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lunedì 17 febbraio 2020

Nei paesi vuoti con Mauro Daltin, non solo per nostalgia

Non è un esercizio di nostalgia. Tutt'altro. Possiamo partire dai Paesi Vuoti per dare vita a una teoria utile a tempi presenti così sfilacciati.

Così comincia Mauro Daltin prima di accompagnarci in un viaggio nella geografia dell'abbandono, dove ciò che era non c'è più e rischia di non rimanere nemmeno come ricordo. Perché il passato a volte non ha nemmeno la forza di reclamare attenzione, eppure questa è una storia che ci riguarda. 

 La teoria dei paesi vuoti (Ediciclo editore) è  molte cose insieme, dentro c'è storia e memoir, antropologia e riflessione sulla contemporaneità, narrativa di viaggio e poesia, sì, anche poesia, perchè c'è un sentimento poetico che certi luoghi che non sono più riescono ancora a destare.

Quanto alla tassonomia dell'abbandono, è  certo più vasta di quanto ci venga solitamente da considerare: paesi in cui l'orologio si è fermato nell'istante di un terremoto o di una frana; paesi svuotati da una scelleratezza speculativa o da una follia urbanistica; paesi sommersi dai bacini artificiali, costruiti magari per portare altrove energia elettrica; paesi che semplicemente non hanno più avuto una ragione di esistere, dopo che le miniere si sono esaurite o la corsa all'oro per cui erano nate si è rivelata una pia illusione.

 Non solo sulla nostra montagna, poi, perchè ci sono anche le storie di altri continenti, dal Quebec all'Argentina, fino al Giappone dello tsunami. E quante storie in ognuna di queste comunità svanite. Quante voci che ancora si possono percepire - parlano ancora le case abbandonate, parlano sempre - se solo si è capaci di tendere l'orecchio. 

E Mauro Daltin, che del terremoto è figlio (era nella pancia della mamma la terribile notte del Friuli), l'orecchio lo sa tendere bene. Per assicurare ancora diritto di parola a quelle voci.

mercoledì 12 febbraio 2020

Buenos Aires e lo scrittore fallito

Io tinsi il mio fallimento così come altri si tingono i capelli. Gli conferii la qualifica di elegante.

Chissà quanto ha messo di se stesso, Roberto Arlt, nelle pagine folgoranti di Scrittore fallito, racconto che dà il titolo alla raccolta pubblicata per Sur. Chissà quanto c'è dei suoi vent'anni e di un'Argentina al crocevia, della prospettiva di un successo imminente, della scrittura che non rende giustizia, delle sterili discussioni nei caffè animati da ambizioni e frustazioni, della letteratura che si fa critica, chiacchiera, diceria, malignità.

Certo lui grande fu davvero e questo racconto più gli altri che seguono ne sono buona testimonianza, assieme ai suoi romanzi, su tutti Il giocattolo rabbioso. Più grande di quanto, temo, sia oggi il suo ricordo almeno in Italia, più grande della sua parabola di vita, che fu troppo breve. 

Roberto Arlt, ovvero l'uomo ai margini, lo sguardo laterale, il carattere difficile, l'autodidatta, il ragazzo ribelle che abbandonò la famiglia, si ingegnò in diversi mestieri, visse le strade di Buenos Aires.

E Buenos Aires c'è tutta in queste pagine, città che non ho mai attraversato con i miei passi e che pure mi sembra così familiare, città che vive tra le pagine come poche altre al mondo. Grazie ad Arlt ancora una volta ho incontrato le sue voci, i suoi umori, le sue storie.

giovedì 29 novembre 2018

A Buenos Aires una storia di amore e anarchia

Comincia con un refolo di vento che viene dall'Atlantico, col caldo dell'estate australe, con i ricordi che si dipanano come un gomitolo tra le vie di Buenos Aires, con l'occhio che cade su lettere che sono già un romanzo. Comincia con un viaggio che sospinge verso un altro continente per poter diventare un viaggio nel tempo. Comincia perdendo subito la strada, perché è solo così che gli enigmi di una vita potranno trovare se non un senso almeno una qualche risposta nella lingua del cuore. 

Perché poi cos'è un viaggio se non il sogno di una storia da raccontare? 

Così si domanda Tito Barbini, quasi all'inizio del suo ennesimo viaggio in quell'Argentina che da sempre gli è altrove fedele, così si domanda e già è evidente il desiderio, anzi, il bisogno di raccontarla, questa storia.

E come sempre nelle sue pagine, anche in questo suo ultimo libro  - Severino e América. Storia d'amore e anarchia nella Buenos Aires del primo Novecento (Mauro Pagliai editore) - ci si smarrisce per ritrovarsi e ci si ritrova per smarrirsi ancora: è il destino di Tito, come del suo lettore che, tra le altre cose, questa volta ancora più di altre gode di una magnifica incertezza: tra le mani ha un romanzo o un reportage, un viaggio o un atto di amore?

Storia di amore e anarchia, recita il sottotitolo: e vai a sapere se l'amore viene prima dell'anarchia o viceversa. L'uno e l'altra, in ogni caso, alimentano la storia struggente di Severino Di Giovanni e di América, del sovversivo venuto dall'Italia e della ragazzina di Buenos Aires.

