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sabato 6 giugno 2020

I mirtilli di Thoreau per capire il mio mondo

Perché la Natura fa ogni giorno del suo meglio per farci stare bene. Esiste per questo. Non cercate di resisterle. 

Forse il succo - intendo di questo straordinario libretto, non dei mirtilli del titolo - è tutto qui: e si capisce subito che è un succo salutare, che è bene tenere sempre a portata di mano. Provare per credere. E se non sapete quanto sia bello andare a raccogliere i frutti di boschi, intanto sperimentate queste pagine. 

Da anni torno a Henry David Thoreau, in lui cerco consiglio e ispirazione, comunque un occhio diverso e migliore per considerare la mia vita di città, la velocità e gli ingorghi dei miei giorni, gli eccessi e le presunzioni della società cui appartengo. Tante volte ho provato a immaginarmi suo compagno di cammino, nell'immensità di un bosco o sulle sponde di un lago. Però un'opera come questa - Mirtilli o l'importanza delle piccole cose (Lindau editore) - non l'avevo ancora scovata. Ancora più sorprendente, perché da essa non è che mi aspettassi molto. 

Invece in questa ottantina di pagine o poco più Thoreau è riuscito a spiazzarmi, non con le sue idee, ma con il suo modo di consegnarmele. Partendo da ciò che è piccolo - apparentemente trascurabile - per poi spalancarmi una straordinaria visione del mondo che è anche il mio - diciamo discretamente peggiorato in diverse delle tendenze che Thoreau già individua e denuncia. 

All'inizio anche questo libretto sembra trascurabile: una dissertazione sui mirtilli che negli Stati Uniti crescono ovunque, con tanto di osservazioni sulle varie specie. Come parlare di funghi a una società micologica. Ma poi lo scenario muta nel giro di poco, Thoreau è l'atleta che all'inizio risparmia le forze per allungare alla prima distrazione altrui. 

Ecco, comincia: e già acquista un altro passo quando parla dell'amore per i mirtilli dei popoli indiani, di come li usano per alimentarsi, di come sono entrati nel loro immaginario - pare che alcuni di loro pensino a un paradiso pieno di questi frutti - e anche di come spesso siano stati sorpresi e massacrati dai civilizzatori  proprio mentre li raccoglievano. 

E già qui, ce ne sarebbero di considerazioni da fare. Ma poi non si ferma più, Thoreau. E pizzicando in qua e là, ecco i ragionamenti sui nomi che si danno alle specie in natura; sugli interessi economici cui vorremmo assoggettare ciò che la natura ci offre spontaneamente - che cosa accadrà del vero valore della vita rurale quando sarete costretti ad andare a comprare al mercato?; sul dilagare della proprietà privata che si prende i boschi che dovrebbero essere di tutti; sulla gioia e la libertà dell'andare a mirtilli che stiamo per perdere, perdendo il controllo del nostro tempo; sull'importanza di garantire nelle nostre città spazi naturali aperti a un uso pubblico, soprattutto se dentro di esse c'è una collina oppure un fiume - perché un fiume non serve soltanto per galleggiarci sopra; sull'importanza di incoraggiare una diversa divisione del lavoro, non tra uomo e uomo, ma nel tempo di ognuno di noi, da dividere tra la biblioteca e il campo di mirtilli; e ancora, sulla necessità di vivere le stagioni, anzi, di assecondarle.  

Lasciatevi portare dal vento - dice il grande di Concord - rinverdite a primavera, fatevi gialli e maturi in autunno. Dissetatevi dell'influsso di ogni stagione.....

E io sottolineo, annoto, non ho voglia di mettere via questo libro. Lo tengo a vista, sicuro che ogni tanto potrò raccogliervi qualcosa, come spero di poter fare in un campo di mirtilli. Piccole cose che fanno la differenza. 

martedì 7 febbraio 2017

La copertina è il vestito dei libri

La copertina giusta è un come un bel cappotto, elegante e caldo, che avvolge le mie parole mentre camminano per il mondo, mentre vanno a un appuntamento con i miei lettori.

Cosa sarebbero i libri senza le loro copertine? E quante volte abbiano comprato un libro solo perché sedotti da una copertina, senza sapere niente di un autore o di cosa ci sia dentro le sue pagine?

Così importanti le copertine, possono decidere un destino di un libro, anzi, fanno di un libro ciò che un libro è. Non solo perché un libro è anche un magnifico oggetto da toccare, da accarezzare con lo sguardo, da accudire sugli scaffali di casa. Una copertina, in realtà, è anche un modo di raccontare un libro. E' la sua prima traduzione in un'altra lingua, senza alfabeto.

Così importanti le copertine, eppure non è che ci si rifletta tanto. A me almeno è capitato molto poco, fino a che, in questi giorni, non mi sono imbattuto in Il vestito dei libri di Jhumpa Lahiri, libretto uscito per Guanda e prima ancora lectio magistralis tenuta in occasione del Festival degli Scrittori di Firenze.

La scrittrice giusta, Jhumpa Lahiri, donna che attraversa diverse culture e diverse lingue, per raccontare di come le copertine attraversano la scrittura e ne sono attraversate.

Per un autore la copertina è come un saluto. Il libro è terminato, sta per salpare verso le librerie, comincia una vita propria. L'illustratore è tra i primi che lo ha letto, valutato, interpretato. E da questo passaggio dipenderanno molte cose.

