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giovedì 24 settembre 2015

Con Tex. Con Sandokan. E con tutti gli altri

Vorrei assistere davvero alla loro partenza. Vedere una nave che stacca gli ormeggi e abbandona quella nostalgia di pietra che è il molo, come diceva il grande Fernando Pessoa. Vorrei osservarli bene mentre dal ponte osservano tutti noi farsi più piccoli, interrogandosi su quanto si stanno lasciando indietro: forse altre persone che misteriosamente erano anche loro stessi, prima.

E già che ci sono vorrei che con loro ci fossero anche altri amici che mi hanno tenuto compagnia.
 

Magari Tex che in qualche modo ho sempre considerato l’altro fratellino di Sandokan, benché porti la stella dei rangers, non la lama del pirata. E perché no, anche Corto Maltese, il marinaio, l’avventuriero irrequieto di quell’altro sognatore praticante che è stato Hugo Pratt.
 

Per tutti loro mi rifarei di nuovo ragazzino orgoglioso di cantare a squarciagola la sigla di uno sceneggiato.

Scorre il sangue... nelle vene
Forte vento... nella notte calda si alzerà!
Sandokan! Sandokan!
Giallo il sole la forza mi dà
Sandokan! Sandokan!
dammi forza ogni giorno ogni notte il coraggio verrà...

E sarei davvero più forte, sarei più coraggioso. Riacciufferei quanto ho perso nel cammino.

Anche Emilio, ora. Emilio che scorgo mentre si gira verso Odoardo e gli sorride, una buona volta. E che si permette anche una frase lieve, che sa di amicizia. 


La prossima volta nei Caraibi? C’è un certo corsaro nero che merita di conoscere…
 

Li saluterò per l’ultima volta, libero da ogni rimpianto. Poi forse, girandomi per tornare a casa, mi tornerà in mente una di quelle vecchie illustrazioni, con Sandokan sul ponte della nave abbracciato a una giovane principessa malese.
 

E l’ aurora ci trovò sul ponte del praho, pallidi e commossi, recitava la didascalia.
 

A guardare per bene quel Sandokan superbo era proprio lui.
 

Era Emilio. Era Odoardo. Ero io.

(da Paolo Ciampi, I due viaggiatori, Mauro Pagliai editore)

domenica 15 giugno 2014

Come da piccolo, quando viaggiavo sui libri di avventura

Come da piccolo, quando una febbre vera, oppure dichiarata e generosamente riconosciuta, mi liberava dalla scuola. Non erano brutte giornate, quelle, però non filavano mai. Le ore erano un cargo appesantito che risale la corrente e chissà se e quando arriverà a destinazione.

Chiunque l'abbia detto aveva ragione: i decenni volano via, sono certi pomeriggi che non finiscono più.
E la televisione non era mica come ora, che a ogni momento c’è il cartone animato, il supereroe alle prese con i mali del mondo, la partita del campionato brasiliano. A parte L’isola dei Gabbiani e Avventura – da brividi la sigla, Joe Cocker con She came in through the bathroom window – tutto era di una noia mortale. Corsi di tedesco per principianti, lezioni sui principi della termodinamica, documentari sulle api o sul baco da seta, cose così insomma.

Meno male che c’erano i libri. Meno male che c’era Emilio Salgari.

Se il tempo passava e non passava, per farlo passare meglio avevo molti amici che si erano raccolti intorno a me per tenermi compagnia. Sandokan e quella simpatica canaglia di Yanez. Tremal-Naik e tutti i tigrotti di Mompracem. Il Corsaro Nero e la bella Jolanda.

Leggevo, in giornate così. Leggevo finché la testa faceva male, le righe ballavano sotto gli occhi, le pagine diventavano una macedonia di lettere. Se perdevo il segno era un problema ritrovarlo, perché la pagina girata si confondeva con quella ancora non letta. Tanto era un pezzo che la storia aveva abbandonato il libro.

