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lunedì 25 maggio 2020

Il cappotto di Marcel Proust e un libro bizzarro

Stringendo tra le dita quei lembi di stoffa lisa e logora, prova forse la stessa emozione che sente quando sfoglia le pagine di un volume raro o le carte sgualcite di un manoscritto creduto perduto. Qualcosa passa attraverso le dita e arriva fino a lui.

E' un libro, Il cappotto di Proust di Lorenza Foschini (Strade Blu, Mondadori), che poteva scrivere solo una persona che ama l'autore della Recherche di un amore quasi inspiegabile. Però è anche un libro che può leggere anche chi di Marcel Proust non ha letto mai una riga, magari rimanendo aggrappato solo al sentimento del tempo perduto, alla voglia di ridare un senso e un'emozione a ciò che è stato.

Molte cose ci sono in queste poche pagine. E forse a mancare è proprio lui, Marcel Proust, ombra, enigma, profondità che non si lascia sondare, uomo che è diventato il suo capolavoro. 

Piuttosto c'è il cappotto da cui non si separava mai, nemmeno nei giorni più caldi dell'estate, nemmeno sul letto dove ha scritto gran parte delle sue pagine. C'è un raffinato bibliofilo, Jacques Guérin, industriale dei profumi che sapeva impiegare la sua memoria olfattiva anche per i libri,  capace di annusare ciò che vale davvero come un cane da tartufo. C'è il rapporto complicato con un grande artista. C'è la battaglia tra ciò che spinge a cancellare, rimuovere, dimenticare - fosse anche una cognata pronta a bruciare le carte rimaste - e tra ciò che spinge a conservare e collezionare (il collezionismo non è forse un tentativo di resistere al tempo?).

Ci sono queste cose, in questo libro bizzarro (il bello è sempre bizzarro, affermava Charles Baudelaire), che partendo da un dettaglio ci dice su un'epoca e su un artista più di tanti ponderosi saggi.

mercoledì 11 dicembre 2019

Stefano Massini e il suo dizionario inesistente

Pare che tutto sia cominciato con la parola bastitudine, o forse col suo sinonimo, morosinità, poi tutte le altre non si sono fatte pregare. Lecito non averle mai ascoltate, senza passare per ignoranti. Per dire, non si trovano nemmeno sul dizionario, vai a sapere se un giorno ci saranno. 

Intanto bastitudine suona perfetta per una storia come quella di Francesco Morosini, comandante veneziano che nel Seicento disse basta a una guerra che non finiva più con i turchi. Senza nessun motivo strategico o militare, in effetti: solo che un giorno si alzò, si guardò allo specchio e decise di farla finita.

Parola che discende da una storia, parola che forse sarà preziosa per altre storie intorno alla capacità e alla possibilità di pronunciare un basta a fronte di guerre inutili. Parola necessaria, anche se, appunto, nel dizionario non c'è.

Stefano Massini si deve essere molto divertito a inventare bastitudine e di seguito tutte le altre, che ha deciso di tenersi strette. Raccontandole nel suo Dizionario inesistente (Mondadori) ha fatto in modo di condividerle con tutti noi. 

Ve lo consiglio, questo libro. Per le storie che fa emergere - decisamente bizzarre - per le parole che tiene a battesimo.

Le parole - diceva Gabriel Garcìa Marquez - nascono sulle labbra di chi le inventa per strada, non vengono dalla testa degli accademici. C'è qualcosa che profuma di opera d'arte nell'invenzione di una parola. Anche se risponde a una necessità.  Anche se dopo non ne faremmo più a meno. Facile dirlo dopo.

martedì 2 aprile 2019

Con Argo, nel viaggio dentro al cuore

Arriva, irrimandabile, il viaggio che spinge gli uomini a salpare.

Così scriveva Apollonio Rodio, il poeta delle Argonautiche, raccontando di Argo, la prima nave costruita al mondo, di Giasone, il giovane che decise di salpare insieme ai suoi compagni, di Medea, che in un porto lontano attendeva che si sciogliesse il suo destino. Meraviglioso, certo. Ma cosa ci può raccontare oggi quella storia? Parla ancora alle nostre vite e ai nostri tempi?

Sì, parla ancora e dice molto. Meglio ancora se ad ascoltarla, a tenersela stretta, a riconsegnarcela è un talento straordinario come quello di Andrea Marcalongo, la stessa che con La lingua geniale è riuscita a parlare al cuore e all'intelligenza di molti ragionando - incredibile - di greco antico.