Un amore tenero e tenace, un amore pulito, capace di resistere a tutto, agli agguati del destino come alle sentenze che discendono dalle scelte. Di resistere e di riscattare illusioni, mortificazioni, errori, crimini. 

Ci si tuffa, in questa storia, non per vedere come andrà a finire, ma perché ci sono sentimenti di cui ancora oggi abbiamo bisogno, oggi forse ancora più di una volta. E possono essere sentimenti che ci legano a una persona scelta tra infinite altre, ma anche sentimenti che alimentano un'idea di giustizia che riguarda tutti.

E si finisce per provare nostalgia per quella Buenos Aires di miserabili emigrati, di tristi suonatori di fisarmonica, di banditi sognatori, la stessa Buenos  Aires di un altro libro che ho letto in questi giorni, Letti da un soldo di Enrique González Tuñón (Arkadia editore). Autore che, guarda la coincidenza, fu presente all'esecuzione di Severino.

Si finisce per provare nostalgia per quell'idea impossibile e generosa che fu l'anarchia, quell'idea così capace di stare dalla parte del torto con la forza della ragione, o viceversa. 

Quell'idea che finora per me era soprattutto una canzone di Francesco Guccini e qualche verso di Pietro Gori. E ora, grazie a Tito, è anche una musica che si spenge in un vicolo imprecisato della città del tango. 



venerdì 16 novembre 2018

L'albergo dei perdenti nel fervore di Buenos Aires

Quando morirò non piantate un salice sulla mia tomba, ma una macchina da scrivere.

Così lasciò scritto Enrique González Tuñón, scrittore argentino della prima metà del Novecento, che con le parole provò a contenere il male di vivere e a riscattare l'inesorable richiamo dei margini e dei bassifondi. Così dipanò le storie dei perdenti, si perse in conversazioni da bar e bevute fino al mattino, morì troppo presto lasciandoci il sospetto di un talento in parte inespresso. Nel suo ultimo libro - La strada dei sogni perduti - parlò degli uomini che perdono i loro sogni. E non è come per gli oggetti smarriti, che ogni tanto si ritrovano.

Nessuno, che io sappia, ha mai restituito un sogno. Nessuno.

Nella sterminata prateria della letteratura sudamericana - o anche solo argentina - ecco ora rispuntare la sua figura troppo facilmente dimenticata. Merito della casa editrice sarda Arkadia, con la sua collana Xaimaca che, curata da Marino Magliani e Luigi Marfé, punta a restituirci le voci di scrittori di un continente che non finisce di sorprendere. 

Letti da un soldo è una raccolta di racconti che girano intorno a cinque persone che gli americani chiamerebbero losers. La risacca della vita li ha sospinti in un albergo che è una stamberga, dove si dorme al prezzo di un peso e con almeno un occhio aperto per guardarsi da topi e ladri. La fame è loro compagna, amplifica le sensazioni, inasprisce gli animi, succhia energie. Ma ancora più devastante sono la malinconia, il rimpianto, il sentimento dello spreco. 

C'è più passato che futuro. Ma c'è anche il presente di una Buenos Aires in tutto il suo fervore, in cui ogni strada è un groviglio di umanità. Ci sono moli, bordelli, caffè. Tossici, puttane, spie incrociano i loro destini con quelli di poeti mancati e di anarchici votati alla sconfitta. E a notte rimane solo l'eco di un tango, come una luce prima del risveglio: poi tutto sarà ancora più difficile.

martedì 1 maggio 2018

Mengele, cuore di tenebra dall'Europa al Sudamerica

Questa è la storia di un viaggio che non avrebbe dovuto esserci, ma che andava comunque raccontato. La storia di un uomo - un uomo? - che cambia continente e identità per sottrarsi alle sue tremende responsabilità. E anche la storia di un altro viaggio, che è dell'autore e che deve essere di tutti noi, non tanto negli orrori del Novecento - per i quali non mancano certo i libri - quanto in quel mondo, tra Europa e America del Sud, dove complicità, amnesie e tornaconti vari hanno dato una nuova possibilità ai peggiori criminali.

E' un gran libro, La scomparsa di Josef Mengele di Olivier Guez (Neri Pozza), che ci restituisce la storia del medico che più di tutti ha rovesciato e sporcato il senso della medicina: il macellaio di Auschwitz, il custode della purezza della razza, l'uomo degli sperimenti più criminali sui bambini e le bambine.

Per raccontare non c'è bisogno di passare per i lager, il prima è appunto ciò che è prima, si dà per acquisito. Questo è un libro sul dopo, sulla fuga e sulla nuova vita di Mengele, tra Argentina e Paraguay. Sulle sue sconvolgenti convinzioni che nemmeno il crollo del Reich ha rimesso in discussione, non l'incrinatura di un dubbio, non un sussulto di rimorso. Sui tanti che nell'immensità del Sudamerica, protetti da troppi, hanno ricavato angoli di Baviera nazista, tra nostalgie per il passato e trame per il futuro. Su un mito - quello di Mengele criminale svanito nel nulla - che poche ragioni ha di essere, visto che fino alla sua morte naturale il diretto interessato è rimasto in contatto costante con la famiglia, una volta è anche tornato in Europa.

E meno male che c'è almeno un destino che si compie e che ha il gusto amarognolo di un conto comunque pagato: nell'ultimo lembo di vita, Mendele ormai uomo solo, malato, in guerra con tutti e soprattutto con se stesso.