Oppure no, ero io che avevo abbandonato quella stanza e già veleggiavo verso Maracaibo, sempre che non mi fossi perso tra i coccodrilli del delta del Gange.

A un certo punto il libro scivolava dalle ginocchia, le palpebre si abbassavano a saracinesca. Me ne andavo via, sul serio.
A volte mi portavo dietro una manciata di parole. A volte erano loro a inseguirmi, come un’eco. Parole tipo quelle del fratellino Yanez.

Noi non siamo uomini da condurre una vita tranquilla. Siamo invecchiati fra le urla di guerra dei malesi e dei dayachi ed il fumo delle artiglierie, e rimpiango sempre Mompracem.

Sapete, hanno continuato a risuonarmi anche molti anni più tardi, queste parole. Anche quando mi sono ormeggiato a una scrivania con computer e ho insediato la mia Tortuga in una bella casa di un quartiere residenziale. Noi non siamo uomini da condurre una vita tranquilla. Anche quando ho messo su pancetta e famiglia, quelle parole.

E come è vero, rimpiango sempre Mompracem.
La rimpiango e la cerco ancora sulla mappa dei miei sogni.

 (da Paolo Ciampi, I due viaggiatori, Mauro Pagliai edizioni)

venerdì 13 settembre 2013

Ma Sandokan sono i lettori, quello che i lettori vorrebbero essere.

E su questo ci potete giurare. Nei pigri pomeriggi d'estate in cui Emilio Salgari mi teneva compagnia io ero andato via da un pezzo, e da un pezzo ero approdato a Mompracem: ero Sandokan, o forse ero Yanez, dipende.

Ma se Sandokan è il suo lettore, questo è vero anche per chi Sandokan ce l'ha portato in dono.

Si scrive per vivere molte vite.

Così dice il capitano Salgari nel bellissimo Disegnare il vento di Ernesto Ferrero, racconto di vita, narrazione a più voci, degli ultimi anni di uno scrittore che si inventò molte vite e se ne spogliò, fino a rubarsi anche l'ultima che gli rimaneva.

Un giorno lo trovarono con il ventre squarciato su una collina appena fuori Torino. Una sorta di harakiri borghese, roba davvero da romanzo. Samurai in trasferta dai territori dell'immaginazione.

Aveva vissuto molte vite, aveva viaggiato molti paesi, aveva affrontato avventure di ogni genere. Così diceva, così scriveva.

La sua vita erano i suoi sogni, le sue letture. Un mondo di carta. La sua vita è ancora oggi quella di carta.

Me la tengo stretta.

sabato 16 marzo 2013

Se la prossima volta sarà nei Caraibi

Vorrei assistere davvero alla loro partenza. Vedere una nave che stacca gli ormeggi e abbandona quella nostalgia di pietra che è il molo, come diceva il grande Fernando Pessoa. Vorrei osservarli bene mentre dal ponte osservano tutti noi farsi più piccoli, interrogandosi su quanto si stanno lasciando indietro: forse altre persone che misteriosamente erano anche loro stessi, prima.
 

E già che ci sono vorrei che con loro ci fossero anche altri amici che mi hanno tenuto compagnia.
 

Magari Tex che in qualche modo ho sempre considerato l’altro fratellino di Sandokan, benché porti la stella dei rangers, non la lama del pirata. E perché no, anche Corto Maltese, il marinaio, l’avventuriero irrequieto di quell’altro sognatore praticante che è stato Hugo Pratt.
 

Per tutti loro mi rifarei di nuovo ragazzino orgoglioso di cantare a squarciagola la sigla di uno sceneggiato. 
Scorre il sangue... nelle vene
Forte vento... nella notte calda si alzerà!
Sandokan! Sandokan!
Giallo il sole la forza mi dà
Sandokan! Sandokan!
dammi forza ogni giorno ogni notte il coraggio verrà...

