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martedì 2 ottobre 2018

Incontrare la Natura come si fa con una vecchia amica

La Natura insegna più di quanto predichi.

Ecco, sono frasi così, che balzano incontro dalla pagina come luci nella notte, a rendere prezioso questo piccolo libro: Il vangelo della natura di John Burroughs. Titolo e autore che presumibilmente vi diranno assai poco. Al sottoscritto nulla, fino a pochi giorni fa. E per questa scoperta bisogna rendere merito alla casa editrice La vita felice e a Luca Castelletti, che con passione e competenza ha tradotto e curato questo testo per il lettore italiano.

John Burroughs è uno degli svariati americani che, nell'Ottocento delle metropoli, delle industrie, delle ferrovie, si sono come messi a lato, cercando altre possibilità nella wilderness del continente. Mi vengono in mente gente come John Muir o come George Perkins Marsh - su quest'ultimo tra l'altro a breve uscirò io con un libro - oppure, su tutti, l'immenso Henry David Thoreau. Gente che ha seminato i primi dubbi sulla bontà del progresso, che ha invocato un'altra vita e che almeno in parte quella vita è risucita anche a farla. 

E tra loro, appunto, John Burroughs, uomo che non si è mai scordato la giovinezza trascorsa nella fattoria di famiglia sui Monti Catskill, benchè il suo destino sia stato di lavgorare in banca. Amico di Walt Whitman, è stato punto di riferimento per altri grandi americani come Thomas Edison. E così scrisse il presidente Theodore Roosevelt, in una lettera a lui indirizzata:

 Ogni amante della vita all'aria aperta dovrebbe provare un senso di affettuoso debito nei tuoi confronti.... Per tutti noi è un bene che tu abbia vissuto.

In queste pagine c'è il senso della sua lezione di vita. A dispetto della sua noncuranza per le sorti umane, ci spiega Burroughs, nella natura possiamo ritrovarci, ritemprarci, ricominciare. Immergerci in essa è come seguire la parola di un vangelo che non ha bisogno di dogmi e liturgie, ma solo di  semplicità, umiltà, gratitudine.

Dà forza e sollievo, la natura. Diventa più sano e appagato l'uomo che erra per campi e boschi. Basta non avvicinarsi con il fare dello studioso, binocolo e taccuino alla mano, che voglia sviscerarne i segreti. Piuttosto bisogna desiderare di incontrarla come si fa con una vecchia amica. 

Abbiamo camminato insieme o ci siamo seduti l'uno accanto all'altra e la nostra intimità accresce con lo scorrere delle stagioni.


Così dice John Burroughs e e vorre poter affermare lo stesso di me.

mercoledì 27 dicembre 2017

Rigoni Stern e gli alberi che sono saggezza

Chi conosce la scienza, diceva Anton Cechov, sente che un pezzo di musica e un albero hanno qualcosa in comune. Non credo di conoscere la scienza, così come in effetti non sono un grande esperto né di musica né di alberi. Però anch'io ho questa convinzione, o forse sarebbe meglio dire questo sentimento: che abbiano davvero qualcosa in comune, qualcosa che ha a che vedere con la forza della vita e con la sua segreta armonia.

Questa citazione la usa nell'introduzione di Arboreto Salvatico (Einaudi) uno scrittore che andrebbe letto da capo a fondo e non solo per Il sergente della neve. Mario Rigoni Stern - chi ancora non lo coosce provi con queste pagine - è anche l'uomo legato alla sua terra, ai lavori e alle stagioni, alla bellezza della natura che a volte le parole riescono a esprimere. La sua apparente semplicità è come il secchio che tira su acqua da un pozzo profondo. Le sue storie di vita e morte offrono una sorprendente saggezza, di cui abbiamo bisogno come l'aria.

Come in questo libriccino di poche pagine e forti emozioni, dove proprio bellezza, semplicità e saggezza  si intrecciano.  Pensare che è soltanto un arboreto su carta, la descrizione dei caratteri di venti alberi a cui Rigoni Stern è particolarmente legato. Quasi tutti sono alberi che ha intorno a casa, sul suo altipiano di Asiago. Molti li ha piantati lui stesso, magari insieme al figlio.

E vorrei soffermarmi proprio su questo, su quanto esprime un gesto come questo, piantare un albero: sembra un fatto banale, eppure quale concentrato di bellezza, semplicità e saggezza - appunto - sa custodire. Arboreto salvatico non è da meno de L'uomo che paintava gli alberi nel rivelarcelo.