La misura eroica (Mondadori) è un libro intenso e poetico, in cui mi sono sentito come a casa, con la sensazione che casa, la mia casa, non siano solo queste pareti al cui interno sto scrivendo. Che siano piuttosto una nave pronta a sciogliere le vele e cercare nuove rotte. 

Quante cose che ci sono dentro: l'idea del viaggio che è metafora, limite, possibilità; la partenza e il ritorno, che è cosa assai più complicata - dimmi, una volta scampati ai pericoli, ci sarà per noi ritorno in Grecia?; il desiderio che è distanza e la nostalgia per i luoghi in cui non siamo mai stati; il ricordo quale arte dell'anima e l'ignoto che è volte è una terra, a volte è un cuore; l'amicizia che è uno dono e la solitudine che è una sfida; molte etimologie, che è come spremere il succo dell'uva, funziona così anche per le parole.

Soprattutto l'idea di un qualcosa che c'è davanti, che non è solo storia più volte raccontata. E' davanti, linea d'ombra, misura da stabilire, confine che attende la prua.

venerdì 23 novembre 2018

Il sorriso della ragazza venuta dall'Africa

C’è l’incredibile sorriso di quella ragazza somala, colto in mezzo a una manifestazione di razzismo di piazza, quel sorriso capace di disarmare un’intera folla animata dal peggio di questi tempi grami. E c’è quell’altro sorriso che è un ricordo, un’assenza, forse anche un rimorso: quello di un’altra ragazza arrivata in Italia al termine di un viaggio che è l’inferno in terra.

Chi è Sahra? Qual è stata la sua vita prima e dove è svanita ora, dopo aver abbandonato il centro di seconda accoglienza? E perché è sparita? Quali rughe segnano il suo sorriso?

Sono queste le domande che accompagnano l’ultimo ottimo libro di Carmine Abate, Le rughe del sorriso (Mondadori): uno di quei libri che prima di tutto sono uno sguardo necessario su ciò che oggi molti provano a non vedere. E che allo stesso tempo sono viaggio, si fanno viaggio, il viaggio più terribile, il viaggio dei nostri tempi. 

E c’è quel continente da cui arrivano uomini, donne e bambini. C’è la Somalia devastata dai signori della guerra, ma riscattata dal coraggio e dalla tenacia di chi sa che anche salvare un orfano è una finestra sul futuro. E c’è la Calabria, da cui un tempo si partiva e dove oggi si arriva, la Calabria di Rosarno, ma anche quella di Riace.

Questo ci racconta Carmine Abate, da scrittore par suo, con la consapevolezza che il racconto è possibilità o almeno premessa di salvezza. 

Raccontare, dunque: cominciando da ciò che c’era prima, da quel passato rimosso, da ciò che restituisce volti e nomi. Così come ci diceva Alessandro Leogrande, prima di andarsene troppo presto, dopo aver condiviso con Carmine molte parole anche su questo libro, che per noi è come un passaggio di testimone: 
 
 Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte.

lunedì 5 giugno 2017

Se il cibo racconta la nostra vita

"Però non esiste nessun segreto. Le pietanze migliori sono fatte di pochi ingredienti, semmai il segreto sta nelle mani di chi le prepara e nel palato di chi le mangia".

Spiega Carmine Abate che era tempo che voleva scrivere un libro come Il banchetto di nozze e altri sapori, solo che se si sentiva come un ristorante con un menù sterminato, dove rischi l'abbuffata o te ne rimani lì perché non sai cosa scegliere. Succede anche con la scrittura quando hai molto dire. Poi succede anche che per la testa ti frulla qualcosa che forse non avevi neppure messo in conto e tutto si mette in movimento. Per Abate è stato risentire in bocca il sapore memorabile della frittata mare e monti della nonna.

Con un titolo così, certo, si potrebbe presumere di avere sotto gli occhi un libro di cucina. Invece di una storia di vita si tratta. Di una storia raccontata attraverso i sapori e i saperi della cucina. E fortunato davvero chi è in grado di raccontarla così, una storia ampia, varia, intensa. Pensate a quanti non possono dire molto di più di pizze surgelate, piatti pronti acquistati al supermercato, frettolosi buffet.