 

E sarei davvero più forte, sarei più coraggioso. Riacciufferei quanto ho perso nel cammino.

Anche Emilio, ora. Emilio che scorgo mentre si gira verso Odoardo e gli sorride, una buona volta. E che si permette anche una frase lieve, che sa di amicizia. 


La prossima volta nei Caraibi? C’è un certo corsaro nero che merita di conoscere…
 

Li saluterò per l’ultima volta, libero da ogni rimpianto. Poi forse, girandomi per tornare a casa, mi tornerà in mente una di quelle vecchie illustrazioni, con Sandokan sul ponte della nave abbracciato a una giovane principessa malese.
 

E l’ aurora ci trovò sul ponte del praho, pallidi e commossi, recitava la didascalia.
 

A guardare per bene quel Sandokan superbo era proprio lui.
 

Era Emilio. Era Odoardo. Ero io. 

(da Paolo Ciampi, I due viaggiatori, Mauro Pagliai editore)

sabato 26 maggio 2012

Ci sarà Mompracem, tenendomi stretto le parole

Ritorno spesso a Mompracem, quando posso, quando voglio.

Ogni volta che mi dicono che non c’è, che non è mai esistita, mi piacerebbe avere tra le mani qualche vecchia mappa del Mar Cinese. Mompracem c’era, al largo della costa occidentale del Borneo, anche se per qualcuno era  Mon Pracem, o piuttosto Monpiacem. Ancora gli atlanti della prima metà dell’Ottocento la riportavano. Poi scomparve, ma si sa, queste cose succedono.


Per me c’è ancora, c’è almeno da quella notte di tempesta del 20 dicembre 1849, con cui Emilio per la prima volta mi prese per mano e mi portò dentro la storia di Sandokan e di Yanez, di James Brooke e di Marianna.


Quando sento che si avvicina una tempesta di incredulità, quando i venti dell’età troppo adulta cominciano a spazzare la tolda della mia nave, quando ancora il cielo è spezzato dai fulmini del più crudo realismo, Mompracem mi aspetta.


A volte mi capita anche di appellarmi a un’altra isola che non c’è, quella di Peter Pan. E mi sorprendo a canticchiare, stonato come sono, la canzone di Edoardo Bennato: seconda stella a destra, questo è il cammino, e poi dritto fino al mattino, non ti puoi sbagliare perché quella è l’isola che non c’è...  ma questo per dire, perché quella che conta per me è solo Mompracem.


Le cose ora ci sono e ora no. O prima non ci sono e poi sì. Cosa che anche Odoardo sa bene, lui che una volta scavalcò una catena di monti e fu il primo a imbattersi in un fiume più grande del Tevere e del Tamigi, solo che vicino al mare si imbucava per gettarsi in una cascata tra le rocce.


Io so perfino che Mompracem c’è e ci sarà finché mi terrò stretto le parole.

(Da Paolo Ciampi, I due viaggiatori, Mauro Pagliai editore)

venerdì 29 luglio 2011

Il capitano che sapeva disegnare il vento

Ma Sandokan sono i lettori, quello che i lettori vorrebbero essere

E su questo ci potete giurare. Nei pigri pomeriggi d'estate in cui Emilio Salgari mi teneva compagnia io ero andato via da un pezzo, e da un pezzo ero approdato a Mompracem: ero Sandokan, o forse ero Yanez, dipende.

Ma se Sandokan è il suo lettore, questo è vero anche per chi Sandokan ce l'ha portato in dono.

Si scrive per vivere molte vite

Così dice il capitano Salgari nel bellissimo Disegnare il vento di Ernesto Ferrari, racconto di vita, narrazione a più voci, degli ultimi anni di uno scrittore che si inventò molte vite e se ne spogliò per regalarsene, fino a rubarsi anche l'ultima che le rimaneva.

Un giorno lo trovarono con il ventre squarciato su una collina appena fuori Torino. Una sorta di harakiri borghese, roba davvero da romanzo. Samurai in trasferta dai territori dell'immaginazione.