Li metti a terra, gli alberi, che sono solo fragili piantine, più basse di te, di incerta sopravvivenza. Poi crescono di anno in anno, allungano le radic ie  le fronde, cominciano a fare ombra e a porgere i loro frutti. Tu intanto invecchi, diventi meno agile e più facile a stancarti. Ogni giorno sei più vicino alla morte ma intanto i tuoi sguardi, ogn mattino, accarezzano gli alberi: rimarranno anche dopo di te, sono il tuo regalo ai figli, ai nipoti, alla vita.

Voler bene agli alberi, ci dice Rigoni Stern, è voler bene a ciò che è più grande, che dura di più. Fino a riscoprire un qualcosa che ha che vedere con il sacro - e che davvero è inesprimibile.

Con il popolo degli alberi i nostri antenati avevano un rapporto più diretto ma anche più conoscitivo e rispettoso in forza di religione e per sensibilità. Quando gli uomini vivevano dentro la natura, gli alberi erano un tramite di comunicazione della terra con il cielo e del cielo con la terra.

 Queste pagine aiutano a ristabile questa comunicazione. E attenzione anche al titolo: salvatico, non è sono aggettivo che in altri secoli si adoperava per selvatico. Con la a al posto della e tutto cambia. Il salvatico diventa salvifico. Si fa saggezza l'albero, per condurci alla salvezza.



venerdì 28 aprile 2017

La cura del mondo è cura di ogni silenzio

Il sole che ciascuno ha dentro non segue moti propri, se esso risplenda dipende anche da noi, anzi, dipende soprattutto da noi, dal modo in cui decidiamo di alimentarlo.

Pensare che il titolo di questo libro, altra perla di Ediciclo, è Il sole che nessuno vede. Non il sole dentro. Ma fin dall'inizio Tiziano Fratus, cercatore di alberi, uomo che nella natura e nella meditazione che a essa si intreccia ha trovato la sua dimensione, ci indica la strada: il sole di cui parla, non si vede, ma è dentro, c'è e sta noi trovarlo e curarlo.

Ecco qui, con buona pace di chi ritiene che meditare sia sottrarsi a se stessi, che inoltrarsi nel bosco sia un modo elegante di fuggire.

Così più ancora che altre volte mi sono tuffato nelle pagine di Tiziano, con la voglia di spremere tanti buoni consigli da una persona che ha cuore ed esperienza. Quante cose mi posso tenere strette ora, alla fine di questa lettura.

Con Tiziano ci ritroviamo dentro un bosco, soli con il nostro respiro, con i nostri pensieri. Soli, ma circondati dal mistero della vita. Ascoltiamo i nostri passi, ascoltiamo noi stessi. Una volpe si dilegua ai margine di un sentiero dietro gli alberi. Il nostro cammino scuote l'immobilità della scena. Lucertole scappano, anatre prendono il largo oltre i giunchi. Ma sta anche noi fermarsi e farsi albero, sasso, prato.

La cura del mondo è la cura di ogni silenzio, ci dice Tiziano. Vale anche per la cura di noi stessi. Ma quanti di noi hanno davvero provato a diradare ciò che non è essenziale, ad abbandonarsi al tempo, a scrutarsi nel riflesso di un torrente.

In questo cammino anche le parole contano fino a un certo punto, anzi molte possiamo lasciarle cadere come foglie in autunno. Troverai più nei boschi che nei libri, diceva anche Bernardo da Chiaravalle. Ma sono buone, sono utili, queste parole di Tiziano; momenti, luoghi, libri che ci possono riportare a noi stessi.

Non è un viaggio lontano. E' il più vicino, anche se magari per arrivare a destinazione è bene passare anche per un bosco. Il più vicino, ma ha ragione il grande Robert Frost:

La felicità ripaga in profondità quel che le manca in lunghezza. 

lunedì 5 gennaio 2015

Il selvaggio che ci restituisce a noi stessi

Vivo a Cambridge, con qualche pausa, da una decina d'anni e presumo che continuerò a farlo negli anni futuri. E finché ci vivrò sono anche certo che sentirò l'urgenza di recarmi nei luoghi selvaggi.

Sostituisco Firenze a Cambridge, ed ecco, sento come mie queste parole, che compaiono quasi all'inizio dello splendido Luoghi selvaggi di Robert Macfarlane (Einaudi), libro che credo possa soddisfare l'immaginario di ogni uomo di città che, pur rimanendo intimamente e irrimediabilmente cittadino, sa che potrà ritrovare se stesso solo nella tensione verso ciò che non è città. Meglio, verso ciò che si attesta agli antipodi della città in quanto aspirazione ai luoghi più incontaminati, non segnati dalla presenza dell'uomo.

