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lunedì 28 novembre 2016

Se uno come Samuel Beckett alleva api a Parigi

C'è qualcosa di inquietante nel frequentare Beckett e nel constatare che è una persona normale.

Ci sono molto modi di leggere e considerare L'apicoltura secondo Samuel Beckett dello scrittore francese Martin Page (Edizioni Clichy), libro di poche pagine e concentrato di umori,spunti, emozioni: romanzo imperniato sul consueto pretesto del manoscritto ritrovato, finto diario con grandi  iniezioni di verità, divertimento letterario, vagabondaggio per Parigi, riflessione sulla fama che la scrittura può dare, riflettore acceso sugli ultimi anni di vita del grande scrittore irlandese.

Insomma, c'è un giovane studente che per qualche tempo viene assunto da Beckett per aiutarlo a sistemare i suoi documenti. Ed è questo giovane - ancora sul ciglio di una vita da costruire dopo la laurea - che racconta lo straordinario tempo trascorso in compagnia dell'autore di Aspettando Godot. Il quale è assai diverso da come ce lo aspettiamo: divertente, bizzoso, irriverente, più desideroso di sfornare dolci che di parlare di letteratura, scrupoloso nell'allevare api capaci di produrre miele a volontà nel centro di Parigi (Questo lo aveva spinto a guardare Parigi con occhi diversi e ad accorgersi che c'erano fiori e piante dappertutto).

Si sorride, si riflette, ci si abbandona, tra le pagine di questo libro. Come quando Beckett e il suo assistente si lanciano negli acquisti di oggetti improbabili da affidare agli archivi dello scrittore, a futura memoria (Bisogna prendere gli archivi come una finzione costruita da uno scrittore e non come la verità. E cosa ci dice questa finzione? Questo è il vero compito dei ricercatori). O come quando in un carcere svedese i detenuti mettono in scena Aspettando Godot, con notevoli conseguenze.

Già si sorride, si riflette, ci si abbandona tra le pagine di questo libro. E io lo consiglio fortemente.

giovedì 2 dicembre 2010

Se la parola è un cucchiaino per svuotare il mare

La parola in sè è stata lodata troppo. Gli scrittori che più ci convincono sono quelli che sanno, con Beckett, che ogni scrivere è rubato al silenzio

Fa riflettere, e non poco, il bell'articolo che Tim Parks (scrittore e quindi uomo che vive di parole) ha pubblicato sul supplemento domemicale del Sole 24 ore. Fa riflettere perchè scuote diversi luoghi comuni, sfida certezze. E a tutti gli adoratori del verbo (questo anche il titolo dell'articolo) pone una grossa domanda. Che più o meno suona così.

Siamo fin troppo abituati a sentire gli scrittori lodare la parola... E se invece parola, lingua e letteratura stessero più dalla parte del problema che della soluzione? 

Perché le parole sembrano così vere, così immediate, così connaturate che sembrano siano lì solo per usarle, per usarle al meglio.

Riflettiamo. Inventate, inesistenti nel mondo naturale, le parole ci riempiono le orecchie non appena usciamo dal grembo materno. La testa piena, cominciamo a ripeterle. I suoni giusti nelle sequenze giuste fanno sì che otteniamo quello che vogliamo. Ben presto queste formule ci sembrano naturali quanto il respiro. Il famoso flusso di coscienza non è altro che un flusso di parole

Ma che succede se qualche guastafeste non si accontenta più della parola?

Cosa succede se le parole non bastano più a dire quello che davvero si vuole dire?

Se sono un cucchiaino per svuotare il mare dei significati? Se si capisce che tramite loro è dura arrivare alla profondità delle cose?

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...