Non sempre a dire il vero scrittore e illustratore sembrano parlare la stessa lingua. E come mai lo stesso libro in paesi diversi esce con copertine tanto diverse? Come mai negli Stati Uniti conta più l'individualità della singola opera  - e quindi della singola copertina - mentre da noi pesano più le copertine di collana, che permettono di conoscere più un percorso e una famiglia di autori?

Pesano e funzionano di più, almeno per persone come me, che magari hanno dimenticato da un pezzo un nome e un titolo, ma non le copertine blu di Sellerio o le bianche di Einaudi...

Quante cose che ci dicono le copertine. A quante cose servono. A volte sbagliate, a volte così e così, a volte riuscite. Talvolta addirittura perfette, come un abito che ci sta a pennello....

 Come se lo scrittore e l'illustratore fossero salpati insieme, per quel viaggio che è un libro. 

lunedì 23 gennaio 2017

America 1927: l'estate in cui accade tutto

Qualsiasi altra cosa se ne possa dire, fu veramente una grande estate.

Così ci assicura Bill Bryson e per l'ultimo suo libro il titolo dell'edizione italiana (Guanda) va persino oltre: L'estate in cui accadde tutto. Ovvero promette assai di più di quanto faccia il titolo originario - semplicemente One summer. America 1927 - e anzi promette decisamente troppo: però che estate incredibile, entusiasmante e sconvolgente...

Bryson ce la racconta come sa far lui: con competenza e leggerezza, sbrogliando la matassa degli eventi e allo stesso tempo portandoci molto lontano.

E dunque, l'estate del 1927. Che, per quanto se ne sa, non ci suona come un anno particolarmente memorabile, figurarsi se poi ci si limita solo ai mesi dell'estate. Volete mettere con il 1914, o il 1945, o il 1968?

Eppure, eppure.... in quei mesi un manipolo di piloti spericolati e incoscienti si disputano il primato del primo volo transoceanico tra l'America e l'Europa. Fino a che l'incredibile impresa di Charles Lindbergh non regala un momento di gioia al mondo intero, rendendo peraltro evidente allo stesso mondo che ormai il futuro appartiene all'America, non più alla vecchia Europa.

Hollywood mette in circolazione i primi film sonori. I giornali si gettano sulla cronaca nera e raggiungono tirature da vertigine con delitti efferati che ci sono sempre stati ma che ora sono sotto i riflettori. Lo sport diventa fenomeno di massa, fatto culturale, dimensione per i nuovi miti e i nuovi eroi, si tratti di Babe Ruth nel baseball oppure di Jack Dempsey, il massacratore della boxe.

E ancora, la scellerata epoca del proibizionismo segna il punto più basso, seminando morti a valanga per alcol e per piombo. Immenso regalo fatto alla mafia, però intanto, tra i magistrati, qualcuno comincia a pensare che proprio negli affari si nasconda il suo tallone d'Achille: Al Capone presto finirà dentro, ma non per la strage di San Valentino, piuttosto per evasione fiscale.

Nel carcere di Charlestown la sedia elettrica è pronta per Sacco e Vanzetti, due anarchici italiani condannati perché anarchici, prima che per le prove a loro carico, tanto si sa, ci sono sempre teoremi già dimostrati, colpevoli in quanto tali.

Le auto di Henry Ford si apprestano a conquistare i mercati e a imporre una nuova civiltà. Nelle università alcuni scienziati ragionano su principi e pratiche di eugenetica che strapperanno l'applauso ai nazisti. Intanto il presidente Calvin Coolidge, il più pigro dei presidenti americani, decide di non ricandidarsi. Il paese può guardare al futuro con ottimismo, assicurerà nel suo ultimo discorso, mentre già si prepara il Black Friday di Wall Street....

E ancora, ancora.... basta per dire che l'estate del 1927 è l'estate in cui successo tutto? Decidete voi, ma vi raccomando:  prima leggetelo, il buon vecchio Bill.


lunedì 7 novembre 2016

Anderson, lo scrittore che ascoltò le voci del torrente

Erano venticinque anni che scrivevo, avevo pubblicato qualcosa fra i venti e i venticinque libri, mi ero fatto un nome come uno degli scrittori americani più importanti del mio tempo, i miei libri erano stati tradotti in varie lingue: eppure, con tutto ciò, ero sempre senza soldi, sempre a un passo o quasi dalla rovina.

Era destino che il paese che più di tutti gli altri ha trasformato la cultura in una gigantesca macchina per fare soldi fosse lo stesso paese che in maniera più realistica, direi anche più cruda, si è interrogata sui rapporti tra arte e mercato, tra creatività e successo. Ed è dagli Stati Uniti, non di oggi ma addirittura degli anni Trenta, che arriva un racconto perfetto per meditare su tutto questo.

Si chiama Le voci del torrente, porta la firma di Sherwood Anderson, autore che forse non è conosciuto come meriterebbe, non fosse altro che per i suoi Racconti dell'Ohio.

C'è molto della vita di Anderson in questo titolo riproposto da Il Melangolo: e questo ce le rende ancora più intrigante. Ma c'è molto anche di quello che vorremmo leggere e che soprattutto vorremmo ritrovare nel nostro mondo.

Pare scritto solo ieri. Ecco lo scrittore che si fa i conti in tasca e i conti non gli tornano e allora si piega alle richieste degli editor e dei direttori delle riviste che pagano profumatamente. Dovrà scrivere cose scorrevoli, gradevoli, accattivanti, cioé accomodanti. Cose che non disturbino, che vadano giù come acqua.