Ma Carmine Abate, fortunato, è uomo del sud, anzi, uomo del sud che appartiene alla storica comunità di lingua albanese che ha la sua lingiua, la sua traduzione e naturalmente il suo modo di vivere  il cibo. La tavola è piacere, esplosione di odori e colori, gusti che non lasciano indifferenti, ma anche patto tra generazioni, legami che si rinnovano, identità che si conserva e si tramanda.

E' la festa che accoglie il padre emigrato quando ritorna a casa per le ferie. E' la radice che non viene spezzata quando per motivi di lavoro anche lui si trasferisce in Germania, nè viene meno quando i libri e poi il mestiere di insegnante trasformano altre abitudini di vita e tradizioni famigliari. E' ciò che si può mettere comunque in gioco, perché il cibo è anche scambio, esplorazione, meticciato culturale: come quando deciderà di trasferirsi a Trento con la donna della vita - a metà strada tra la Germania e la Calabria - e il matrimonio si celebrerà con una straordinaria polenta con la 'nduja, sintesi perfetta di Nord e di Sud.

Questa è la vita di Carmine Abate, la vita di tutti i giorni e la vita delle grandi occasioni. Sempre fedele alla frittata della nonna, alle tredici cose buone del Natale, all'amico cuoco che con i segreti della cucina trasmette anche un cuore immenso.

Un libro da leggere per poi sedersi a tavola. E capire che è in questo modo che si ritorna a ciò che conta nella vita.

lunedì 22 maggio 2017

Il pastore che racconta il Lake District al posto dei poeti

Dici Lake District e pensi a uno dei posti più incantevoli dell'Inghilterra e dell'intera Europa, un paradiso per i camminatori e in particolare per quanti amano leggere un territorio attraverso la cultura che esso ha ispirato. Lake District: i laghi tra cui trovarono pace e ispirazione William Worsdsworth e tanti altri poeti, gli scenari naturali rappresentati da tanti pittori romantici che, tra le altre coxe, ci hanno regalato anche l'aggettivo "pittoresco".

Del Lake District diceva appunto Wordsworth: Al fondo di queste Vallate si trovava una perfetta Repubblica di Pastori e di Agricoltori. Poche parole per seminare l'invidia di un posto idilliaco, buono per ogni tentazione bucolica. Ma proprio questo è il punto, che il Lake District è stato sempre raccontato dai poeti, dai pittori, da chi comunque è arrivato da Londra o da altre città e che il Lake District l'ha scoperto e quindi scelto. Non da chi da sempre lo abita, tosando pecore invece di maneggiare penne e pennelli.

Per questo è sorprendente - oltre che incredibilmente affascinante - un libro quale La vita del pastore (Mondadori) di James Rebanks, che pastore lo è sempre stato e lo è ancora, nonostante le parabole della vita lo abbbiamo portato a laurearsi a Oxford.

Pensare che Rebanks, discendente di una famiglia che alleva pecore da seicento anni, a scuola non voleva nemmeno andare: in aula si raccontava un mondo che non era il suo, la sua storia, il suo mestiere, i suoi monti pareva non avessero diritto di cittadinanza tra quei banchi. Poi è andata come è andata e lui ha saputo andare avanti nella vita senza tagliare le radici.

Eccolo allora il suo mondo, che ancora resiste malgrado tutto, tra pascoli, rocce e pub dove la trattativa per un buon animale si conclude con una stretta di mano e una pinta di birra. Un mondo dove i terreni comuni e le regole comunitarie che ne disciplinano l'uso non sono stati spazzati via e dove i nomi dei padri sono interscambiabili con quelli dei figli, tanto quello che conta è il nome della fattoria. Dove  anche ai tempi del web 2.0 il lavoro è segnato dal sorgere e dal tramontare del sole.

Il Lake District: non solo un luogo letterario o la destinazione di uno splendido viaggio. Piuttosto un luogo che è il risultato del lavoro di secoli, la sommatoria di infiniti gesti, azioni, scelte. La vera storia della nostra terra dovrebbe essere la storia dei suoi perfetti sconosciuti. Vero, verissimo.

Come è vero che i libri costruiscono l'immaginario di un luogo. Per questo è importante che i libri siano scritti. E che siano scritti anche dalle persone che a quel luogo appartengono.

venerdì 22 gennaio 2016

Come galleggiare nell'Età del Caos

C'è una sorta di seduzione del Caos. La sento crescere attorno a me. La sua attrazione fatale, malefica e demoniaca, l'avvertiamo in un sottile slittamento del linguaggio...