Per raccontare tutto questo ci voleva una grande penna, ma anche una penna misurata, capace di mostrare il cuore di  tenebra senza effetti speciali. Perché la storia parla da sé se si lascia parlare: ed è quanto Olivier Suez ha fatto, ottimamente.  

giovedì 8 giugno 2017

L'esilio dell'uomo che era il suo cane

Non so quando cominciai a divertirmi a collocare nell'aria i nomi delle città, dei paesi, delle regioni, però ricordo bene che mettevo tutto a posto e poi mi facevo i complimenti.

Apri una pagina a caso de L'esilio dei moscerini danzanti giapponesi di Marino Magliani (Exòrma) ed è facile imbattersi in una frase così, che ti entra dentro per muoverti qualcosa. Frasi come: La nostalgia non la senti quando sei lontano, ma quando sei lì, al tuo paese, e sai che fra poco te ne vai. Oppure: Per quanto mi riguarda, non c'è mai stato un momento in cui io non abbia invidiato chi riusciva a risiedere.

Anche solo per questo raccomanderei la lettura, perché è scrittura densa, mai banale, capace di andare a fondo. Però c'è molto di pù, perchè dentro c'è tutta una vita, sospesa tra arrivi e partenze, tra radici ed esilio.

C'è un uomo - un uomo in cui certo c'è molto di Marino - che è ligure di roccia, ligure di vallate da cui non si intravede il mare, che a un certo punto della giovinezza volta le spalle a un paese da cui si è sentito tradito. Ci sono gli anni dell'irrequietezza, tra la Costa Brava dei residenti della notte e un'Argentina che non è Buenos Aires e non è nemmeno l'immensità della Patagonia, ma un luogo sperduto nella pampa. C'è l'Olanda infine - infine? -  che diventa il nuovo posto dove vivere, con i suoi canali, le dune e l'odore del mare, con le finestre senza imposte e la buona educazione.

E c'è una donna, che è stata una possibilità ai tempi della scuola, ma una di quelle possibilità che per qualche ragione non  si concretizzano mai, rimangono sogno, desiderio, pensiero che non si fa passo o domanda. Possibilità ma ora anche riannodarsi di qualcosa, fuori tempo massimo, sia pure uno scriversi a distanza, un impiegarsi come punto di riferimento, come tessuto connettivo di una vita da raccontare in primo luogo a se stessi.

E c'è un mestiere che è quello di traduttore - e tradurre è un po' come viaggiare, un po' come andare e ritornare dalla Liguria all'Olanda, dall'Olanda alla Liguria - un mestiere che ha un significato particolare per un uomo che ha cominciato parlando il dialetto e facendo vivere le cose attraverso le parole del dialetto, siano frutta o interi paesi.

E ci sono molti incontri - persone come Peter, l'olandese che va a pesca e scrive poesie, perfetto esempio di regale marginalità - ma c'è anche immensa solitudine, una solitudine di vento e acqua salmastra, di lunghi pomeriggi senza luce e di passeggiate senza una meta e senza un motivo:

Lei non ha un cane, mi chiede ancora ogni tanto qualcuno.
Glielo spieghi tra quel po' di noia e di mezza contentezza perché in tutto il giorno non hai fatto una parola.
Brav'uomo, io sono il mio cane.

Ecco, cose così. Cose per cui merita leggere L'esilio di Marino. Non fosse altro che per saperne di più sui moscerini danzanti e su un altro piccolo animaletto - il talitro - nomade senza requie su dune che non sono quelle di Olanda, ma della mia Toscana.

Per questo e per provare a capire cos'è che ci mette in movimento, cos'è che ci fa sospirare il ritorno.

sabato 29 novembre 2014

Un noir per la storia più nera dell'Argentina

Ormai arrivano spesso da lontano i gialli e i noir migliori, quelli con una voce più autentica, con storie che non sono scontate e che non hanno bisogno di troppi effetti speciali. Arrivano da lontano e a volte sono anche capaci di portarci lontano: dentro paesi di cui finalmente si raccontano le vicissitudini e i tormenti.
Di tutto questo sono ancora più convinto dopo aver letto Mapuche di Caryl Fèrey (edizioni E/O), poliziesco sui generis che ha per protagonista Jana, giovane figlia di un popolo massacrato, e Rubèn, uno dei pochi sopravvissuti alle carceri clandestine di una feroce dittatura. Jana e Rubèn, ma soprattutto l'Argentina: perché è di questo paese che sembra non finire più, per geografia e sofferenze, che in realtà parla questo libro.

Colpi di scena a ripetizione, certo. Pagine da divorare una dietro l'altra, per scoprire come andrà a finire. Però è l'Argentina, soprattutto l'Argentina: non contesto, non fondale. Con le sue vicende che si dipanano tutte dietro le quinte della storia ufficiale, seguendo il filo ininterrotto della violenza e del crimine: dagli indios che nella pampa venivano presi a fucilate come conigli al giovani oppositori spinti giù dagli aerei, per non parlare della sorte di tanti figli di desaparecidos a cui sono è stato sottratto anche il nome...

E non l'Argentina qual era, piuttosto l'Argentina di oggi, restituita alla democrazia, ma ancora alle prese con i suoi fantasmi - fantasmi che spesso e volentieri non sono nemmeno fantasmi, ma persone in carne e ossa, in grado di rimettersi a nuovo per perseguire gli interessi di sempre...

