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lunedì 30 dicembre 2019

A chi importa della rivoluzione perduta e dei suoi poeti

Anni di poeti. Anni del Nicaragua, l'ultima rivoluzione del '900. Andammo tutti a vederla, almeno tutti coloro che potevano permetterselo, tutti coloro che avevano gli anni per farlo, noi che eravamo ancora vivi nelle utopie.

A chi volete che importi del Nicaragua, di cosa è successo e di cosa succede? E perchè rivangare le storie di un paese che si fa fatica a rintracciare nelle carte dell'America, di una rivoluzione che come quasi tutte le rivoluzioni va archiviata tra i fallimenti?

Si capisce che è questa domanda che ha accompagnato la scrittura impetuosa, appassionata, autentica di Andrea Semplici ne La rivoluzione perduta dei poeti  (Polaris edizioni). Si capisce che con questa domanda ha combattuto fino all'ultimo, provando a sommergerla con la forza liquida delle parole, dei sogni, dei desideri, persino dei desideri che non si sono realizzati. Si capisce anche che questo libro - tra i più belli che abbia letto in questi anni anni, potrei non dirlo malgrado l'amicizia che mi lega ad Andrea, ma lo dico - è compimento di un lavoro tenace e di una promessa mantenuta, perché c'è un passato che deve sempre concedersi un varco per il futuro, ci sono conti che comunque devono essere regolati.

Il Nicaragua me lo ricordo anch'io, benchè fossi poco più di un ragazzino dalle confuse idee di rivolta e la fame di altri paesi. I crimini della dittatura di Somoza, le porcherie delle multinazionali, il coraggio e la persevanza dei ribelli sandinisti. La rivoluzione che -  incredibile - ebbe la meglio, solo che non fu come una fiaba che può concludersi col vissero felici e contenti. Dopo ci furono l'America di Reagan che si mise di traverso, la guerra sporca dei contras, il blocco navale. Il governo nato dalla rivoluzione arrivò stremato alle elezioni, le perse e - incredibile - passò la mano senza colpo ferire. 

Accantonai alla svelta la delusione, seguirono altri eventi, altre inquietudini e urgenze. In fondo era successo anche nel Burkina Faso, la terra degli uomini libri e di Thomas Sankara tradito. Geografie remote, cicatrici che tutto sommato si rimarginano. 

L'ultima rivoluzione? Intanto c'era il comandante Marcos nelle foreste del Chiapas, intanto si poteva far festa per la caduta del Muro di Berlino, intanto c'era qualcosa che stava succedendo nelle terre dei curdi. Le cose non rimangono mai uguali a se stesse, le cose si mettono sempre sempre in movimento.

 Insomma, a chi volete che importi del Nicaragua? Questa domanda vale per tutti, vale anche per me. Meno male che Andrea l'ha messa a tacere questa domanda. La sua risposta è un atto di amore, una storia di viaggio che è speranza, dolore, malinconia. 

Nicaragua, la rivoluzione dei poeti, perché non c'è nessun posto al mondo dove la poesia è più coltivata, amata, condivisa, capace di farsi resistenza e possibilità. Da Rubèn Dario, padre della poesia latinoamericana, fino a quel monaco dai capelli bianchi e dagli umori impossibili, Ernesto Cardenal, che fu ministro della cultura nel governo sandinista. 

Poesia che precede, alimenta, accompagna la rivoluzione, grande poesia che tale rimane al di là delle contingenze della politica e delle pretese dell'ideologia, poesia per un continente intero e per tutti noi, poesia che fa di questo libro un libro di poesia e sulla poesia. Allo stesso modo di un minuscolo saggio di tanti anni fa che mi destò analoghe emozioni, Una generazione che ha dissipato i suoi poeti di Roman  Jacobson, su Majakovskij, Esenin, Blok e gli altri poeti della Rivoluzione Russa. 