Deve essere stata la stessa forza di seduzione, se non del Caos della relativa parola, che mi ha spinto ad acquistare questo libro e poi a divorarmelo in due o o tre notti. Più ovviamente la voglia di compensare la tanta narrativa letta ultimamente co un saggio di Federico Rampini, gran giornalista senz'altro in grado di allargare la mia visione del mondo.

L'Età del Caos (Strade Blu Mondadori) questa visione l'allarga davvero: ma nello stesso tempo la complica, la frantuma, la consegna ai territori del dubbio e dell'incertezza. Perchè questo nostro tempo sta dissolvendo equilibri, gruppi di potere, regole, convinzioni. Tutto si è messo in moto, maledettamente in moto verrebbe da dire. E dove sono finiti i punti di riferimento che oltre a grandi malumori ci regalavano uno straccio di certezza?

Siamo ancora nella transizione, in uno di quei periodi instabili e pericolosi: dove l'ordine antico sta franando, e intanto di un ordine nuovo non c'è neppure traccia.

Così sostiene Rampini e malgrado tutto è già una ventata di ottimismo, il massimo che presumibilmente ci si può permettere, perché almeno di transizione si parla: quasi ci fosse una strada che a qualcosa porta.
Chissà se è poi vero. Ma in tutto questo almeno a qualcosa ci si può aggrappare.

Conoscere il Caos è la condizione essenziale per padroneggiarlo, o almeno per galleggiare, sopravvivere, adattarsi. 

Ecco, almeno questo. Buona motivazione anche per leggere questo libro. Imparare qualcosa per stare a galla nell'Età del Caos.

venerdì 4 dicembre 2015

Marcel Proust, che storia il suo cappotto

Stringendo tra le dita quei lembi di stoffa lisa e logora, prova forse la stessa emozione che sente quando sfoglia le pagine di un volume raro o le carte sgualcite di un manoscritto creduto perduto. Qualcosa passa attraverso le dita e arriva fino a lui

E' un libro, Il cappotto di Proust di Lorenza Foschini, che poteva scrivere solo una persona che ama l'autore della Recherche di un amore quasi inspiegabile. Però è anche un libro che davvero può leggere anche chi di Marcel Proust non ha letto mai una riga, magari rimanendo aggrappato solo al sentimento del tempo perduto, alla voglia di ridare un senso e un'emozione a ciò che è stato.

Molte cose ci sono in queste poche pagine. E forse a mancare è proprio lui, Marcel Proust, ombra, enigma, profondità che non si lascia sondare, uomo che è diventato il suo capolavoro. Piuttosto c'è il cappotto da cui non si separava mai, nemmeno nei giorni più caldi dell'estate, nemmeno sul letto dove ha scritto gran parte delle sue pagine. C'è un raffinato bibliofilo, Jacques Guérin, industriale dei profumi che sapeva impiegare la sua memoria olfattiva anche per i libri,  capace di annusare ciò che vale davvero come un cane da tartufo. C'è il rapporto complicato con un grande artista. C'è la battaglia tra ciò che spinge a cancellare, rimuovere, dimenticare - fosse anche una cognata pronta a bruciare le carte rimaste - e tra ciò che spinge a conservare e collezionare (il collezionismo non è forse un tentativo di resistere al tempo che si perde?).

Ci sono queste cose, in questo libro bizzarro (il bello è sempre bizzarro, affermava Charles Baudelaire), che partendo da un dettaglio ci dice su un'epoca e su un artista più di tanti ponderosi saggi

lunedì 2 novembre 2015

Calvino e la bellezza dei racconti di una sola riga

La concisione è solo un aspetto del tema che volevo trattare, e mi limiterò a dirvi che sogno immense cosmologie, saghe ed epopee racchiuse nelle dimensioni d'un epigramma.

Nei tempi sempre più congestionati che ci attendono, il bisogno di letteratura dovrà puntare sulla massima concentrazione della poesia e del pensiero.

Borges e Bioy Casares hanno raccolto un'antologia di "Racconti brevi e straordinari". Io vorrei mettere insieme una collezione di racconti d'una sola frase, o d'una sola riga, se possibile.

Ma finora non ne ho trovato nessuno che superi quello dello scrittore guatemalteco Augusto Monterroso: "Cuando despertò, el dinosauro todavìa estaba allì".