Aveva vissuto molte vite, aveva viaggiato molti paesi, aveva affrontato avventure di ogni genere. Così diceva, così scriveva.

La sua vita erano i suoi sogni, le sue letture. Un mondo di carta. La sua vita è ancora oggi quella carta.

Me la tengo stretta.

lunedì 18 luglio 2011

Se il Corsaro Nero è la possibilità di ricominciare

Corsaro Nero o Sandokan? Personalmente non ho mai avuto dubbi, tra i due grandi personaggi di Emilio Salgari:  il Corsaro Nero. Lui e il mare dei Caraibi, con  i galeoni e i filibustieri. L'isola della Tortuga per ripararsi e una Maracaibo da espugnare sempre nella testa. Ma soprattutto lui, il Corsaro Nero, il nobile diventato corsaro, l'eroe pallido e malinconico, l'uomo perseguitato dai suoi fantasmi, dilaniato tra l'onore e l'amore, divorato da una febbre di vendetta che ha per bersaglio più se stesso che il nemico dichiarato.

La sua dannazione: innamorarsi della figlia dell'uomo che si vuole morto. Abbandonare quella donna, annegare nel senso di colpa, infine ritrovarla.

Devo a Felice Pozzo (Il Corsaro Nero, Franco Angeli, coautori Pino Boero e Walter Fochesato), grande studioso del grande Emilio, la possibilità di ritornare allo straordinario epilogo di tutta questa storia, che non è solo di cappa e spada.

Una notte dei tropici, la luna che proietta raggi azzurri, l'aria tiepida e profumata.

Lui la prende per mano dicendo  'Bisogna che veda il mare'  poi le cinge la vita e si incamminano.

Pensare che per il Corsaro Nero il mare finora è stata la tomba dei fratelli per cui ha giurato vendetta. Luccica quel mare, come se riflettesse le anime dei morti ammazzati.

Il giorno dopo i compagni del Corsaro troveranno sulla sabbia la spada del Corsaro. A riva manca una scialuppa.

Se ne sono andati, in silenzio. Il mare non è più vendetta, è libertà. Possibilità di ricominciare.

sabato 9 aprile 2011

Possibile che dietro Sandokan ci fosse Garibaldi?

I libri di Felice Pozzo sono sempre così, una miniera di intuizioni, curiosità, corrispondenze e fascinazioni, dieta abbondante e irrinunciabile per ogni appassionato di Emilio Salgari e dintorni. E con il libro che sto leggendo in questi giorni, Nella giungla di carta,  mi è anche capitato di saltare sulla sedia.

Vi spiego: è che a un certo punto ho trovato citata anche Jessie White Mario, la mia Miss Uragano, la donna che spese la sua vita al fianco di Mazzini e Garibaldi.

Dice Felice Pozzo, a proposito di Emilio Salgari:

E' poi probabile che abbia letto, tra l'altro, "La vita di Garibaldi" (1882) di Jessie White Mario, rintracciandovi quegli episodi e quelle descrizioni che, con evdienza, sono poi confluite nella costruzione del personaggio Sandokan

Sapete, con i libri funziona così. Sembra che non ci sia alcun ordine nell'oceano dei titoli, delle edizioni, se non quello che, in modo comunque arbitrario, possono tentare i pedanti di turno. E invece un ordine c'è, nel disordine delle assonanze, dei rimandi, degli accostamenti. E' l'ordine che date voi con il vostro cuore, la vostra curiosità di lettori, marinai di carta che decidono la rotta.

E dunque, uno pensa al Risorgimento e trova la Malesia. Sogna Sandokan e trova Garibaldi.

Sentite ancora Felice Pozzo:

Che la Tigre della Malesia sia un po' Garibaldi, è nozione acquisita. Tanto acquisita che si è paragonato il suo compagno di avventure, Yanez, a Nino Bixio; sua moglie Marianna, la Perla di Labuan, ad Anita; la sua isola, Mompracem, a Caprera. E così via.