Poeti che attrraversarono la storia, che la animarono e ne furono animati, tranne poi dalla storia essere travolti. Perché è così con i poeti, in Russia come in Nicaragua:sono un passo avanti, sono i primi a cadere. Forse sospettano fin dall'inizio che le rivoluzioni più belle sono quelle che non vincono. O che perdono poco dopo aver vinto. Come in Nicaragua, con quella sconfitta impossibile che fu anch'essa poesia. E meno male che rimane la poesia, capace, lei sì, di sopravvivere ai governi.

 
PS. Tra i molti meriti del libro c'è anche la prefazione della grande Gioconda Belli, donna che di poesia e di rivoluzione se ne intende come poche al mondo.

giovedì 11 ottobre 2012

Quando lo zucchero attraversò l'oceano

Raccontano che nelle stive della sua nave ci fosse una canna di color biancastro raccolta in una piccola piantagione alle isole Canarie. Durante le settimane della traversata aveva assunto tonalità violacee. Ne aveva cura un galeotto esperto di erbe: bagnava con amore la terra dove quella canna così preziosa era stata trapiantata.

In Sicilia, a Cipro, a Creta, nelle terre arabe della Spagna già si coltivava quella pianta che cresceva fino a quattro, cinque metri di altezza. In Oriente la chiamavano sakkara. 

Era arrivata nel Mediterraneo grazie ai navigli veneziani e genevosi, ai loro commerci con i credenti della religione di Maometto. I musulmani l'avevano piantata attorno a Granada. Gli arabi amavano quel succo dolce che rendeva un piacere mangiare e bere. 

Colombo aveva assaggiato lo zucchero. Ebbe uno dei suoi istinti improvvisi e ordinò che quella canna che si moltiplicava con facilità fosse stivata fra le sue merci personali. 

Era un genio inconsapevole, l'Ammiraglio: le isole del caldo soffocante erano terre perfette per coltivare canna.

Ma Colombo fu stupido: pensò più all'oro che allo zucchero. E sbagliò. Sarà l'"oro dolce" e non il metallo giallo a scrivere la storia dell'isola lontana dal mare. 

(da Andrea Semplici, L'isola lontana dal mare, Terre di Mezzo editore)

lunedì 24 settembre 2012

L'isola lontana dove tutto è cominciato

Qui, nell'isola lontana dal mare, dove tutto è cominciato.

E' stato qui che il primo uomo bianco ha calpestato terre fertili e giocose, terre che apparterranno a quel Nuovo Mondo che sarà conosciuto come le Americhe. 

Qui, per la prima volta, un uomo bianco guardò negli occhi altri uomini dalla pelle color dell'ambra e non li riconobbe come fratelli. 

Qui fu commesso il primo crimine di questi continenti. Qui nacque il primo mulatto. Non ci è stato detto se figlio del primo impossibile amore o della prima violenza.

Qui venne lanciato il primo grado di ribellione di un popolo indigeno. Qui venne piantata la prima croce.

Furono murate le pietre della prima chiesa del cristianesimo di oltreoceano, "catedral primada de America". Rintoccò la prima campana. Fu fondata la prima università. Che altro?

L'isola, il suo Occidente, fu il primo Paese di quello che sarà chiamato Terzo Mondo a indebitarsi per l'eternità. Una sola volta l'isola ha ceduto un primato: qui è stato proclamato il secondo paese indipendente delle Americhe dopo gli Stati Uniti. Ma era, e questa è gloria, la prima repubblica di un popolo nero.

Tutto è davvero cominciato nell'isola che non conosce gli inverni.

(da Andrea Semplici, L'isola lontana dal mare, Terre di Mezzo editore)

domenica 9 settembre 2012

Un mondo nascosto nell'isola dello zucchero

Storia che viene da lontano, storia che sa di spezie e di sudore, di zucchero e di fame. Storia aggrovigliata a una frontiera che solo la follia o il cinismo hanno potuto concepire. Storia che porta i segni delle scudisciate, della fatica, del rancore. Le piantagioni e gli schiavi. Gli schiavi e le rivolte. Storia di dittatori e di disperati, di multinazionali che governano come Stati e di Stati come beni di famiglia. Storia di un'isola dove il mare non c'è, non si vede, non è nemmeno un orizzonte che si dischiude, un sogno di libertà.