E lui inizia. Solo che poi si blocca. Si blocca e non va più avanti come un apparente buon senso gli imporrebbe. E sarà per quella notte insonne passata ad ascoltare i suoni del torrente vicino a casa. Sarà che tra quei suoni gli pare di scorgere anche i passi dei vecchi amici, le voci delle donne che ha amato. Ma con la luce del giorno, la nuova mattina, ha deciso:

Ero di nuovo deciso a non impormi, a lasciare che il racconto che stavo cercando di scrivere si scrivesse da sé, a essere ancora una volta ciò che ero senpre stato, uno schiavo degli abitanti del mio mondo immaginario.

Racconto dentro il racconto, ma soprattutto racconto che profuma di libertà.

Racconto come un antidoto, buono non solo per gli scrittori, ma per chiunque sia pronto ad arrendersi alle sirene di un sì troppo comodo.

Ps: Nella vita di Anderson, poi, le cose non andarono propriamente così. Un giorno si imbarcò per la Colombia, dove avrebbe dovuto tenere una conferenza a pagamento. Mangiando un panino inghiottì uno stuzzicadenti e morì di peritonite. Morte assurda, certo. Morte che è insieme esclamazione e irrisione. E mi sa che è meglio finirla qui.

venerdì 27 maggio 2016

Wild, come ritrovarsi nel cammino più difficile

Me ne stavo andando. La California scorreva dietro di me come un lungo velo di seta. Non mi sentivo più una sprovveduta. E nemmeno un'amazzone cazzutissima. Mi sentivo fiera e umile e pacificata interiormente, come se anch'io fossi al sicuro lì.

Cheryl ha solo 26 anni e la sua vita è già entrata in un tunnel del quale non si scorge l'uscita. La morte della madre, divorata da una malattia, l'ha spinta sul ciglio del precipizio. Ha sfasciato un matrimonio, sta giocando pericolosamente con le droghe. Vai a sapere com'è che a un certo punto intravede un'altra strada. Una strada che è davvero una strada: lunga, difficile, solitaria. Eppure proprio su quella strada potrà ritrovare se stessa e recuperare un senso.

Così un giorno parte, per l'esperienza meno prevedibile della sua vita che è disordine all'ennesima potenza. Percorrerà a piedi l'intero Pacific Crest Trail, il sentiero che taglia da nord a sud gli Stati Uniti, dal Messico al Canada, attraversando deserti e scalando cime innevate. Tutt'altra cosa rispetto alla nostra via Francigena, per intendersi: vera wilderness, dove gli incontri che devi mettere in conto sono con serpenti a sonagli, orsi e uomini meno raccomandabili dei serpenti e degli orsi.

Fa pena vederla partire con quello zaino più grande di lei, dove ha stipato tutto alla rinfusa, a partire dalle cose più inutili e pesanti. Una sprovveduta, appunto: senza esperienza, senza fiato, il corpo fiaccato dagli eccessi.

Eppure parte, va avanti, non si arrende. Eppure va avanti e arriva in fondo.

Da leggere, di Cheryl Strayed (Piemme): una storia di tenacia, fuga, rinascita
Wild

giovedì 14 aprile 2016

Sangue e petrolio, in quella frontiera che è il Texas

Rispetto a JFK, non era rimasta sorpresa. Nell'anno in cui morì c'erano ancora in vita dei texani che avevano visto i genitori scotennati dagli indiani. La terra era assetata. Conservava qualcosa di primitivo.

Benvenuti in Texas, con la sua storia epica e tragica: la guerra con i messicani, la terra strappata agli indiani, le armi che si regalano anche ai bambini e che spuntano ovunque. Frontiera e allevamenti sterminati. Sangue e petrolio.

Tutto questo ci racconta Philipp Meyer in Il Figlio (Einaudi), gran libro che ci porta in luoghi degli Stati Uniti meno frequentati dalla grande letteratura e che pure forse dicono di più - o almeno altrettanto - di questo paese che tanti romanzi ambientati a New York o a Los Angeles.

E' una saga familiare che attraversa tre generazioni, nascita e declino di un impero familiare, fino alla partita finale con il destino. Come quel classico che è i Buddembrook di Thomas Mann, solo in salsa chili. Qui non c'è la buona borghesia di Lubecca, questa è una terra spietata, violenta.

Attenti ai piccoletti, in Texas; devono essere dieci volte più cattivi per sopravvivere in questa terra di giganti.

E spietata, violenta, è anche la trama di questo libro, nel quale però si respira l'aria dei grandi spazi, una singolare libertà. Qui vanno in scena le passioni nel loro stato più puro, senza ipocrisie, senza le lezioni del galateo.

Potenti, i legami del sangue. Solo che può succedere, per le strane traiettorie della vita, che un figlio provi a diventare qualcos'altro. Che siano i libri e non il potere a tentarlo. Che possa persino innamorarsi di una messicana... 

sabato 30 gennaio 2016

Nel cuore dell'America, dove si inventa la storia

Come argomento lo attraeva soprattutto la storia, perché nella storia c'è sempre qualcosa di sbagliato.

E' solo una frase, tra le tante in cui mi sono soffermato in questo libro che è come un fiume in piena di dialoghi incalzanti e frasi taglienti come se fossero state incise con un bisturi nel corpo vivo degli eventi. Solo una frase, ma dice già molto dell'atmosfera che si respira accettando la sfida che Gore Vidal lancia con L'Età dell'oro (Fazi editore).