                                                 (Italo Calvino, Lezioni americane, Oscar Mondadori)

sabato 3 ottobre 2015

Calvino e l'alta marea di chi scrive libri

C'è una linea di confine: da una parte ci sono quelli che fanno i libri, dall'altra quelli che li leggono.

Io voglio restare una di quelli che li leggono, perciò sto attenta a tenermi sempre al di qua di quella linea. Se no, il piacere disinteressato di leggere finisce, o comunque si trasforma in un'altra cosa, che non è quella che voglio io.

E' una linea di confine approssimativa che tende a cancellarsi: il mondo di quelli che hanno a che fare coi libri professionalmente è sempre più popolato e tende a identificarsi col mondo dei lettori.

Certo, anche i lettori diventano più numerosi, ma si direbbe che quelli che usano i libri per produrre altri libri crescono di più di quelli che i libri amano leggerli e basta.

So che se scavalco quel confine, anche occasionalmente, per caso, rischio di confondermi con questa marea che avanza; per questo mi rifiuto di metter piede in una casa editrice, anche per pochi minuti.

(Italo Calvino, Se una notte d'inverno un viaggiatore, Mondadori) 

sabato 9 maggio 2015

Se la gentilezza è una presa di posizione

Aldous Huxley, lo scrittore inglese che nei suoi slanci visionari riusciva a manifestare una splendida concretezza, sulla gentilezza non aveva dubbi, semmai qualche imbarazzo. La gente gli domandava quale potesse essere la tecnica più efficace per trasformare la propria vita e lui, dopo anni di ricerche e sperimentazioni, poteva solo rispondere: just be a little kinder, prova a essere un po' più gentile.

Grande dono, grande opportunità, la gentilezza.  Su di essa mi è capitato in questi giorni di leggere un libro dello scrittore e psicoterapeuta Piero Ferrucci, con un titolo che scopre già le carte: La forza della gentilezza (Mondadori).

Certo non la gentilezza formale, da regole della buona società, la gentilezza di superficie, convenzionale e interessata. Ma la gentilezza che affonda dentro, questa sì che può essere potente. Soprattutto in questi tempi, di riscaldamento globale del clima, ma di raffreddamento altrettanto globale delle relazioni.

Afferma perentorio Piero Ferrucci: La gentilezza è una presa di posizione

E una forza, davvero una forza, sa impiegare per cambiare se stessi e il mondo: obiettivi per cui questo libro non manca di buoni spunti.

venerdì 8 maggio 2015

Viaggio nei numeri. E nella loro bellezza

Cos'è il numero, che l'uomo lo può capire? E cos'è l'uomo, che può capire il numero?

A porsi queste domande, poco più di mezzo secolo fa, era uno scienziato come Warren McCulloch. In realtà queste stesse domande ci accompagnano da quando uomo è uomo. Direi che appartengono alle grande domande della nostra filosofia, intesa come tentativo di indagare sulle possibilità della nostra mente e di dare un senso a ciò che apparentemente senso non ha.

E allora arrivano da lontano citazioni che sono anche tentativi di risposta. Il Libro dei morti dell'Antico Egitto: Puoi portarmi un uomo che non sappia contare sulle dita? Filolao, con uno dei suoi frammenti: Senza numeri, non si può né pensare, né conoscere. Oppure Agostino, che si interroga sl mistero del creato: Togli i numeri alle cose, e tutte periranno.

Già cos'è il numero? E come può aiutarci a capire meglio noi stessi e ciò che ci circonda?

Se domande così sono tentatrici - e sono sicuro che lo siano - c'è un libro che fa per voi: Il museo dei numeri di Piergiorgio Odifreddi (Mondadori).

Senza nessuna polemica, questa volta. Odifreddi non se la prende con niente e con nessuno, piuttosto si tuffa nei numeri e si affida al loro incanto. Si abbandona alle loro suggestioni e ne insegue i milli fili. Che possono portare anche alle domande ultime, quelle dei teologi, perché non c'è religione, alla fine, che non si sia misurata anche con i numeri.

Da zero verso l'infinito: storie che si incrociano con il pensiero, l'arte, la storia. Con tutto ciò che ci riguarda.

Diceva Proclo, nel suo commento a Euclide: Dovunque c'è numero, c'è bellezza.

Diceva Virgilio, nelle sue Bucoliche: Dio ama i numeri dispari.