Che gran libro che ha scritto Andrea Semplici, a mio parere uno dei più grandi giornalisti scrittori italiani di viaggio, sarà che per lui il viaggio non è mai solo viaggio, sarà che i suoi passi attraversano anche la storia ignorata e molti libri amati, sarà che il suo cammino è un bagaglio leggero con le poche cose che contano: curiosità, inquietudine, voglia di mettersi in gioco, fame di sguardi e di abbracci.

L'isola lontana dal mare, il titolo, uscito per Terre di Mezzo. E l'isola è Hispaniola, la prima terra delle Americhe toccata da Cristoforo Colombo, sipario spalancato sul Nuovo Mondo. Haiti da una parte, Santo Domingo dall'altra. Miseria e terremoto da una parte, miseria e spiagge bianche per turisti, dall'altra.

Solo che Andrea si spinge lontano dai posti dove è bello sedersi e sorseggiare un cocktail, accogliendo il respiro del mare. All'interno, dove si spalancano le piantagioni di canna da zucchero, dove si nascondono i batey, le baracche di chi ci lavora, universo chiuso di dolore, violenza, vite che si intrecciano e si sprecano.

Dalle navi negrerie alle rivolte, dai generali sterminatori a un presente dove la carne da lavoro non serve più, sembra non servire più, e anche le multinazionali sono più attente, più disponibili, più eque e perfino solidali, figurarsi, però i figli e i nipoti dei neri sono sempre lì, sempre aggrappati a un presente senza futuro.

Che libro, che ha scritto Andrea Semplici, accompagnato da Andrés, il vecchio raccoglitore di canna, e dalle parole di Garcia Marquez. Convinto, con la forza del cuore, che a queste stirpi condannate a cento anni di solitudine debba essere data una seconda opportunità.

E si può cominciare anche da un libro. Corridoio di luce nel folto delle piantagioni dello zucchero. 

venerdì 8 ottobre 2010

Kapuscinski e il dovere dell'insoddisfazione

Il primo gesto di ogni vero viaggio ha qualcosa di lento. Non credete a chi si mostra deciso, privo di dubbi e incertezze

Basta per cominciare, basta e avanza, perché sfido io a trovare incipit così, due righe e già un pensiero che ti prende alla sprovvista e poi ti rassicura: vedi, il viaggio è come la vita, solo che viene di dimenticarselo.

Comincia così e ci vuole davvero poco per capire che questo libriccino di Andrea Semplici, In viaggio con Kapuscinski. Dialogo sull'arte di partire (Terre di Mezzo), è uno dei migliori investimenti in carta che si possono fare, tre euro per poche pagine e un concentrato di bellezza ed emozione.


Andrea Semplici, giornalista e viaggiatore, o viaggiatore e giornalista, ci porge così i ricordi che si porta con sé di un altro giornalista e viaggiatore (o viaggiatore giornalista), fin dal momento in cui lo incontrò per la prima volta:

Avevo immaginato che mi sarei trovato di fronte Indiana Jones e, invece, ero assieme a un signore timido e gentile, dagli occhi sorridenti. Capii che se fosse stato diverso non avrebbe mai potuto scrivere quanto ha scritto: bisogna essere umili per raccontare

E poi i viaggi, le parole, i pensieri condivisi.

Un giorno Kapu gli disse:

Il nostro dovere è essere insoddisfatti, cambiare sempre punto di vista, ma avere rispetto per il mondo


E finché ha vissuto si è fatto ricco di questa insoddisfazione.

giovedì 17 giugno 2010

Quando il viaggiatore non è un cinico


Ho già parlato del libriccino di Andrea Semplici In viaggio con Kapuscinski. Dialogo sull'arte di partire (Terre di Mezzo), una manciata di pagine che consiglio a chiunque sta per partire come si raccomanda l'antimalarica per certi paesi, lettura breve ma capace di alimentare molte e molte riflessioni che fanno bene. Eccone una, per esempio, che parte dal giornalismo - il mestiere di reporter del grande Kapuscinski - per abbracciare lo spirito che dovrebbe appartenere a tutti coloro che distendono le vele e salpano per il mondo.