Romanzo sulla storia degli Stati Uniti tra il 1939 e il 1954, dalla seconda guerra mondiale alla guerra di Corea. Ma soprattutto romanzo sul potere, sulla verità del potere, sulle falsificazioni del potere.

Proprio in questi anni gli Stati Uniti si affermano come assoluta potenza mondiale e lo fanno non solo con gli eserciti, anche con la loro economia, con il loro stile di vita. Ma questo non è un romanzo su una nazione, non mette in scena un popolo. Gore Vidal va al cuore dell'America, entra dentro la Casa Bianca, sembra abbia piazzato microfoni ovunque per registrare e svelare.

Questi sono anche gli anni in cui i mass media diventano decisivi, in cui i grandi eventi della politica rispondono a una attenta regia. La politica è sempre più non ciò che si fa o si pensa ma ciò che si riesce a far credere. Ed è in questo contesto che Gore Vidal si muove a suo agio come un pesce in acqua, per raccontare ciò che si vede e soprattutto il modo con cui si fa vedere. I suoi microfoni nelle stanze del potere fanno il resto: e svelano intrighi, ambizioni, debolezze.

Come un entomologo, alle prese con i suoi insetti, Vidal studia, analizza, classifica. Eppure senza il distacco che attribuiamo all'entomologo. Lui la pensa come Tolstoi: La storia sarebbe una gran bella cosa, se solo fosse vera. Solo che ci si può appassionare, al gioco della verità. E non smettere più.

mercoledì 23 settembre 2015

Che fine ha fatto il vecchio campione?

Sono seduto in una stanza d'albergo a Columbus, Ohio, in attesa della chiamata di un uomo che non si fida di me, sperando che abbia delle risposte su un uomo di cui io non mi fido, che potrebbero riabilutare il nome di un uomo di cui a nessuno frega niente....


Questo è l'attacco, fulminante come il gancio a sorpresa di un grande pugile. Con queste premesse il combattimento durerà poco, appena un'ottantina di pagine, quanto basta per un viaggetto in treno o una notte prima di spengere la luce. Però come nelle sfide memorabili, conta l'intensità. E c'è tutta in Il campione è tornato (Piemme) del grande J. R. Moehringer, a mio parere uno dei più grandi scrittori, preferirei dire giornalisti scrittori, degl Stati Uniti di oggi.

Questa volta ha deciso di andare dietro a un pugile che molto molto tempo fa - quando l'America era un'altra cosa e anche la boxe lo era - sembrava avere la strada spianata verso il titolo mondiale. Invece scomparve all'improvviso e con la scomparsa presumibilmente cominciò una vertiginosa parabola discendente. E allora che fine ha fatto Bob Satterfield, quasi campione e promessa mancata? E' quell'homeless a caccia di spiccioli e whisky sui marciapiedi di una città del Midwest? O è già morto da un pezzo, dimenticato da (quasi) tutti?

Che l'indagine abbia inizio. E nella curiosità, come nella penna, di J.R Moeheringer questa indagine si allarga subito. Non solo la storia di un pugile nell'America che è la stessa di Toro scatenato. Ma anche una straordinaria storia sui destini e sulle identità, sugli inganni e sulle possibilità di riscatto.

Le storie si intrecciano, si sovrappongono, si confondono. E forse non c'è tutto un abisso tra il campione mancato e il giornalista alla sua ricerca. Forse entrambi hanno sofferto la stessa assenza, inseguito la stessa ombra... Da leggere, di un fiato.

lunedì 13 aprile 2015

Sherwood Anderson e la voce del torrente

Erano venticinque anni che scrivevo, avevo pubblicato qualcosa fra i venti e i venticinque libri, mi ero fatto un nome come uno degli scrittori americani più importanti del mio tempo, i miei libri erano stati tradotti in varie lingue: eppure, con tutto ciò, ero sempre senza soldi, sempre a un passo o quasi dalla rovina.

Era destino che il paese che più di tutti gli altri ha trasformato la  cultura in una gigantesca macchina per fare soldi fosse lo stesso paese che in maniera più realistica, direi anche più cruda, si è interrogato sui rapporti tra arte e mercato, tra creatività e successo. Ed è dagli Stati Uniti, non di oggi ma addirittura degli anni Trenta, che arriva un racconto perfetto per meditare su tutto questo. Pare scritto solo ieri.

Si chiama Le voci del torrente  (in Italia edito da Melangolo), porta la forma di Sherwood Anderson, autore che forse non è conosciuto come meriterebbe, non fosse altro che per i suoi Racconti dell'Ohio.

C'è molto della vita di Anderson in questo libriccino: e questo ce le rende ancora più intrigante. Ma c'è molto anche di quello che vorremmo leggere e che soprattutto vorremmo ritrovare nel nostro mondo.

Ecco lo scrittore che si fa i conti in tasca e i conti non gli tornano e allora si piega alle richieste degli editor e dei dirittori delle riviste che pagano profumatamente. Dovrà scrivere cose scorrevoli, gradevoli, accattivanti, cioé accomodanti. Cose che non disturbino, che vadano giù come acqua.

E lui inizia. Solo che poi si blocca. Si blocca e non va più avanti come un apparente buon senso gli imporrebbe. E sarà per quella notte insonne passata ad ascoltare i suoni del torrente vicino a casa. Sarà che tra quei suoni gli pare di scorgere anche i passi dei vecchi amici, le voci delle donne che ha amato. Ma con la luce del giorno, la nuova mattina, ha deciso:

Ero di nuovo deciso a non impormi, a lasciare che il racconto che stavo cercando di scrivere si scrivesse da sé, a essere ancora una volta ciò che ero sempre stato, uno schiavo degli abitanti del mio mondo immaginario.

