E diciamo: avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?
Sono contento di aver cominciato il 2017 con questo libro, è un regalo che mi sono fatto. Me l'ero tenuto da parte, nonostante le buone recensioni che avevo già letto, per consegnarlo a questi giorni più rarefatti, dove anche il freddo e i vetri appannati e le feste che se ne vanno sembrano invitare al raccoglimento e alla parola che risuona dentro. Per una volta non mi sono sbagliato: Otto montagne di Paolo Cognetti (Einaudi) è come una passeggiata su una montagna di inverno, dove gli unici rumori sono i tonfi della neve dagli alberi; è come un lago alpino che alla vista ti allarga il cuore.
Semplice e complesso, questo libro: narra una storia minima, di un figlio i cui genitori amano intensamente la montagna e di un'amicizia che su una montagna scandisce tutte le tappe della vita; i silenzi sono più intensi delle parole; gli sguardi si dirigono sugli stessi boschi, gli stessi pascoli, le stesse creste. Eppure in ogni pagina sembrano vibrare le grandi domande che frugano nel senso della vita.
C'è un padre e un figlio che trascorrono la notte in un rifugio e poi cercano di risalire un ghiacciaio; ci sono due bambini che appartengono a due mondi diversi - la città e la montagna, appunto - ma che nelle scorribande dell'estate si scoprono; c'è l'eredità di un rudere che potrà diventare un rifugio da tutto e da tutti; ci sono questi due amici che crescono e si trovano di fronte alle scelte che contano, alla prese entrambi con la loro solitudine, che sembra consentire solo la loro amicizia, in mezzo a tanta distanza.
Solitudini diverse, scelte diverse, ma l'amore per la montagna come denominatore comune. Più quella domanda che ho messo all'inizio e che richiama la ruota che è simbolo scoperto sulle cime del Nepal: otto raggi che corrispondono alle otto montagne, circondate da otto mari, e al centro il monte Sumeru. Chi avrà dato più senso alle vita? Pietro, il ragazzo di città, che si metterà in movimento per il mondo, senza alcuna radice, cercando altre montagne? Oppure Bruno, che dalla sua montagna non si distaccherà mai, anche quando lo esigerà lo stesso buon senso?
Magnifico romanzo, Otto montagne, compiuto e asciutto come un romanzo breve, eppure con il respiro lungo della grande storia. Con un italiano bello, ma aiutatemi a dire quanto, che lascia il sapore di ogni frase, sarà che Cognetti non cerca effetti speciali ma lingua precisa, sarà che c'è dietro la lezione dei grandi americani (Jack London? Ernest Hemingway?). Ma soprattutto con tanta montagna: non la montagna dei turisti usa e getta, degli sciatori della domenica, degli alpinisti a caccia dell'ennesimo trofeo, piuttosto la montagna di chi la abita - malgrado tutto -, di chi ci lavora, di chi la sente dentro.
Sono contento di aver cominciato il 2017 con questo libro, è un regalo che mi sono fatto. Me l'ero tenuto da parte, nonostante le buone recensioni che avevo già letto, per consegnarlo a questi giorni più rarefatti, dove anche il freddo e i vetri appannati e le feste che se ne vanno sembrano invitare al raccoglimento e alla parola che risuona dentro. Per una volta non mi sono sbagliato: Otto montagne di Paolo Cognetti (Einaudi) è come una passeggiata su una montagna di inverno, dove gli unici rumori sono i tonfi della neve dagli alberi; è come un lago alpino che alla vista ti allarga il cuore.
Semplice e complesso, questo libro: narra una storia minima, di un figlio i cui genitori amano intensamente la montagna e di un'amicizia che su una montagna scandisce tutte le tappe della vita; i silenzi sono più intensi delle parole; gli sguardi si dirigono sugli stessi boschi, gli stessi pascoli, le stesse creste. Eppure in ogni pagina sembrano vibrare le grandi domande che frugano nel senso della vita.
C'è un padre e un figlio che trascorrono la notte in un rifugio e poi cercano di risalire un ghiacciaio; ci sono due bambini che appartengono a due mondi diversi - la città e la montagna, appunto - ma che nelle scorribande dell'estate si scoprono; c'è l'eredità di un rudere che potrà diventare un rifugio da tutto e da tutti; ci sono questi due amici che crescono e si trovano di fronte alle scelte che contano, alla prese entrambi con la loro solitudine, che sembra consentire solo la loro amicizia, in mezzo a tanta distanza.
Solitudini diverse, scelte diverse, ma l'amore per la montagna come denominatore comune. Più quella domanda che ho messo all'inizio e che richiama la ruota che è simbolo scoperto sulle cime del Nepal: otto raggi che corrispondono alle otto montagne, circondate da otto mari, e al centro il monte Sumeru. Chi avrà dato più senso alle vita? Pietro, il ragazzo di città, che si metterà in movimento per il mondo, senza alcuna radice, cercando altre montagne? Oppure Bruno, che dalla sua montagna non si distaccherà mai, anche quando lo esigerà lo stesso buon senso?
Magnifico romanzo, Otto montagne, compiuto e asciutto come un romanzo breve, eppure con il respiro lungo della grande storia. Con un italiano bello, ma aiutatemi a dire quanto, che lascia il sapore di ogni frase, sarà che Cognetti non cerca effetti speciali ma lingua precisa, sarà che c'è dietro la lezione dei grandi americani (Jack London? Ernest Hemingway?). Ma soprattutto con tanta montagna: non la montagna dei turisti usa e getta, degli sciatori della domenica, degli alpinisti a caccia dell'ennesimo trofeo, piuttosto la montagna di chi la abita - malgrado tutto -, di chi ci lavora, di chi la sente dentro.
Che libro, La bellezza del mondo dello scrittore bretone Michel Le Bris (Fazi editore), un libro per viaggiare lontano e per perdersi, un libro che è un continente di carta e anche più, un libro che davvero riesce a trasmettere quel brivido che forse davvero può donare solo la bellezza del mondo.
Quella bellezza che dà il titolo a questa storia (molto) romanzata di due straordinari personaggi che hanno segnato l'immaginario americano del primo Novecento.
Lui, Martin Johnson, da ragazzo compagno d'avventure di Jack London, l'uomo che apre la strada ai grandi documentari sui viaggi e sulla natura (una storia che, per dire, arriva a National Geographic).
Lei, Osa, la ragazza venuta dalla provincia americana, quella delle torte di mele e delle feste del Ringraziamento, ma anche di un'epopea della Frontiera che non appartiene a un tempo troppo distante, Osa che a New York diventa una delle più acclamate femmes fatales, Osa che è seduzione e avventura e che nel 1933 ispirerà l'eroina del film King Kong.
E la loro è davvero la storia di una "bellezza" scoperta, attraversata, raccontata, la bellezza di un'Africa che in questi anni non è più solo la terra incognita, la terra oscura e selvaggia dei primi esploratori, che piuttosto sta diventando suggestione culturale, progetto buono anche per Hollywood, moda per un Occidente frastornato dalla Grande Guerra.
E allora non c'è solo il Kenia dei leoni e dei rinoceronti, c'è prima di tutto New York, la New York dei ruggenti Anni Venti, proibizionismo e jazz, gangster e donne decise a dare scandalo.
E poi le cose stavano mutando. L'Afica cominciava a essere alla moda. Non si parlava di uno stile jungle? Dieci anni prima nessuno immaginava che i negri di Harlem avrebbero conquistato Broadway. I tempi cambiavano.
Altre giungle, di luce e grattacieli. Altre distanze. Altri pericoli. Un anelito di libertà e bellezza che non cambia.