Cosa c'entri non lo so. Però c'entra, in qualche modo.

mercoledì 29 aprile 2015

Giacomo Leopardi e l'enigma della felicità

Quest'uomo che è un concentrato di dolore e che pure ci accompagnerà tutta la sua vita con le sue lune silenti, i dolci naufragi nell'infinito, i ricordi della fanciullezza. Quest'uomo debole e incerto eppure dalle mente inflessibile, direi spietata. Quest'uomo che amava le illusioni e che faceva di tutto per squarciarne il velo. Quest'uomo che fa paura da quanto ha sofferto e che pure ora conosco anche per come sapeva conversare amabilmente, con il dono della leggerezza, o per come trovava irresistibile, da gran goloso, i dolcetti napoletani.

Ovvero Giacomo Leopardi, che mi porto dietro dai tempi della scuola, tra i pochi autori che i programmi ministeriali non mi hanno inflitto, piuttosto mi hanno consegnato come un regalo da conservare con attenzione.

Dopo diverso tempo finalmente ho letto il Leopardi di Pietro Citati (Mondadori), libro che mi piaceva tenere in bella vista, non fosse altro che per la copertina con uno dei miei quadri e uno dei miei pittori preferiti - Le scogliere dell'isola di Rugen di Caspar David Friedrich, inquietudine ed enigma dell'infinito - ma che mai avevo osato affrontare. Libro impervio in effetti, per mole e densità, impervio ma bellissimo: di quelli che, alla fine, procurano la stessa soddisfazione di una montagna una volta che sei sulla cima.

Biografia ma anche rilettura dell'intera opera di un grandissimo che non sentiamo come poeta sul piedistallo, ma come uomo che, magnificamente, ci parla cuore a cuore. E che ci consente di riconoscerci, proprio grazie alle sue parole.

Citati entra dentro la vita Leopardi, vi partecipa, ce la rivela. E incanta, anche quando il suo discorso vola alto: indugiate, per esempio, sulle pagine in cui ci racconta dell'importanza della luna nella visione poetica di Leopardi.

Vola alto, ma per ritrovare sempre l'uomo che, estraneo ai tempi moderni quasi per definizione, meglio di tutti ha saputo esprimere la condizione di noi moderni. E per spingerci di fronte alla questione delle questioni: esiste la felicità? E se esiste, dov'è?

domenica 8 febbraio 2015

Rileggendo la guerra dei nostri nonni

Dedicato a suo nonno, ma anche ai 650 mila soldati italiani che, non facendo ritorno a casa, non ebbero mai la possibilità di diventare nonni. E' un bel libro, La guerra dei nostri nonni di Aldo Cazzullo (Mondadori), un libro diverso da molti altri usciti in occasione del centenario della Grande Guerra.

Un libro da consigliare anche a coloro che non sono grandi appassionati di Storia e che pure sono disposti a cercare le storie nella Storia. Come se un vecchio reduce, se potesse essere ancora in vita, ci accogliesse al fuoco del caminetto per raccontarci le sue vicende.

Ecco, proprio così. Perché questo è un libro che non ha una tesi da dimostrare né un vero e proprio filo a legare i vari capitoli.

Un libro, certo,  dove ci sono anche le storie di persone che hanno lasciato un segno importante: Pietro Badoglio che quel mattino a Caporetto non dette l'ordine di fuoco all'artiglieria, vai a capire perché; Giuseppe Ungaretti che nelle trincee non solo salvò se stesso ma anche le sue parole di poeta; e anche Hitler, che nelle trincee fu risparmiato da un soldato nemico, e chissà come sarebbero andate le cose, invece....

Ma soprattutto le storie delle persone che erano i nostri nonni e che potevamo essere anche noi. I soldati massacrati l'istante dopo l'ordine di attacco, i prigionieri in mano austriaca a cui il governo italiano negò perfino il soccorso della Croce Rossa, i trentini che combatterono con l'impero e finirono bei campi di battaglia più lontani, incrociando i loro passi con la Rivoluzione russa, gli intervisti che dopo i tanti proclami scoprirono la realtà del massacro, i giovani fanti del Piave e del Monte Grappa, le donne che in quegli anni si fecero carico del lavoro e cominciarono a scorgere un futuro diverso....

Storie che sono la nostra storia. Storie da cui discendiamo anche noi e per cui siamo quello che oggi siamo.

sabato 9 agosto 2014

Tornando nella Firenze di Vasco Pratolini

Noi eravamo contenti del nostro Quartiere. 