Racconto dentro il racconto, ma soprattutto racconto che profuma di libertà.

Racconto come un antidoto, buono non solo per gli scrittori, ma per chiunque sia pronto ad arrendersi alle sirene di un sì troppo comodo.

Ps: Nella vita di Anderson, poi, le cose non andarono propriamente così. Un giorno si imbarcò per la Colombia, dove avrebbe dovuto tenere una conferenza a pagamento. Mangiando un panino inghiottì uno stuzzicadenti e morì di peritonite. Morte assurda, certo. Morte che è insieme esclamazione e irrisione. E mi sa che è meglio finirla qui.

martedì 23 settembre 2014

A Madrid, le domande di un uomo di passaggio

Mi sforzai di immaginare le mie poesie, ogni altra poesia, come macchine capaci di far accadere le cose.

In bilico tra due continenti e due paesi come la Spagna e gli Stati Uniti. Ma anche tra talento e vita ordinaria, tra poesia e assenza di parola, tra giorni da bohémien e prospettive di ritorno a casa e all'ordine famigliare. Ci sono molti modi per vivere una vita in bilico, per essere o sentirsi un uomo di passaggio. Quasi sempre assai di più di quanti siano i porti a cui attraccare, le destinazioni che si fanno scegliere.

E in fondo è questo di cui parla Un uomo di passaggio di Ben Lerner (Neri Pozza), libro sorprendente, ricco di umori e di sfumature, in parte senz'altro autobiografico (l'autore, poeta, ha vinto una borsa di studio a Madrid, come il protagonista del libro), denso di ironia, di malinconia, di domande.

Domande sul senso della poesia, sul significato e la possibilità del talento, sulla sostanza delle parole in un mondo, quello della cultura, in cui ci si può tenere anche a galla, ma vai a sapere a quale prezzo.

Quanta vanità, quanta arte ci può stare in una vita? Il protagonista di risposte ne ha poche, non è persona che sappia dare una vera direzione ai suoi passi, o che sappia almeno intenderli, lui che ritiene di possedere una profonda esperienza dell'assenza di profondità.

Poi, nella vita quotidiana, ci sarà l'irruzione di ciò che è ancora più grande, devastante, incomprensibile. Siamo nel 2004, a Madrid: gli attentati che fanno strage alla stazione di Atocha. E forse a non sapere scegliere, sarà altro a scegliere per noi. 

lunedì 28 ottobre 2013

Italo Calvino con gli occhi della figlia



- Qual è la prima definizione che le viene in mente, pensando a suo padre?

Penso che lui abbia lavorato al fine di non poter essere ridotto a una sola definizione, e che ci sia riuscito.

Che bello l'album di ricordi che Antonio Monda, sulla Repubblica di qualche tempo fa, sfoglia insieme a Giovanna, figlia di Italo Calvino. Malinconia, dolcezza, rigore intellettuale. Un frullato di emozioni ma anche di stimoli per proseguire l'avventura della mente.

Non deve essere stato facile crescere e poi staccarsi da un padre come Italo. Eppure quanti affetti che si mescolano alle letture di una sera o di un giorno d'estate, alle conversazioni tra i genitori e con i genitori su un libro, alle frequentazioni di altri scrittori - per dire, gente come Octavio Paz o Mary McCarthy.

Una frase del babbo che le è rimasto particolarmente impressa, e suona diversa se a ripeterla è un figlio:

Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane.

Un libro del babbo che non è finito, e anche questo ha un significato diverso, per un lettore così particolare:

Ho letto quasi tutti i suoi libri. E devo dire, con un certo sollievo, che mi piacciono molto. Ma per esempio Il visconte dimezzato non l'ho letto tutto, anche se in pubblico faccio finta di conoscerlo.

E la prima immagine che del babbo le viene in mente, mica con il volto nascosto tra le pagine o chinato sulla macchina da scrivere:

Un suo autoritratto, in una lettera che mi mandò quando aveva otto anni, in cui lui è alle prese coi ferri cercando di fare la calzamaglia.

Vive negli Stati Uniti, Giovanna. Ancora non ha scritto un libro sul babbo. 

mercoledì 19 giugno 2013

Quando per gli italiani l'America era un sogno

 Eugenio Montale, che in America non c'era mai stato, non si stancava di interrogarsi su un paese che gli sembrava insieme un posto in cui era una maledizione nascere e morire e un paradiso dove non si poteva fare a meno di vivere.

E che cosa fosse davvero l'America forse non lo riuscirono a comprendere davvero nemmeno i tanti scrittori e giornalisti italiani che nel corso del ventennio fascista provarono a scoprirla. Sarà che l'America - anzi, gli Stati Uniti - era davvero molte cose insieme. Sarà che persino per Mussolini l'America era molte cose insieme: nuovo mondo e plutocrazia e altro ancora.

Non lo riuscirono a comprendere, ma certamente, mattone su mattone, costruirono un'immagine dell'America che per molti versi, e anche a dispetto delle indicazioni del regime, fu soprattutto un mito: America, terra di possibilità, terra di libertà.

E'  di tutto questo che ci parla l'affascinante Al di là del mito. Scrittori italiani in viaggio negli Stati Uniti di Ambra Meda (Vallecchi editori), un libro non solo per studiosi per una lettura che intriga.