 E mi fermo qui, perché un poliziesco è sempre un poliziesco, vietato scoprire le carte,

mercoledì 27 agosto 2014

La voce di Eva Peròn, in quella Argentina

Qualsiasi cosa si faccia, si ricostruisce sempre il monumento a modo proprio. Ma è già molto se le pietre usate sono autentiche.

Così affermava la grande Marguerite Yourcenar - dandoci prova di quello che intendeva in un'opera straordinaria quale le Memorie di Adriano, vita dell'imperatore insieme vera e immaginata, o se si preferisce, ricostruita con i materiali che rimangono dopo la distruzione (non importa se di una guerra, di un terremoto o semplicemente del tempo).

Abel Posse, scrittore argentino, non solo cita la Yourcenar, ma ne segue i passi, per raccontare la parabola di vita di Eva Peròn, oltre il mito, oltre le note di una canzone o le immagini di film che certo non rendono a fronte di un personaggio così complesso e controverso.

E' un bel libro, un libro importante, La passione secondo Eva (Vallecchi editore). Non una biografia, nemmeno una storia linerare. Piuttosto un racconto corale, fatto di molteplici punti di vista, di coni di luce che si accendono e si spengono, di incursioni avanti e indietro nel tempo. E anche di malintesi, di equivoci, di amnesie che forse suggeriscono di più di tante memorie ufficiali.

Eva Peròn e il ventre profondo dell'Argentina in mano ai militari e ai latifondisti. Eva Peròn e la polverosa provincia da cui un giorno arriva questa ragazza minuta e bistrattata dalle circostanze, più voce calda che corpo oggetto del desiderio. Eva Peròn e la Buenos Aires del tango e dei teatri, dei caffè con cui si ammazza le notti e dei bordelli. Eva Peròn e la miseria di un popolo. Eva Peròn e una malattia che la porterà via troppo presto e che, certo, contribuirà non poco a insediarla per sempre nel cuore dei tanti.

Ci saranno saggisti e storici che sapranno spiegare meglio che cosa è stata e cosa ha rappresentato Eva Peròn. Ma quanta verità in questo libro. Quanta poesia.

lunedì 16 giugno 2014

L'uomo che raccontò il ghetto di Varsavia e non fu creduto

Il testo in sè sono solo poche pagine e verrebbe da dire: si possono leggere in poco, non fosse che pagine così non finiscono più di essere lette, non cessano di aggrapparsi al cuore e di affondare nella nostra carne viva le loro domande senza risposta. In tutta la letteratura della Shoah troviamo poco di altrettanto sconvolgente come Yossl Rakover si rivolge a Dio, l'estremo messaggio che un combattente del ghetto di Varsavia affida a chi verrà, mentre il cerchio della morte si stringe intorno a lui.

Sono parole di sgomento e di fede nonostante tutto, parole per cercare di dare un senso al Dio che si è nascosto - Credo nel Dio d'Israele, anche se ha fatto di tutto perché non credessi in lui. Credo nelle sue leggi, anche se non posso giustificare i suoi atti.

Eppure, del libro pubblicato ad Adeplhi, mi sembrano ancora più straordinarie le pagine - assai più abbondanti - con cui Paul Bodde ricostruisce la storia di questa opera. Perché di opera si tratta e non di testimonianza delle ultime ore della disperata resistenza di Varsavia. Un'opera che ha sempre avuto un suo autore, Zvi Kolitz, ebreo lituano che ai tempi della Shoah non era nemmeno in Europa, ma combatteva in Palestina. E che non ha fatto nulla per nascondersi, anzi. Solo che il mondo non gli ha mai creduto, convinto che pagine così non potessero arrivare che dall'inferno di Varsavia, essere testimonainza autentica.

Ci ha provato in molti modi, il buon Zvi Kolitz, che questo testo pubblicò in Argentina nel 1946 per poi trasferirsi a New York, dove ha continuato a scrivere e, tra le altre cose, è diventato buon amico di Isaac Singer. Però non ci è stato nulla da fare, non poteva che essere un millantatore.

Come perdonarglielo? Sarebbe un precedente pericoloso! Così facendo, non ci vuole nulla poi per sostenere che anche Auschwitz è un'invenzione, e via di questo passo....

Eppure era andata proprio così. Come si narra che un giorno il rabbino di Praga avesse creato il Golem dall'argilla, così Zvi Kolitz con le parole aveva dato vita - vita autonoma - a Yossl Rakover.

Un giorno sarebbe arrivata una testa come
Emmanuel Lévinas a dire di questo testo che era  "vero come solo la finzione può esserlo". Soprattutto sarebbe arrivato Paul Bodde, a trovare l'originale, stampato su una rivista oggi introvabile, conservata all'istituto ebraico di Buenos Aires che negli anni Novanta fu distrutto da un terribile attentato neonazista.

Verità e finzione che si inseguono e sovrappongono ancora una volta. Quel testo che si diceva spuntato tra le macerie e le ossa di Varsavia ed è finito sepolto tra le macerie e le ossa di Buenos Aires.