Posto al limite del centro della città, il Quartiere si estendeva fino alle prime case della periferia, là dove cominciava la via Aretina, coi suoi orti e la sua strada ferrata, le prime case borghesi, e i villini.

Via Pietrapana era la strada che tagliava diritto il Quartiere, come sezionandolo fra Santa Croce e l'Arno sulla destra, i Giardini e l'Annunziata sulla sinistra. Ma su questo versante era già un luogo signorile, isolato nel silenzio, gravitante verso San Marco e l'Università, disertato dalla gente popolana che lasciava i figli scavallare sulle proprie strade dai nomi d'angeli, di santi e di mestieri, nomi antichi di famiglie "grasse" del Trecento.

Via de' Malcontenti ne era un'arteria e un monito; via dell'Agnolo la suburra, sulla quale immetteva Borgo Allegri ove in un'età lontana un'immagine della Madonna, dipinta da un concittadino immortale, portata in processione, si degnò miracolare in mezzo al popolo, "rallegrandolo".

Panni alle finestre, donne discinte. Ma anche povertà patita con orgoglio, affetti difesi con i denti. Operai, e più propriamente, falegnami, calzolai, maniscalchi, meccanici, mosaicisti. E bettole, botteghe affumicate e lucenti, caffè novecento.

La strada. Firenze. Quartiere di Santa Croce.

(da Vasco Pratolini, Il quartiere, Mondadori)

venerdì 8 agosto 2014

Quanto costò quella guerra fatta quasi per gioco

 Figurarsi che noi ce la siamo praticamente dimenticata, ci siamo lasciati scappare anche l'occasione del centenario. Giusto qualche reminiscenza dei tempi di scuola, prima di un'alzata di spalle, prima di andare avanti: una guerricciola da niente, di quelle che non fanno troppo male.

Poi arriva un libro come La Scintilla di Franco Cardini e Sergio Valzania, pubblicato ne Le Scie di Mondadori, e la prospettiva cambia non poco. Perché, ci spiegano i due storici, la guerra di Libia non è stata solo una conquista piena di pagine ingloriose, crudeli, scellerate. Peggio, molto peggio, perché è stato con quell'impresa, chiamiamola così, voluta dall'Italia sostanzialmente per ragioni di politica interna, che il mondo intero si è messo in movimento, oltre ogni previsione e capacità di controllo, fino a precipitare nella voragine della Grande Guerra.

Certo, non "la" causa, la ragione di tutto.  Piuttosto la piuma che aggiunta al peso fa franare tutto. La scintilla, appunto, che appicca il fuoco alla polveriera. C'era già prima, la polveriera, ma chi c'è entrato dentro in quel modo?

Fino a quel momento l'Europa aveva saputo controllare le tensioni, gestire le crisi, trovare una via di uscita. Ma da quando gli italiani sbarcarono sull'altra sponda del Mediterraneo, per appropriarsi di quello "scatolone di sabbia", senza nemmeno sospettare l'esistenza del petrolio, niente fu come prima.

L'impero ottomano dimostrò una volta per tutte la sua irrimediabile debolezza. Sui relativi appetiti si scatenarono due guerre balcaniche. Soprattutto in cancellerie di Stato e quartier generali si diffuse l'idea che la guerra potesse essere un buon modo di risolvere la crisi: rapido e abbastanza indolore, una sorta di Risiko per rettificare confini ed equilibri.

Poi successe tutto quello che è successo. In Tripolitania e in Cirenaica cominciò davvero il secolo breve della lunga guerra. E tutto per un'avventura su cui, ancora oggi, rimane il giudizio senz'appello di Gaetano Salvemini, un uomo quale ce ne vorrebbero molti ancora oggi in Italia, ma che ha avuto il problema di essere compreso solo troppo tardi:

Sia il quando, sia il perché, sia il come dell'impresa libica non si spiegano, se non tenendo presenti la incultura, la leggerezza, la facile suggestionabilità, il fatuo pappagallismo delle classi dirigenti italiane.

Un libro da meditare. 

domenica 3 agosto 2014

Ecco come finisce una guerra, per chi rimane

Ecco come finisce una guerra, mio povero Eugène, un immenso dormitorio di gente stremata che non si è nemmeno capaci di rispedire a casa come si deve.

Nessuno che ti dice una parola o soltanto che ti stringe la mano.