Mica semplice. Perché è vero ciò che afferma Robert Macfarlane:

Chiunque abiti in una città avrà ben presente quella sensazione di esserci stato per troppo tempo.... 

Però dove trovare il luogo selvaggio nel nostro mondo che anche dove non è stato inquinato e cementificato è stato comunque addomesticato? Che sia la campagna inglese come quella toscana....

E invece sì, è possibile. Almeno è possibile crederci, con la forza di queste pagine che raccontano lunghi e sorprendenti vagabondaggi tra isole e vette, brughiere e foreste.

Giusto per scoprire che si possono disegnare altre mappe, dove ciò che è messo in evidenza non siano i centri abitati e le strade - e perché poi dovremmo pensare che sia questa l'unica lettura di un territorio? Giusto per restituirci quel senso di lontananza che le automobili e i treni, per non dire degli aerei, hanno soppresso.

Per capire che anche nel paese più curato e civile il selvaggio può rispuntare a sorpresa - anche a un chilometro dalla casa dove abbiamo sempre abitato - e restituirci di nuovo a noi stessi. 

sabato 3 gennaio 2015

Scoprendo luoghi selvaggi a un chilometro da casa


Immaginai il vento che passava per tutti quei luoghi e per molti altri simili: luoghi separati da strade e edifici, da recinzioni e centri commerciali, da città e strade illuminate, ma selvaggiamente uniti, attraverso lo spazio, dal vento che soffiava in quell'istante.

Ci siamo frantumati in mille pezzi, pensai, ma la natura selvaggia può ancora restituirci a noi stessi.

Guardai di nuovo il paesaggio ai miei piedi: le strade, la ferrovia, la torre dell'inceneritore e le macchie di bosco - Mag's Hill Wood, Nine Wells Wood, Wormwood. Sparse sulla terra, erano tutte in fermento.

La natura selvatica dimorava anche qui, a poco più di un chilometro dalla città in cui vivevo.

Assediata da strade e edifici, minacciata in gran parte dei suoi rifugi, agonizzante in alcuni. 

Ma in quel momento la terra sembrava riecheggiare di una luce selvaggia.

(Robert MacFarlane, Luoghi selvaggi, Einaudi)

sabato 16 luglio 2011

L'uomo che piantava gli alberi e il nostro futuro

In una terra desolata, quasi senza più vita, solo un pastore solitario e taciturno costruisce una possibilità di futuro. Ogni giorno pianta centinaia, migliaia di alberi. Da molti di essi non nascerà niente. Ma dagli altri, da quelli che ce la faranno, verranno fuori boschi e boschi. Alberi che restituiranno la vita alla montagna e alla comunità che la abita.

Tutto qui? Sì, tutto qui, perchè ci sono imprese che non hanno bisogno di eserciti e di voti popolari, ci sono imprese che si alimentano di silenzio, di gesti umili, di fatica che può essere ripagata solo dallo stare bene con se stessi e a volte da uno sguardo di sorpresa e gratitudine.

Conosco poco Jean Giono, scrittore provenzale a cui probabilmente solo il cinema ha donato la notorietà con l'Ussaro sul tetto. Chissà perché lo facevo anche scrittori di altri tempi, ben insediato in un Ottocento velato di nostalgie, piuttosto che un Novecento che ha dispensato tutte le tragedie.

Ignoravo che la sua penna ci avesse regalato pagine come quelle de L'uomo che piantava gli alberi, che vanno oltre il semplice rapporto tra l'uomo e la natura e diventano piuttosto un trampolino per indagare sul senso del nostro passaggio della terra.

Poche pagine, queste, che si leggono di un soffio, lasciandoti il rimpianto di non avere occhi di bambino con cui continuare a fantasticare. Poche pagine, però, che ci aiutano davvero a capire come gli uomini potrebbero essre altrettanto efficaci di Dio in altri campi oltre la distruzione.

E non bisogna essere santi, eroi, statisti. Ce la può fare anche un uomo che è poco più di un nome, un uomo che non sa nemmeno spiegare perché fa quello che fa. Nè è in realtà necessario: perché per lui parlano gli alberi, opera che vale i più grandi monumenti.

Mi piace chi pianta gli alberi. E' un offrire qualcosa che non chiede davvero niente, nemmeno la possibilità di guardare con soddisfazione l'opera compiuta, che in realtà potrà essere osservata e misurata solo anni e anni più tardi.

Piantare alberi è il gesto che più di tutti contiene il senso del futuro. Anche per questo serve farlo, non solo per l'anidride carbonica. Serve perché ci permette di stringere un patto con le generazioni che verranno e di scoprire il piacere del dono.

Questo libriccino ci aiuta a esserne consapevoli

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...