 

venerdì 29 novembre 2013

La storia di amore dell'anarchico di Buenos Aires

Singolare natura quella di quest'uomo. Si muoveva in maniera permanente in uno stato emotivo che andava dall'eroico al romantico, che straripava generosamente oltre i limiti dell'ordinario, del comune, della legalità, dell'ordine costituito. Non avrebbe mai potuto capire che cosa sono le imposte, le multe, i regolamenti, gli ordini, le patenti, le leggi, le proprietà. La società, che si fonda su questi principi, si sarebbe difesa con le unghie e con i denti da questo pericoloso dogmatico del libero arbitrio.

Che storia che ci racconta Osvaldo Bayer in Severino Di Giovanni. C'era una volta in America del sud (edizioni Agenzia X), una storia fatta di molti suoni e molte voci: i canti degli emigrati italiani, i colpi ripetuti degli scalpelli, le esplosioni secche delle armi da fuoco, le note triste del tango, il rumoreggiare delle folle in sciopero, le deflagrazioni delle bombe, i singhiozzi delle madri... Suoni, voci e anche odori: del mare, della polvere da sparo, dell'inchiostro.

Figura da romanzo, prima ancora che da biografia, quella di Severino Di Giovanni, anarchico dell'Abruzzo, scappato dall'Italia di Mussolini e deciso a inseguire la sua utopia tra le strade di Buenos Aires. Pronto a tutto, per questo.

Figura che non mi incanta, per il suo disprezzo della vita sua e altrui, per le bombe che sempre bombe sono, non importa il loro colore. Eppure che personaggio, Severino Di Giovanni, incredibile impasto di fanatismo e intelligenza, di coraggio e tenerezza.

Finì male, come era inevitabile: davanti a un plotone di esecuzione. Ma non è questo, sono sicuro, che vi resterà dentro dopo aver chiuso il libro di Bayer. Piuttosto la sua storia di amore con Josefina, l'adolescente che lo stregò. L'uomo che giocava con il tritolo sapeva sciogliersi in lettere d'amore come un liceale. Braccato come pericolo pubblico numero uno faceva di tutto per andare a prendere a scuola la fidanzatina.

Ci sono storie che sembrano uscire da un romanzo per abitare a modo loro la realtà. Una è di sicuro questa.




mercoledì 22 maggio 2013

Perchè la letteratura argentina ci è indigesta?

Che cosa ne sa veramente il lettore italiano - non parlo dello specialista - della letteratura argentina?

E che cosa ne ha tratto il lettore per definizione non specialista che dovrebbe essere lo scrittore della provincia italiana all'epoca della globalizzazione letteraria?

Perché se è vero, come recita una vecchia battuta, che l'argentino è un francese di origini italiane, è altrettanto vero che la sua migliore letteratura, così segreta, enigmatica, polimorfa, perversa, a volte paranoica, in ogni caso così aliena dagli imperativi della verosimiglianza e del colore locale, è sempre stata un po' indigesta ai nostri palati.

(Da Massimo Rizzante, Dimenticare Borges, Repubblica del 3 maggio 2013)

mercoledì 3 ottobre 2012

Se un bambino scrive dei suoi eroi

Dalla Spagna dove nell'estate 1982 la nazionale azzurra mise in riga Argentina, Brasile e Germania conquistando la Coppa del Mondo all'Italia devastata dalla occupazione nazifascista. Dal Piemonte dei vigneti e delle colline all'Unione Sovietica di Breznev, quando il comunismo ancora era un'idea e una speranza per qualcuno.

Quante cose, in La stilografica di Piazza del Cavallo di Alberto Guasco (Mauro Pagliai editore), che unisce mondi e anni che sembrano appartenere a pianeti diversi, non fosse che a unirli c'è proprio la parola, anzi, le parole di un bambino di sei anni, a cui la maestra, come tema per le vacanze, ha chiesto di raccontare un eroe.

E chi sono gli eroi, per un bambino, magari per un bambino cresciuto, che molti anni più tardi si trova ancora a scrivere quel tema? Forse anche Paolo Rossi, con i suoi gol da leggenda. O forse il nonno, militare e partigiano durante la seconda guerra mondiale. O forse il padre, che appunto, da neolaureato, fu catapultato in Unione Sovietica.

La parola come ponte. Il filo della memoria. E per fermare l'una e l'altra qualcosa che rimane e passa di generazione in generazione: quella stilografica con l'inchiostro verde che il nonno, durante la guerra, adoperò per scrivere le sue lettere d'amore.

Può passare inosservata, una stilografica. Può perfino essere persa. Ma che bello che ci sia ancora.

E qualcosa del genere vale anche per questo libro, per questa voce originale che è bene non passi inosservata.




Nell'estate del 1982, nei giorni del trionfo azzurro ai mondiali di Spagna, un bambino di prima elementare si trova a fare i conti con il tema assegnato per le vacanze: deve cercare, tra i propri familiari, un "eroe" di cui raccontare le avventure. Ascolterà i racconti del nonno, militare e partigiano durante la seconda guerra mondiale, e quelli del padre, neolaureato catapultato nell'Unione Sovietica di Breznev alla fine degli anni Sessanta. Il risultato è un racconto in forma circolare sul filo della memoria: una lunga lettera, piena di ricordi e pervasa da una sottile ironia, che il protagonista consegnerà alla maestra delle elementari soltanto trent'anni dopo.

mercoledì 5 settembre 2012

Quel viaggio aveva il marchio indelebile dei commiati. Ovunque ci dirigessimo, sempre al sud del 42° parallelo, la gente ci diceva che tutto stava cambiando molto in fretta, e non in meglio. Se negli anni Settanta scomparivano le persone ingoiate dalla macchina dell'orrore, in quei giorni scomparivano cose che fino ad allora erano sempre naturalmente esistite, come parte indiscutibile della vita.