Quante cose, nelle sue pagine.

La traversata dell'Atlantico, l'impatto con New York e i suoi grattacieli, la gente che corre e i treni che tagliano un intero continente. Gli alcolizzati per strada e gli studios di Hollywood. Il proibizionismo e la frontiera.

L'America sognata e vagheggiata, l'America temuta e denigrata. E l'America vera, sperimentata sulla propria pelle, che non è nè l'una né l'altra. Eppure in fondo sempre un sogno. Bisognerà aspettare il dopoguerra perché Cesare Pavese dichiari:

Sono finiti i tempi in cui scoprivamo l'America.

Ma forse allora, con un paese in macerie, con un paese da ricostruire e da reinventare dopo il fascismo, non c'era più tempo per sognare.

giovedì 24 gennaio 2013

Se l'editoria-fai-da-te rischia di essere un vicolo cieco

Diciamo che può funzionare per qualcuno, ma che è meglio non farsi illusioni, per la stragrande maggioranza sarà più un vicolo cieco che una scorciatoia.

E' decisamente interessante il paginone centrale che, a firma di Stefania Parmeggiani, Repubblica ha dedicato all'editoria fai-da-te, o come sembra più nobile dire, al self-publishing. Fenomeno in crescita anche in Italia, col suo ampio esercito di autori di thriller, gialli, fantasy, romanzi erotici e quant'altro, ma dove certo non è tutto oro quello che luccica: tanto che mi pare di scorgere qualche sarcasmo nel titolo dell'articolo centrale, Best seller fatto in casa.

E dunque diciamo pure che l'Italia non è gli Stati Uniti, dove un'Amanda Hocking con il self-publishing ha guadagnato la bellezza di due milioni di dollari e  alcuni grandi autori hanno già abbandonato i loro editori, allettati da royalty del 70 per cento; e non è nemmeno la Spagna, dove pare che l'editore tradizionale abbia cominciato a pescare tra gli autori fai-da-te.

 Però se c'è chi ce la fa, anche negli altri paesi, la realtà complessiva è un'altra, come scrive Stefania Parmeggiani:

In America l'84 per cento degli autori si divide il 28 per cento dei download, il che significa che se un esordiente scendesse in strada cercando di vendere il libro fotocopiato ai passanti (più o meno quello che Moccia sostiene di avere fatto ai suoi esordi) guadagnerebbe di più.

O forse ciò che si chiede all'autore non è di essere un bravo autore, ma di fare ben altro, anche le cose che dovrebbe fare l'editore di cui, per scelta o per necessità, è privo: per esempio far conoscere il libro.

Perché è facile andare in rete, assai più difficile fare in modo che qualcuno se ne accorga. Forse più che a scrivere bisognerebbe essere bravi ad autopromuoversi sui social netowork e sui blog. Non so se mi piace.


giovedì 8 novembre 2012

I due minuti del discorso di Abramo Lincoln

Mi pare curioso che in tempi in cui il tempo è scarso e le parole sono inflazionate vadano ancora per la maggiore libri di sterminata lunghezza, come se il numero delle pagine facesse premio sulla qualità. Ma mi pare ancora più curioso che si misuri il valore e l'importanza di quanto si ha da dire sul tempo che ci prendiamo a noi e a chi ci ascolta.

Per questo mi è piaciuta la storia che qualche tempo fa Marco Missiroli ha raccontato su La Lettura del Corriere della Sera: I due minuti che inventarono l'America. E' la storia del discorso di Gettysburg, pronunciato da Abramo Lincoln dopo la battaglia più sanguinosa della Guerra civile. Quel giorno - il 19 novembre 1863 - c'erano i famigliari dei caduti: non poteva essere un'orazione come le altre, non poteva essere la retorica della guerra.

Le autorità accolsero Lincoln spiegandogli che avrebbe avuto tutto il tempo a disposizione. Chi lo precedeva - l'ex segretario di Stato - si stava dando daffare con un intervento di due ore.

Ma quando si presentò davanti alla folla, l'applauso fu rotto da una voce: Chi ci ridarà i nostri figli?

Il Presidente si toccò la barba, guardò l'orologio, ripiegò in quattro i fogli e se li mise in tasca. In fondo, c'era bisogno di pochissime parole, per il discorso che si dice abbia rifondato lo spirito del Nuovo Mondo. E nelle parole di Marco Missiroli:

Il miglior discorso che la storia americana, e una madre del suo popolo, avrebbe ricordato per sempre era di appena dieci frasi. Durava due minuti.

giovedì 18 ottobre 2012

La notte che lo scrittore passò ad ascoltare il torrente

Erano venticinque anni che scrivevo, avevo pubblicato qualcosa fra i venti e i venticinque libri, mi ero fatto un nome come uno degli scrittori americani più importanti del mio tempo, i miei libri erano stati tradotti in varie lingue: eppure, con tutto ciò, ero sempre senza soldi, sempre a un passo o quasi dalla rovina

Era destino che il paese che più di tutti gli altri ha trasformato la cultura in una gigantesca macchina per fare soldi fosse lo stesso paese che in maniera più realistica, direi anche più cruda, si è interrogata sui rapporti tra arte e mercato, tra creatività e successo. Ed è dagli Stati Uniti, non di oggi ma addirittura degli anni Trenta, che arriva un racconto perfetto per meditare su tutto questo.