Accostamenti leciti, spiega il nostro, purché non si esageri a voler vedere anche quello che non c'è:

Non si tratta che di un richiamo ineffabile, allusivo, capace tuttavia di trasmettere sotterranee pulsioni

Che poi è quello che basta e avanza a uno come me, che leggendo di Garibaldi a volte si è confuso, e parecchio, smarrendosi tra la storia e l'avventura.

lunedì 14 marzo 2011

Lo scrittore che beveva per ricordare l'Italia da fare

Luciano Bianciardi, quello scrittore insofferente e anarchico? Che cosa aveva a che fare lui con il Risorgimento?

Questa, in effetti, è la prima cosa che verrebbe da chiedersi, non fosse che poi si sa, si sa che Luciano Bianciardi ha scritto più di un libro dedicato a Giuseppe Garibaldi e agli altri che costruirono l'Italia. Solo che una cosa è ricordare date e titoli, un'altra cercare di capire perché.

Ci ha provato Marco Cicala, con un bellissimo articolo sul Venerdì di Repubblica, dove dice, tra l'altro, dell'autore della Vita agra:

Aveva compresso i chilotoni d'una toscanissima e libertaria incazzatura contro i 'mala tempora', nella condizione del provinciale inurbato, dell'intellettuale burocratizzato, proletarizzato dentro i dispositivi dell'industria culturale; oscuro traduttore a cottimo per Feltrinelli, in una macilenta bohème milanese che lo vide disadattato, guascone, ramengo, succube e fegatoso. Beveva moltissimo - ma per ricordare. Cosa? L'infanzia. Sua e del Paese. Un posto di cui amava le minoranze, gli emarginati storici, i rimossi culturali, i contadini, i minatori, i bambini e gli animali

C'è tutto Bianciardi in queste parole. Il Bianciardi rimasto fedele alle letture adolescenziali di Emilio Salgari, che in Garibaldi intravedeva una sorta di Sandokan nostrano. Il Bianciardi convinto che l'Italia andava amata per quello che avrebbe potuto essere, non fosse stata troppe volte tradita.

Il Bianciardi che magari si portava anche questo rimpianto, tra i molti altri, quello di non esser vissuto ai tempi dei Mille, così da vivere anche lui l'epopea di quell'esercito straccione, il più colto che la storia ricordi, con i suoi avvocati, medici, giornalisti, strampalati spacciatori di sogni.


martedì 25 gennaio 2011

Con Sandokan non si diventa veline o cortigiani

Che belle le parole che Ernesto Ferrero dedica al mio Emilio Salgari sull'ultima Domenica di Repubblica, in vista del centenario dedicato a uno scrittore che, ignorato dalla scuola, trattato da tutti come un peccato di gioventù, in realtà ha lasciato a generazioni di italiani un imprinting indelebile. Che poi è quello che Ferrero definisce il big bang di un'emozione che verrà ricordata nell'età adulta con commossa gratitudine da scrittori come Pavese, Parise, Pontiggia, Citati, Eco, Magris....

Parole importanti soprattutto perché fanno emergere il profondo legame che unisce Sandokan alla nostra Italietta a cavallo tra Otto e Novecento (solo di quell'epoca?):

Un Paese povero, immobile, depresso e represso, che fatica a tirare avanti, con lui poteva liberare fantasie archetipiche in cui le gioie dell'esotismo si accompagnano al sogno di quello che ognuno vorrebbe essere. Il piccolo giornalista veronese, improvvisatosi narratore d'appendice per uscire da un destino mediocre, ha regalato ai lettori d'ogni età (donne incluse) il destino epico che avrebbe voluto per se stesso

Anch'io sono tra coloro che sulle pagine del grande Emilio ha accarezzato il sogno di quello che ognuno vorrebbe essere. Almeno, appartengo a una generazione che i sogni li cercava ancora tra quelle pagine.