E' facile convincersi che in Patagonia niente possa cambiare. E' facile, se guardi il suo cielo stellato, se macini gli infiniti chilometri delle sue distese, se semplicemente ti abbandoni al vento che non cessa un attimo, vento che passa, vento che dura più delle rocce.

E' facile, però succede che un giorno, bevendo mate a Parigi, uno scrittore come Luis Sepulveda e un fotografo come Daniel Mordinski concepiscano un viaggio in Patagonia. Scenderanno l'Argentina fino a Capo Horn, risaliranno il Cile fino all'Isola Grande di Chiloè. Tremilacinquecento chilometri, più o meno, da cui distillare un libro come un atto di amore.

Poi per anni quell'idea - il libro, non il viaggio - rimane lì, come sprofondata in un sonno che è meglio non disturbare. I libri sono davvero bestie molto strane, imprevedibili, non li puoi forzare, devi attendere che si sveglino da soli.

E quando il momento arriva, il libro è già diventata un'altra cosa. La Patagonia è cambiata, non è più quella di Bruce Chatwin o di Francisco Coloane, si respira un'aura di inesorabilmente perduto.

E queste pagine sono allora un inventario delle perdite, un prezzo esoso pagato al tempo, l'ennesima domanda che insegue il verso di Kavafis:

E ora che faremo senza i Barbari?

giovedì 13 ottobre 2011

Tutto ciò che serve a un libro di viaggi

Leggetelo tutto, perché merita, ma leggete con particolare attenzione le prime pagine de Il cacciatore di ombre (Vallecchi, collana Off the road), il libro che Tito Barbini dedica a quello straordinario personaggio che fu Don Patagonia, cioé Alberto Maria De Agostini, missionario ed esploratore di altri tempi riscoperto attraverso un viaggio in Argentina.

Leggete quelle pagine perché c'è tutto o quasi tutto quello che si deve pretendere dalla letteratura di viaggi.

Dice Tito:

Mi viene da  chiedermi se una storia può essere raccontata da uno scrittore senza che ci metta dentro la sua immaginazione

E ha ragione, Tito, perché la letteratura di viaggio non può essere solo resoconto, diario, cronaca, ha bisogno di quella immaginazione che Giacomo Leopardi definiva la prima fonte della felicità umana.

Dice Tito:

Ho sempre pensato che le storie di viaggio non siano mai storie personali

E ha ragione, Tito, perché il racconto di viaggio è in primo luogo viaggio condiviso.

Dice ancora Tito di non preoccuparsi troppo del tempo e dello spazio che prova a separarci, tanto anche le storie più distanti possono camminare insieme.

E se ci pensate, i nostri viaggi non sono mai solo spazio, sono sempre anche nel tempo.

giovedì 1 settembre 2011

Tito e Don Patagonia, cacciatori di ombre

C'è una frase che ci arriva dall'antica saggezza greca, per diventare un titolo di Antonio Tabucchi ma anche la chiave di lettura dell'ultimo bellissimo libro del mio amico Tito Barbini (Il cacciatore di ombre, Vallecchi, collana Off the Road)

Inseguendo l'ombra il tempo invecchia in fretta

E questo è davvero un libro in cui si insegue un'ombra per trovare molte ombre, popoli di ombre. Un libro che in questo inseguimento si impasta di tempo, si fa tempo, si preoccupa del tempo. Senza che in questo modo, necessariamente, il tempo debba invecchiare in fretta. Anzi, mi sa che è solo così, facendo in modo che il viaggio non sia solo distanza, ma anche profondità (e quindi tempo), che il tempo si rinnova e torna a farci compagnia.

Ho cominciato, in questo modo. Ma forse avrei dovuto dire subito che Tito questa volta ha spiazzato anche me. Spiazzerà anche voi, se grazie alle sue pagine vi siete fatti portare tra i ghiacciai della Terra del Fuoco o se con lui avete attraversato le distese dell'Antardide o risalito le correnti del Mekong.

Mi ha spiazzato, perché nel momento stesso in cui ci racconta un viaggio autentico -  e si respira la sua stessa aria, si sente la sua stessa fatica  - Tito riesce a sovvertire convenzioni, luoghi comuni, dati di fatto troppo scontati per non diventare prigione.

Insegue un'ombra, Tito, l'ombra di un uomo straordinario, Alberto Maria De Agostini (per inciso, il fratello del De Agostini sulle cui carte abbiamo tutti studiato e sognato), geografo, alpinista, fotografo, esploratore (uno degli ultimi grandi esploratori della nostra storia), missionario controcorrente, testimone del genocidio degli ultimi indios dell'America australe (altre ombre...). Un uomo che in Italia ci siamo troppo facilmente dimenticati, sarà perché pone qualche domanda imbarazzante, sarà che troppo spesso ci fa fatica guardare oltre il risaputo. In Argentina e in Cile, no, De Agostini è Don Patagonia, un mito, un monumento, un chiaro ricordo.