Si chiama Le voci del torrente, porta la forma di Sherwood Anderson, autore che forse non è conosciuto come meriterebbe, non fosse altro che per i suoi Racconti dell'Ohio. A riproporlo oggi è l'editrice Il melangolo: e pare scritto solo ieri.

C'è molto della vita di Anderson in questo libriccino: e questo ce le rende ancora più intrigante. Ma c'è molto anche di quello che vorremmo leggere e che soprattutto vorremmo ritrovare nel nostro mondo.

Ecco lo scrittore che si fa i conti in tasca e i conti non gli tornano e allora si piega alle richieste degli editor e dei dirittori delle riviste che pagano profumatamente. Dovrà scrivere cose scorrevoli, gradevoli, accattivanti, cioé accomodanti. Cose che non disturbino, che vadano giù come acqua.

E lui inizia. Solo che poi si blocca. Si blocca e non va più avanti come un apparente buon senso gli imporrebbe. E sarà per quella notte insonne passata ad ascoltare i suoni del torrente vicino a casa. Sarà che tra quei suoni gli pare di scorgere anche i passi dei vecchi amici, le voci delle donne che ha amato. Ma con la luce del giorno, la nuova mattina, ha deciso:

Ero di nuovo deciso a non impormi, a lasciare che il racconto che stavo cercando di scrivere si scrivesse da sé, a essere ancora una volta ciò che ero senpre stato, uno schiavo degli abitanti del mio mondo immaginario

Racconto dentro il racconto, ma soprattutto racconto che profuma di libertà.

Racconto come un antidoto, buono non solo per gli scrittori, ma per chiunque sia pronto ad arrendersi alle sirene di un sì troppo comodo.

Ps: Nella vita di Anderson, poi, le cose non andarono propriamente così. Un giorno si imbarcò per la Colombia, dove avrebbe dovuto tenere una conferenza a pagamento. Mangiando un panino inghiottì uno stuzzicadenti e morì di peritonite. Morte assurda, certo. Morte che è insieme esclamazione e irrisione. E mi sa che è meglio finirla qui.

lunedì 24 settembre 2012

L'isola lontana dove tutto è cominciato

Qui, nell'isola lontana dal mare, dove tutto è cominciato.

E' stato qui che il primo uomo bianco ha calpestato terre fertili e giocose, terre che apparterranno a quel Nuovo Mondo che sarà conosciuto come le Americhe. 

Qui, per la prima volta, un uomo bianco guardò negli occhi altri uomini dalla pelle color dell'ambra e non li riconobbe come fratelli. 

Qui fu commesso il primo crimine di questi continenti. Qui nacque il primo mulatto. Non ci è stato detto se figlio del primo impossibile amore o della prima violenza.

Qui venne lanciato il primo grado di ribellione di un popolo indigeno. Qui venne piantata la prima croce.

Furono murate le pietre della prima chiesa del cristianesimo di oltreoceano, "catedral primada de America". Rintoccò la prima campana. Fu fondata la prima università. Che altro?

L'isola, il suo Occidente, fu il primo Paese di quello che sarà chiamato Terzo Mondo a indebitarsi per l'eternità. Una sola volta l'isola ha ceduto un primato: qui è stato proclamato il secondo paese indipendente delle Americhe dopo gli Stati Uniti. Ma era, e questa è gloria, la prima repubblica di un popolo nero.

Tutto è davvero cominciato nell'isola che non conosce gli inverni.

(da Andrea Semplici, L'isola lontana dal mare, Terre di Mezzo editore)

sabato 15 settembre 2012

L'emigrante che piangeva ai film di Charlot

In ogni caso, Diamante non perse neanche un cortometraggio di Chaplin, né lo abbandonò quando Charlot divenne famoso - milionario e vanitoso come un re.

Quando divenne intellettuale, quando smise di far ridere, quando fu processato per le sue esuberanze erotiche e biasimato per la sua inclinazione per le ragazze troppo giovani, quando cominciò a parlare - e perfino quando divenne comunista e cadde in disgrazia negli Stati Uniti. Diamante gli rimase fedele - e fu la sua una fedeltà conclusiva.

Lo seguì come un compagno d'avventura, il misterioso fratello che non aveva mai incontrato. Conosceva a memoria Charlot dentista, Charlot pittore, Charlot alla spiaggia, Charlot nottambulo, vagabondo, pompiere, gentiluomo ubriaco, emigrante, evaso, soldato, vetraio ambulante, cercatore d'oro, disoccupato, clown.

Anche i figli finirono per trovare familiare il vagabondo coi baffetti neri e gli occhi celesti, furbi e sconfitti.

Ma Roberto non aveva capito perché mai, mentre la platea sussultava, squassata dalle risa, suo padre restava immobile, pietrificato nell'oscurità, lo sguardo fisso sullo schermo. Perché mai, alla vista di quel bastone roteante e di quella camminata sghemba, piena di patetico sussiego e di incrollabile dignità, Diamante, così rigido e controllato, che nessuno aveva mai visto piangere e nemmeno emozionarsi - estraesse un fazzoletto da taschino e soffiasse furtivamente il naso.

(Melania G. Mazzucco, Vita, Rizzoli)


sabato 7 luglio 2012

Il reporter di guerra che non raccontava di eroi

Il giornalismo, spiega David Randall nel suo splendido Tredici giornalisti quasi perfetti (Contromano Laterza), è infestato di invidia professionale non meno di qualsiasi altra attività professionale che si svolga all'insegna di un'insicurezza cronica. E certo non dovette essere poca l'invidia che si attirò su di sé Richard Harding Davis, cronista puro e principe dei corripondenti di guerra americani.