I giornali ci avevano promesso archi di trionfo, e invece stiamo ammassati in sale esposte ai quattro venti. Il "grazie affettuoso della Francia riconoscente" (l'ho letto sul "Matin", ti giuro, parola per parola) si è trasformato in beghe continue, stanno a lesinare sui 52 franchi di premio di smobilitazione, a lagnarsi per i vestiti, la zuppa, il caffé che ci danno.

Ci trattano da ladri....

(Pierre Lemaitre, Ci rivediamo lassù, Mondadori)

mercoledì 23 luglio 2014

Uno scrittore di noir per il libro che racconta i reduci

Sapeva che ci riprende da tutto, ma da quando aveva vinto la guerra, aveva l'impressione di perderla ogni giorno un po' di più.

Crepuscolare, visionario, spiazzante. Ci vogliono aggettivi in abbondanza per un libro come Ci rivediamo lassù (Mondadori) di Pierre Lemaitre, libro non sulla Grande Guerra, ma su cio che rimane, se rimane, dopo la guerra. Libro che parte dalle trincee per inoltrarsi nella terra di nessuno popolata da chi è sopravvissuto, libro che racconta le macerie della società e delle esistenze quando non ci sono più colpi da sparare, solo storie di vita a cui dare un senso.

Le illusioni dell'armistizio e l'ipocrisia di chi pensa di cavarsela innalzando qualche monumento a chi non c'è più. Lo sbandamento dei reduci e i valori della convivenza civile che non è che riprendono il loro posto appena i cannoni tacciono, fosse così facile. E molto, molto di più.

E' una lettura assai poco convenzionale, ma perfetta, in questo centenario della Grande Guerra. Fosse solo per riflettere che non c'è fine alla fine.

Però anche con un motivo in più. Perché questo non è l'opera che ti aspetteresti da Pierre Lemaitre, scrittore indubbiamente conosciuto soprattutto per i suoi noir. Eppure proprio per questo: perché malgrado i temi che affronta, malgrado le domande della storia e della morale, Ci rivediamo lassù sa essere appassionato come un grande noir.

sabato 5 luglio 2014

Il matematico indiano che era come una stella lontana

Perché lo sorprendeva ancora sapere così poco di Ramanujan?

Era troppo vecchio per continuare a credere di aver toccato più di un frammento di quella vasta mente infernale. Nessuno di loro ci era riuscito, né Littlewood, né Eric, né Alice. Ramanujan era entrato nel loro mondo, e per qualche tempo le loro vite avevano ruotato intorno a lui, proprio come pianeti lontani ruotano intorno a una stella di cui riescono a discernere solo la più vaga penombra.

Eppure quella stella, nonostante la sua lontananza, governa le loro orbite e regola la loro gravità.

Ancora adesso, sogni su Ramanujan strappavano Hardy dal sonno ogni mattina. E quando andava a dormire una guizzante radiosità pervadeva i suoi sogni, come la luce riflessa da una mazza da cricket verniciata, o dalla spda brandita da un gurkha.

(David Leavitt, Il matematico indiano, Mondadori)

mercoledì 19 febbraio 2014

Diventare scrittore per andare al Giro d'Italia

Sì, ma se non potevo diventare un corridore, come lo facevo io il Giro d'Italia?

Non mi sono fatto prendere dal panico e ho buttato giù una lista di modi alternativi: magari potevo guidare un'auto della carovana, solo che gli autisti erano tutti ex corridori, e se non riuscivo a diventare un ciclista era molto difficile diventare un ex. 

Allora forse potevo fare il massaggiatore, ma l'idea di toccare le cosce nude e sudate di altri uomini non mi piaceva tanto. E allora via col meccanico, il poliziotto, il giudice, l'elicotterista... infinite erano le vie per arrivare al Giro.

E l'unica che non mi è mai venuta in mente è quella che alla fine mi ci ha portato davvero.

Ma in effetti all'epoca non l'avrei mai detto che al Giro poteva servire uno scrittore. Non sapevo nulla di libri, anzi, l'unica cosa che sapevo era che non mi piacevano.  Ne avevo letto uno solo, il "Giro del mondo in 80 giorni", e mi aveva annoiato così tanto che gli 80 giorni mi erano sembrati 80 secoli. 

E allora come potevo immaginare che altri libri, scritti da me, mi avrebbero portato dalla noia di quel giro del mondo alla gioia del Giro d'Italia?

(Fabio Genovesi, Tutti primi sul traguardo del mio cuore, Mondadori)

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