Ma non è questo, ovviamente, a spiazzare. Tito non cerca la biografia, ma il viaggio. E non il viaggio sulle orme di chi è già passato. Il viaggio in compagnia.


Non ho mai provato a definire in modo preciso le ragioni per cui mi sono messo a viaggiare con De Agostini, anche perché mi sembrava che fosse naturale. Succede che quando incontri per la prima volta alcune persone ti sembra di conoscerle da sempre.
Comunque uno dei motivi è di sicuro che con lui potevo andarmene via, puntare altrove

Viaggiano insieme, Tito e Don Alberto. L'ex militante comunista e il missionario cattolico. L'uomo che ci è contemporaneo e l'uomo a cavallo dell'Otto e del Novecento. Il vivo e il morto. I due vivi, anzi. I due cacciatori di ombre.

domenica 7 agosto 2011

Non c'è più la libreria del signor Schiffer

Salviamo i librai come il signor Schiffer, scriveva l'amico Tito Barbini, in una delle più belle pagine che ci ha regalato sui suoi giorni a Buenos Aires (sarà pubblicata anche sul suo prossimo libro, Il cacciatore di ombre, in  uscita per Vallecchi in queste settimane)

Raccontava, Tito, di come aveva scoperto per caso quella libreria, mentre ritornava dalla tomba di Evita, camminando lungo il muro del Cimitero della Recoleta.  Una libreria dal sapore antico con dentro un interno mondo anch'esso antico.

Scriveva, Tito:

Dietro il bancone, un anziano signore dall'aria distinta consultava alcuni cataloghi buttando di tanto in tanto un occhio a un vecchio computer sulla scrivania. Intorno all'anziano libraio, con gli occhiali e il maglione rosso, antichi mobili di ciliegio custodivano sotto chiave rarissimi e preziosissimi volumi dal valore sicuramente inestimabile

Regnava il silenzio più assoluto, un silenzio rotto soltanto dal rumore delle pagine sfogliate e dei passi che scricchiolavano sul legno del pavimento.


 L’avevo scoperta per caso e subito mi rammentò un bellissimo film con Anthony Hopkins e Anne Brancroft. Ricordate? Helen è una scrittrice americana che vive a New York, è alla ricerca di alcuni libri rari. Entra in contatto con una libreria specializzata di Londra, al numero 84 di Charing Cross (e questo indirizzo è anche il titolo del film). Inizia una relazione epistolare con il direttore della libreria: continuerà anche se i due non s’incontreranno mai.

Per me questa libreria di Baires è diventata l’equivalente della libreria all’84 di Charing Cross.


Fantasticava, Tito,  dell'idea di scriversi con il signor Schiffer. Di tanto in tanto si sarebbe fatto spedire un bel libro, raro e importante, introvabile in Italia.

Sapete, più tardi qualcosa della libreria del signor Schiffer avrebbe trovato anche la strada di casa mia. Quel giorno - o forse un altro, non so - Tito riempì il suo zaino di volumi. E uno di essi, una rara edizione argentina di Emilio Salgari, me lo regalò, al suo ritorno.  Vai a prevedere i destini dei libri, le loro rotte e i loro porti, capaci come sono, i libri, di attraversare oceani e continenti.

Ora Tito scrive sul suo bellissimo blog che la libreria del signor Schiffer ha chiuso. Non ce l'ha più fatta a quadrare i conti.

Pensare che solo l'altra sera io, lui e Andrea Bocconi, c'eravamo trovati a Bagno Vignoni per una conversazione sui libri di viaggio organizzata da Toscanalibri. A cena avevamo parlato a lungo delle piccole coraggiose librerie sparse per l'Italia, da difendere con le unghie e con i denti.

E ora, questa notizia che arriva dall'Argentina.  Non c'è più, questa libreria che non inseguiva le novità, ma l'amore per i libri.

E' lontana, l'Argentina. Ma non tanto da non sentirmi un po' più povero oggi.

Ps: forse non vi è mai capitato di varcare la porta del signor Schiffer, ma a Bagno Vignoni, per dire, c'è una di quelle piccole coraggiose librerie. Siete sempre a tempo

mercoledì 13 ottobre 2010

Dall'Argentina quel libro che ci mancava

Un mattino d'ottobre del 192..., quasi a mezzogiorno, sei uomini entravano nel Cimitero del Oeste recando a braccia una bara di modesta fattura (quattro fragili tavolette) e di tale leggerezza che sembrava di portarvi non la carne sconfitta di un uomo morto, ma la delicata materia di un poema concluso

Ecco, è questo l'incipit, di Adàn Buenosayres, poderoso romanzo di Leopoldo Marechal che in questi giorni è stato presentato alla Fiera di Francoforte.

Non l'ho ancora letto, ma ce l'ho già con me, in rampa di lancio per così dire. Ogni giorno accarezzo la splendida copertina dell'edizione italiana e non mi fa paura la sua mole. E' un periodo in cui prediligo le letture svelte, ma presto attaccherò le sue 700 e passa pagine.

Comincerò da lì, da quelle parole in cui il narratore accompagna il feretro del poeta Adàn e dichiara di volerci raccontare i tre giorni decisivi della vita di questo suo amico perduto. E andrò avanti.