Era bravo, Davis, e soprattutto non piegò le sue capacità a interessi di parte o peggio ancora a calcoli personali. Quanto vedeva, raccontava. Anche nel corso di quella guerra con cui gli Stati Uniti, alla fine dell'Ottocento, strapparono Cuba alla Spagna. La stessa in cui William Randolph Hearst, il potente magnate della stampa americana, pare abbia detto a Frederic Remington, il fotografo che accompagnò lo stesso Davis: Tu procura le immagini, io procurerò la guerra.

Davis la guerra la raccontò. Nella sua insensata crudeltà: guerra non di eroi, ma di uomini che subiscono il destino. E valgano per tutti queste parole:

Un certo numero di granate e proiettili è passato in uno spazio e uomini di differente stazza hanno bloccato quello spazio in differenti punti. Se un uomo si trovava nella traiettoria di un proiettile, era ucciso e spedito al creatore, lasciando una moglie e dei figli, forse, a piangerlo. "Papà è morto", diranno questi figli, "facendo il suo dovere". In realtà il papà è morto perché si è alzato nel momento sbagliato, o perché si è girato a chiedere un fiammifero all'uomo alla sua destra, anziché piegarsi alla sua sinistra, e ha proiettato la sua mole di novanta chili là dove un proiettile, sparato da un uomo che non lo conosceva e non aveva puntato contro di lui, si è trovato a pretendere il suo diritto di precedenza. Uno dei due doveva cedere e, poiché il proiettile, non ha voluto saperne, il soldato ha avuto il cuore sfracellato.

giovedì 16 febbraio 2012

La dolce vendetta di Elizabeth

Elizabeth von Arnim scrisse 21 romanzi, ebbe due mariti, un conte tedesco oppressivo e un conte inglese vendicativo, cinque figli che non le diedero grandi soddisfazioni, un certo numero di amanti e di amatissimi cani....

Che bella, la pagina che Natalia Aspesi, su Repubblica, dedica a Elizabeth von Arnim, donna che nacque in Australia, morì negli Stati Uniti, ma visse in Germania, Inghilterra e altri paesi; donna libera e irrequieta, grande scrittrice, a cavallo tra Ottocento e Novecento.

La sua storia è anche la storia di quanto sia stato difficile per le donne strappare non solo il diritto al voto, ma anche il loro posto nella letteratura. Scrive Natalia Aspesi:

Scrivere allora era l'unica forma di creatività femminile appena tollerata, e le scrittrici venivano spesso considerate creature sospette, poco raccomandabili, anche ridicole, almeno secondo la stampa satirica. Molte autrici sceglievano di tutelarsi, nascondendosi dietro un nome maschile...  Dopo furibondi litigi domestici, quella che poi avrebbe scelto di firmare i suoi ventun libri come Elizabetg von Arnim, ottenne dal marito il permesso di pubblicare la sua prima opera, a patto che risultasse di anonimo autore, in modo da rendere impossibile identificarla per non macchiare il glorioso stemma di famiglia.

Quel libro era Il Giardino di Elizabeth e ha rappresentato la più deliziosa delle vendette. Perché ancora oggi viene pubblicato e letto - in Italia lo ha fatto Bollati Boringhieri - e sulle sue pagine è possibile scoprire questa scrittrice ironica, spregiudicata, perfino spietata nel mettere in croce una società boriosa, superficiale, vecchia, ingiusta.

Del marito e del suo glorioso stemma di famiglia oggi non si ricorda più nessuno.... la vendetta più deliziosa è anche quella che si serve fredda e si consuma nel tempo.

martedì 20 settembre 2011

I libri di viaggio ai tempi di Google Earth

Davvero la letteratura di viaggio è morta perché ormai siamo stati dappertutto e di tutto si è raccontato? Davvero ormai tanto vale restare a casa, tanto c'è Google Earth e tutto il resto?

Se lo cheide il grande scrittore viaggiatore Paul Theroux nell'articolo L'ultimo viaggio pubblicato nei giorni scorsi da Repubblica. Niente di nuovo sotto il sole: in fondo si tratta di una vecchia polemica, viva anche prima dell'irruzione di Internet nelle nostre vite.

(Susan Sontag nel 1972 poteva scrivere: Quasi certamente scriverò un libro sul mio viaggio in Cina prima di andarci)

Mi piace la risposta che si dà e ci dà Theroux. Eccola:

Il mondo non è piccolo come ce lo raffigura Google Earth. Penso all'area del Lower River in Malawi, all'hinterland dell'Angola, al nord di Burma su cui niente è stato scritto e alla sua frontiera con il Nagaland. Più vicino a noi, penso ad alcune zone d'Europa e degli Stati Uniti. Non conosco nessun libro, per esempio, che parli della vita di tutti i giorni in un quartiere povero di Chicago, o della quotidianità impenetrabile di uno slum o, per quel che conta, dell'antropologia dei musulmani che vivono in un depresso edificio di edilizia popolare nelle Midlands britanniche.

Il mondo è pieno di luoghi felici, ma questi non mi interessano affatto. Detesto le vacanze e gli alberghi di lusso, e non è per niente divertente leggere di ciò. Voglio leggere di luoghi travagliati, inaccessibili o inospitali; di città proibite e di strade secondarie. Finché esisteranno questi, la letteratura di viaggio avrà valore 

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...