Sono anche contento, di appartenere a quella generazione: che grazie a Sandokan e al Corsaro Nero imparò a non sognarsi velina o cortigiano.

mercoledì 12 gennaio 2011

Con Emilio Salgari, la fantasia che non mente

 Si diceva capitano di lungo corso e non aveva mai viaggiato. Mentiva Emilio Salgari? O semplicemente volava con le sue parole? E quelle parole in libertà alla fine sono diventate una prigione? In I due viaggiatori provo a rispondere così.

Proprio così. Di questo sono convinto. Emilio non mente, Emilio lascia la parola alla sua fantasia.
Il problema è che la fantasia agisce come una droga, che regala un senso di onnipotenza e poi svuota di tutto. Fa toccare il cielo con un dito ma nel frattempo taglia la luce.
Fosse solo difendere con la sciabola l’onore. È che obbliga i familiari, e persino la donna di servizio, a tirare di scherma; è che si adagia sul letto dopo aver cosparso profumi sulle lenzuola per farle odorare di tropici; è che si firma Selvaggio Malese nelle lettere indirizzate alla fidanzata Ida, da lui ribattezzata Aida, come la verdiana figlia del re etiope.
Papà vive sempre con i marajà, diranno i suoi bambini.
Sul retro di un foglietto dove ci sono disegni e appunti per la trama delle Tigri di Mompracem, ha scritto: Avevo 23 anni quando caddi prigioniero del pirata Sandokan. E ancora: Io sono schiavo e compagno di Sandokan.
Si è inventato come personaggio dei suoi stessi romanzi. Lo scorridore, l’avventuriero, il pioniere, il condottiero. Il gioco può anche valere la candela.
Dice ancora Silvino Gonzato: Non è che sia un bugiardo, sembra di un altro mondo.
Sottoscrivo. E sì, il gioco può valere, finché il mondo non presenta il conto. Finché le parole sono passaporto e non prigione.

domenica 19 dicembre 2010

Sandokan e il coraggio di legarsi alla sedia

Com'è che si viaggia davvero? E quanto si va lontano con la fantasia e con i sogni? Il centenario di Emilio Salgari sarà una bella occasione per chiacchierare intorno a temi come questi - che poi sono anche i temi del mio I due viaggiatori....,  ma intanto in vista dell'anniversario si annunciano le prime uscite editoriali.

Qualche giorno fa Ernesto Ferrero - lo stesso autore di N. - ha annunciato la prossima uscita per Einaudi del suo Disegnare il vento, un libro che mi sembra di capire sarà a metà tra il romanzo e la biografia del grande Emilio, capitano di lungo corso mancato. Dal suo intervento pesco queste sue parole, bellissime, sul coraggio della fantasia e della scrittura.

Oggi la nostra fantasia è tutta appiattita su immagini patinate e virtuali che lasciano poco all'invenzione. Il grande artigiano ci insegna che si possono costruire interi mondi sui libri e con i libri, senza muoversi di casa; che il coraggio più grande non è quello un po' sventato di Sandokan ma quello di Vittorio Alfieri che si fa legare alla sedia, che si impone regole e misure, progetti da sviluppare con dedizione rigorosa. Si può fare tante con poco, ancora e sempre

mercoledì 8 dicembre 2010

Quando viaggiavo in compagnia di Emilio Salgari

Ecco, così inizia I due viaggiatori (Mauro Pagliai editore), parole per sognare con il grande Emilio.


Come da piccolo, quando una febbre vera, oppure dichiarata e generosamente riconosciuta, mi liberava dalla scuola. Non erano brutte giornate, quelle, però non filavano mai. Le ore erano un cargo appesantito che risale la corrente e chissà se e quando arriverà a destinazione.

