di un ricco -
(che era Lucius Atherton).
Ma in realtà tutto questo non c'entrava per niente.
Metti che un ragazzo ruba una mela
dalla cassetta sul banco del droghiere,
e tutti cominicano a chiamarlo ladro,
il giornalista, il prete, il giudice, e tutti quanti -
"un ladro", "un ladro", "un ladro", dovunque va.
E non riesce a trovare lavoro, e non riesce 
a guadagnarsi il pane senza rubarlo,
ecco perché il ragazzo farà il ladro.
E' il modo in cui la gente considera i furto della mela
che fa del ragazzo quello che è.

(Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, Mondadori)

giovedì 15 marzo 2012

L'America raccontata nell'esilio volontario

Inizia con la luce di un faro solitario e poi l'ombra della prima striscia di terra da quando ci si è lasciati alle spalle il Portogallo: Long Island. Poi c'è tutto un continente da attraversare, scoprire, raccontare.

C'è New York - dove cercheremo qualche cosa di simile a quest città nient'altro che città? - con i suoi grattacieli da mozzare il fiato. Ci sono le ferrovie, trionfo dell'acciaio e della macchina, esaltazione di un popolo che sembra nato per mettersi in viaggio. C'è Chicago con le sue industrie, c'è l'infina distesa dell'Ovest, le tolleranti pianure di Sidney Lanier. C'è Los Angeles, la metropoli dei mirabili orrori, c'è la costa affacciata sul Pacifico e il richiamo di quell'altro continente.

E quant'altre cose in questa America che per Emerson , il filosofo, non era nient'altro che la continuazione dell'Inghilterra, figurarsi.

E quanta meraviglia, invece, scorre per le pagine dell'Atlante americano di Giuseppe Antonio Borgese, scrittore oggi molto trascurato (non so se oggi a scuola si legga ancora il suo straordinario romanzo Rubè), e che invece merita senz'altro: anche per questo libro che ci ripropone Vallecchi nella sua collana Off the road.

Merita, merita non solo per l'America raccontata, ma per l'occhio particolare da cui è essa è vista, quella di un intellettuale italiano degli anni del fascismo, quando l'Italia felix, così doveva essere, non poteva essere indulgente con gli States.

Pensare che partito nel 1931 Borgese finì per scegliere proprio l'America. Lì si sposò, per inciso con la figlia di Thomas Mann, lì scelse di abitare in un volontario esilio interrotto solo nel 1948. Ma questa è un'altra storia ancora. 


domenica 22 gennaio 2012

Cosa ci insegna lo spezzatino di New York

E' un libro che mi sta conquistando, La bellezza del mondo di Michel Le Bris e, quando lo avrò finito (un po' ci vorrà data la mole), ne avrò modo di parlare parecchio. Ci sono i viaggi, le esplorazioni, le avventure, c'è il business, che non può mai mancare, c'è soprattutto la giungla più giungla di tutte, il cuore pulsante del mondo, New York, qui raccontata nei suoi magnifici, travolgenti, assurdi anni Venti, quelli di Francis Scott Fiztgerald, del proibizionismo, dei gangster e del jazz. E c'è un atto di amore per la Grande Mela, crogiuolo di popoli, città dove si può incontrare di tutto, che fa maledettamente bene leggere oggi, ovunque noi siamo:

Chicago aveva i suoi chicagoani, Boston i suoi bostoniani, Ne York aveva irlandesi, tedeschi, francesi, italiani, siriani, turchi, svedesi, cinesi, indù, russi, texani, georgiani, californiani, messicani, portoricani, canadesi, cajun, eschimesi, cechi, cubani, spagnoli, portoghesi, lituani, greci, arabi, ma ognuno di loro, fosse pure vestito con gli abiti tradizionali, preoccupato dei suoi usi e costumi, si vantava di essere newyorkese, come se i grandi cuochi del pianeta avessero inviato a New York le loro spezie più prelibate per insaporire quel enorme pot-au-feu - ognuno, smanioso di dare spettacolo di sè, pretendeva di essere attore di quell'immenso "show" che era diventata la città. New York, il teatro del mondo! New York, come una sfida lanciata al resto dell'universo, in preda all'ebbrezza della sua insolenza sfoggiata, avida d'infrangere tutti i tabù, di opporsi ai pregiudizi, di affermare la sua smagliante giovinezza....


(Michel Le Bris, La bellezza del mondo, Fazi)

martedì 20 settembre 2011

I libri di viaggio ai tempi di Google Earth

Davvero la letteratura di viaggio è morta perché ormai siamo stati dappertutto e di tutto si è raccontato? Davvero ormai tanto vale restare a casa, tanto c'è Google Earth e tutto il resto?

Se lo cheide il grande scrittore viaggiatore Paul Theroux nell'articolo L'ultimo viaggio pubblicato nei giorni scorsi da Repubblica. Niente di nuovo sotto il sole: in fondo si tratta di una vecchia polemica, viva anche prima dell'irruzione di Internet nelle nostre vite.

(Susan Sontag nel 1972 poteva scrivere: Quasi certamente scriverò un libro sul mio viaggio in Cina prima di andarci)

Mi piace la risposta che si dà e ci dà Theroux. Eccola:

Il mondo non è piccolo come ce lo raffigura Google Earth. Penso all'area del Lower River in Malawi, all'hinterland dell'Angola, al nord di Burma su cui niente è stato scritto e alla sua frontiera con il Nagaland. Più vicino a noi, penso ad alcune zone d'Europa e degli Stati Uniti. Non conosco nessun libro, per esempio, che parli della vita di tutti i giorni in un quartiere povero di Chicago, o della quotidianità impenetrabile di uno slum o, per quel che conta, dell'antropologia dei musulmani che vivono in un depresso edificio di edilizia popolare nelle Midlands britanniche.

Il mondo è pieno di luoghi felici, ma questi non mi interessano affatto. Detesto le vacanze e gli alberghi di lusso, e non è per niente divertente leggere di ciò. Voglio leggere di luoghi travagliati, inaccessibili o inospitali; di città proibite e di strade secondarie. Finché esisteranno questi, la letteratura di viaggio avrà valore 

domenica 1 maggio 2011

Socrate, il Primo Maggio e il cavallo indolente

Martha C. Nussbaum deve scrivere libri tremendamente seri, come è giusto aspettarsi da una persona che insegna Diritto ed Etica all'Università di Chicago. Però forse è di libri tremendamente seri che ha bisogno il nostro tempo, il nostro paese.

Non dico libri difficili. Però libri che siano un buon vaccino contro l'epidemia televisiva delle veline, delle isole dei famosi, dei milionari che non saremo mai. Sentite per esempio che scrive, Martha C. Nussbaum, nel suo Non è per profitto (Il Mulino)


Come Socrate sapeva molti secoli fa, la democrazia è "un cavallo nobile ma indolente": Per tenerla sveglia occorre un pensiero vigile. Ciò significa che i cittadini devono coltivare la capacità per la quale Socrate diede la vita: quella di criticare la tradizione e l'autorità, di continuare ad analizzare se se stessi e gli altri, di non accettare discorsi o proposte senza averli sottoposti al vaglio del proprio ragionamento.


Oggi la ricerca psicologia conferma la diagnosi di Socrate: la gente ha la preoccupante tendenza a sottomettersi all'autorità e e alle pressioni sociali. La democrazia non può sopravvivere se non poniamo un limite a questi pericolosi atteggiamenti, coltivando l'attitudine a pensare in modo curioso e critico

Un buon pensiero per un buon Primo Maggio....

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...