Mi aspetto molto, da questo libro. Ma intanto sono contento solo per il fatto che sia uscito. Perché è così: uscito nel 1948, dopo ben 20 anni di lavoro, Adàn Buenosayres è stato riconosciuto come il capolavoro della letteratura argentina del Novecento e  il suo autore è stato affiancato ai nomi di Borges e Cortazar. Ma in Italia nessuno lo aveva mai pubblicato. Ci mancava, semplicemente.

E' uscito ora per la Vallecchi. Ed è davvero un buon segno, soprattutto in un periodo così difficile, quando una casa editrice dimostra non solo intelligenza, ma anche il coraggio della scelta.

lunedì 11 ottobre 2010

Baires, città invisibile, città dei libri

Buenos Aires, anzi Baires: la città dei libri.

Città di asfalto e mattoni, come tutte le città, ma anche città di carta, città che grazie alla carta, si fa fantasia, sogno, storia e storie.

Così ne parla Laura Pariani, in una bella pagina di Tuttolibri, che presumibilmente nasce anche da una circostanza specifica (l'Argentina paese ospite alla Fiera di Francoforte), ma che in realtà succhia la sua linfa da ciò che di Baires sa chiunque ami i libri: e pertanto sa che qui si potrebbe trovare decisamente a suo agio.

Non è per librerie e per le bancherelle, non è nemmeno per i suoi caffè letterari e per le sue accademie. Piuttosto è per come i libri hanno vissuto e raccontato questa città. Per i segni lasciati dai tanti scrittori che hanno respirato la sua aria.

Dice Laura Pariani:

Gli scrittori, anche quelli morti da gran tempo, danno carne e sangue a questa città... Cammina, cammina i libri palpitano a ogni angolo

Julio Cortazar, Adolfo Bioy Casares, Ernesto Sabato, Roberto Arlt, José Pablo Feinmann, Leopoldo Marechal (e a proposito, complimenti alla Vallecchi, la casa editrice che ha avuto il coraggio di portare in Italia Adàn Bueonosayres), e poi il più grande di tutti, o almeno quello che mi è più caro, Jorge Luis Borges... e quanti, quanti altri.

Passi che risuonano ancora, orchestre di tango che sembrano appena uscite da un romanzo, il tavolino di un caffè dove forse un pensiero è diventato parola, tramonti e albe livide, un gol del Boca Junior che sa di poesia...

Non credetemi se vi confesso che a Buenos Aires non ci sono mai stato. Forse ci sono stato decine e decine di volte. Forse l'ho costruita anch'io, come ha fatto Italo Calvino con le sue città invisibili. Ricordate?

Questo libro nasce un pezzetto per volta, a intervalli anche lunghi, come poesie che mettevo sulla carta, seguendo le più varie ispirazioni

Questi libri, questa città.

sabato 4 settembre 2010

L'Argentina dei libri e l'Argentina degli emigrati

Non sono mai stato in Argentina, ma se un giorno riuscirò ad andarci sono convinto che la confonderò facilmente con il sogno dell'Argentina che mi accompagna da molti anni. Un'Argentina quasi esclusivamente letteraria, anche se non manca certo una buona colonna sonora. Le pagine di Jorge Luis Borges, ma anche quelle del mio amico Tito Barbini. Le storie di Magellano e degli ultimi indios. I racconti sul calcio e dintorni del grandissimo Osvaldo Soriano, che sapeva trasformare le parole di calcio in poesia, cosa del resto che faceva anche Maradona in campo. Qualche pennallata di Corto Maltese e poi anche le sottili inquietudini metafisiche di Julio Cortàzar. E così via.

Non avevo messo a fuoco - colpa mia - l'Argentina dei nostri emigranti. L'Argentina che per diversi anni è stata un'altra "Lamerica", forse migliore dell'altra, quella che accoglieva, si fa per dire, a Ellis Island. Storie comunque di fatica, sudore, emarginazione, non solo di speranza.

Ci ho pensato l'altro giorno, leggendo il libro di Erri De Luca Il giorno prima della felicità. Ci sono alcuni passi bellissimi su questa Argentina, fissati attraverso il racconto di uno dei personaggi, Don Gaetano: vent'anni di Sudamerica di cui riesce a rammentare quasi esclusivamente il viaggio, l'oceano.

I viaggi sono quelli per mare con le navi, non coi treni. L'orizzonte dev'essere vuoto e deve staccare il cielo dall'acqua. Ci dev'essere niente intorno e sopra deve pesare l'immenso, allora è viaggio. Qualcuno piangeva, pure nella miseria, che lo costringeva, gli rimordeva la perdita. Tranne pochi e peggiori, nessuno aveva spirito di avventura. I soldi del biglietto erano stati raccolti dai risparmi di varie famiglie. Erano il loro investimento nel futuro. Sarebbero stati rimborsati dalla riuscita del loro parente. Il compito schiacciante, l'obbligo di fare fortuna, sgomentava come la vastità del mare. A chi piangeva, dicevo che così allungava l'oceano con altra acqua salata. Il viaggio doveva servire a dimenticare il punto di partenza. Durava quasi un mese e alla fine sbarcavano uomini pronti, con il naso per aria

Poi l'Argentina è il passato che viene tagliato, una nuova vita che non si sa, ma che sarà comunque diversa: 

In Argentina ho dimenticato. Ogni cosa nuova che imparavo ne cancellava una della vita di prima

Un'opportunità, comunque, sul tavolo verde della vita. Fa bene ricordarsi tutto questo oggi.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...