Chiunque l'abbia detto aveva ragione: i decenni volano via, sono certi pomeriggi che non finiscono più.
E la televisione non era mica come ora, che a ogni momento c’è il cartone animato, il supereroe alle prese con i mali del mondo, la partita del campionato brasiliano. A parte L’isola dei Gabbiani e Avventura – da brividi la sigla, Joe Cocker con She came in through the bathroom window – tutto era di una noia mortale. Corsi di tedesco per principianti, lezioni sui principi della termodinamica, documentari sulle api o sul baco da seta, cose così insomma.
Meno male che c’erano i libri. Meno male che c’era Emilio Salgari.

Se il tempo passava e non passava, per farlo passare meglio avevo molti amici che si erano raccolti intorno a me per tenermi compagnia. Sandokan e quella simpatica canaglia di Yanez. Tremal-Naik e tutti i tigrotti di Mompracem. Il Corsaro Nero e la bella Jolanda.

Leggevo, in giornate così. Leggevo finché la testa faceva male, le righe ballavano sotto gli occhi, le pagine diventavano una macedonia di lettere. Se perdevo il segno era un problema ritrovarlo, perché la pagina girata si confondeva con quella ancora non letta. Tanto era un pezzo che la storia aveva abbandonato il libro.
Oppure no, ero io che avevo abbandonato quella stanza e già veleggiavo verso Maracaibo, sempre che non mi fossi perso tra i coccodrilli del delta del Gange.

A un certo punto il libro scivolava dalle ginocchia, le palpebre si abbassavano a saracinesca. Me ne andavo via, sul serio.
A volte mi portavo dietro una manciata di parole. A volte erano loro a inseguirmi, come un’eco. Parole tipo quelle del fratellino Yanez.

Noi non siamo uomini da condurre una vita tranquilla. Siamo invecchiati fra le urla di guerra dei malesi e dei dayachi ed il fumo delle artiglierie, e rimpiango sempre Mompracem.

Sapete, hanno continuato a risuonarmi anche molti anni più tardi, queste parole. Anche quando mi sono ormeggiato a una scrivania con computer e ho insediato la mia Tortuga in una bella casa di un quartiere residenziale. Noi non siamo uomini da condurre una vita tranquilla. Anche quando ho messo su pancetta e famiglia, quelle parole.

E come è vero, rimpiango sempre Mompracem.
La rimpiango e la cerco ancora sulla mappa dei miei sogni.

venerdì 23 ottobre 2009

Emilio Salgari per compagno di viaggio


In questi giorni in giro con Tito Barbini per presentare Caduti dal Muro capita spesso di parlare di viaggi veri e viaggiatori immaginari, di persone che macinano chilometri e di persone che macinano sogni con le loro letture (è successo anche ieri sera, alla Libreria Marzocco, con gli amici di Avventure nel mondo). Ed è un tema che mi ha sempre fatto pensare molto.

Pascal affermava: “La sventura del mondo viene perché gli uomini non riescono a rimanere ventiquattr’ore nella stessa stanza”,
Robert Louis Stevenson, quello dell’Isola del tesoro,invece sosteneva: “Non c’è miglior materia per i sogni che una mappa” .

Quando mi tornano in mente frasi come queste ripenso a questo signore che vedete nella foto qui sopra: un signore che mi ha fatto viaggiare per il mondo come se avessi valanghe di biglietti aerei regalati e giorni liberi infiniti.

Ripenso a questo signore che si faceva chiamare capitano di lungo corso, che raccontava a tutti di mirabolanti imprese e spedizioni ai quattro angoli del pianeta, che girava in bicicletta per la sua città con in testa un turbante da maharajà e che la domenica gli piaceva portare i figli in scampagnate fuori porta dove poteva inventarsi gigantesche cacce alla tigre.

So che questo signore da ragazzo si ritrovò al Lido di Venezia, in lacrime perché era stato respinto all’esame che gli avrebbe dovuto dare la licenza nautica e un futuro marinaro. Se ne stette ore a guardare il mare che non avrebbe più potuto solcare come un capitano.

Da allora questo signore gettò l’ancora nelle biblioteche di mezza Italia e cominciò a navigare sui libri, macinando di tutto, guide, atlanti, mappe, resoconti di viaggio, bollettini, lettere di esploratori.

Così cominciò a viaggiare e divenne un formidabile viaggiatore sulla carta.
Poi cominciò a scrivere. E in questo modo mi ha regalato Sandokan e i tigrotti della Malesia, ma soprattutto mi ha regalato Mompracem, un’isola per me nella vastità dei mari.

Questo signore, che anche per suicidarsi non scelse un colpo di rivoltella ma fece harakiri come un samurai, si chiama Emilio Salgari. E quando ripenso a lui mi rivedo ragazzino a girare per il mondo solo con le sue pagine e la mia fantasia. Sono contento di aver parlato di lui in un mio libro, Gli occhi di Salgari. Di lui e del suo modo di viaggiare con la fantasia.

Confucio diceva che il modo migliore per conoscere il mondo è quello di non uscire mai dalla propria casa. E forse questo è troppo.
Però in effetti si può viaggiare in molti modi. E viaggiare con la fantasia, solo con la fantasia, non è certo il peggiore.

lunedì 24 agosto 2009

Emilio Salgari e le biblioteche come mari



Sarà perchè in questi giorni mi viene spesso di ricordarmi di quando ero ragazzino e mi sognavo pirata ed esploratore. Sarà perchè in fondo mi sono sentito sempre un viaggatore di carta... ma è un periodo che penso molto a Emilio Salgari. Al "mio" Emilio Salgari, capitano di lungo corso mancato.

Pascal affermava:
“La sventura del mondo viene perché gli uomini non riescono a rimanere ventiquattr’ore nella stessa stanza”
E Robert Louis Stevenson, quello dell’Isola del tesoro, che invece viaggiando si è spinto fino ai mari del Sud:
“Non c’è miglior materia per i sogni che una mappa” .

Quando mi tornano in mente frasi come queste ripenso a come Emilio Salgari mi ha fatto viaggiare per il mondo, nemmeno avessi valanghe di biglietti aerei regalati e giorni liberi infiniti.

Salgari si faceva chiamare capitano di lungo corso, raccontava a tutti di mirabolanti imprese e spedizioni ai quattro angoli del pianeta, girava in bicicletta per la sua città con in testa un turbante da maharajà. La domenica gli piaceva portare i figli in scampagnate fuori porta dove poteva inventarsi gigantesche cacce alla tigre.

So che da ragazzo si ritrovò al Lido di Venezia, in lacrime perché era stato respinto all’esame che gli avrebbe dovuto dare la licenza nautica e un futuro marinaro. Se ne stette ore a guardare il mare che non avrebbe più potuto solcare come un capitano.

Da allora gettò l’ancora nelle biblioteche di mezza Italia e cominciò a navigare sui libri, macinando di tutto, guide, atlanti, mappe, resoconti di viaggio, bollettini, lettere di esploratori.

Così cominciò a viaggiare e divenne un formidabile viaggiatore sulla carta.
Poi cominciò a scrivere. E in questo modo mi ha regalato Sandokan e i tigrotti della Malesia, ma soprattutto mi ha regalato Mompracem, un’isola per me nella vastità dei mari.

Emilio Salgari anche per suicidarsi non scelse un colpo di rivoltella ma fece harakiri come un samurai. Quando ripenso a lui mi rivedo ragazzino a girare per il mondo solo con le sue pagine e la mia fantasia.

Confucio sosteneva che il modo migliore per conoscere il mondo è quello di non uscire mai dalla propria casa. E forse questo è troppo.

Però in effetti si può viaggiare in molti modi. E viaggiare con la fantasia, solo con la fantasia, non è certo il peggiore.

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