Chi sei, Kapu? Una volta hai detto (ed è una delle tue frasi più famose e ripetute): "Un giornalista non può essere un cinico, non può dimenticare la sua umanità e quella delle persone che incontra". Ho provato a sostituire la parola "giornalista" con la parola "viaggiatore", e ho scoperto che il racconto (compresa la cronaca giornalistica) e il viaggio sono fratelli. Forse, anzi, sono sorelle, perché vi intravedo un'anima femminile. Il viaggiatore deve avere le stesse qualità di chi si mette in movimento per scrivere. Non può essere cinico o sbruffone. Deve essere "buono". Deve provare "benevolenza" verso l'umanità

lunedì 17 maggio 2010

Quando Kapuscinski aveva fame di mondo


E' un piccolo gioiello il libriccino di Andrea Semplici, In viaggio con Kapuscinski. Dialogo sull'arte di partire, che mi sto centellinando in questi giorni, un paragrafo o poco più ogni mattina, per non bruciarlo tutto di colpo. Trenta paginette formato pocket per i Piccoli di Terre di Mezzo (anche il prezzo è piccolo, tre euro, all'incirca una colazione al bar), ma tante tante cose dentro.

Ne parlerò tra qualche giorno, ma intanto mi piace riportare il passo con cui, di fatto, comincia la storia di Kapuscinski, grande viaggiatore, grande reporter. Che formidabile parabola. La voglia di attraversare il confine ai tempi in cui, soprattutto in Polonia, più che confini c'erano muri invalicabili; una caporedattrice che nella grigia Varsavia del regime riconosce quella fame di mondo e trova il modo di placarla; e poi il regalo inatteso, le Storie di Erodoto, forse l'unico vero capolavoro di letteratura di viaggio in un paese che non prevedeva la libertà del viandante... Ecco qui, cosa scrive Andrea.


Un giorno la sua caporedattrice (bisogna ricordarne il nome: si chiamava Irena Tarlowska, senza di lei la storia sarebbe stata diversa) gli chiese che progetti avesse. E lui rispose: "Vorrei andare all'estero". Lei, ricorda Kapu, ne fu spaventata. Nell'Est europeo, questa poteva essere una colpa, il sintomo di una ribellione inaccettabile...
Doveva essere una grande donna, Irena. E di buona memoria. Un anno dopo quell'incontro nel grigio corridoio di un giornale di Varsavia, chiamò Kapu e gli disse: "Ti mandiamo in India". Fu il panico nel cuore del giovane redattore. Ricordate? E' lo stesso che vi afferra quando state chiudendo la valigia e vi apprestate a varcare la soglia di casa. Ma Kapu si aggrappò al suo sogno. Forse già conosceva il poeta Celan, Irena, che era una donna meravigliosa, aprì un armadio, ne estrasse un libro e lo regalò a quel ragazzo dagli occhi colmi d'acqua. Era Erodoto, erano le sue Storie.
Francamente non so quanto ci sia di vero o di romanzato in questo ricordo che prende forma sulle pagine di uno degli ultimi libri di Kapu, In viaggio con Erodoto. Ma so che ci sarebbe voluto Pindaro, un altro greco, anche lui poeta, accanto a Erodoto. Pindaro aveva scritto: "Sii navigante che apre la vela al vento". Ryszard si affidò al vento, al caso. Ebbe coraggio e varcò quella frontiera. Non si sarebbe più fermato.

mercoledì 5 maggio 2010

Rousseau e gli altri filosofi-camminatori


Quando il camminare è viaggio, meditazione, riflessione, apertura al mondo, dialogo con la varietà del mondo. Non so quanti di voi conoscono Andrea Semplici: per me è uno dei migliori giornalisti e scrittori di viaggio in circolazione in Italia. Se andate sul suo sito troverete molte cose davvero belle, compresi interi reportage. Io vi suggerisco il suo testo sul camminare, da cui vi estraggo questo passaggio. Attraverso le Confessioni di Jean-Jacques Rousseau emerge la profonda sintonia tra i passi e i nostri pensieri migliori. Da leggere, ma soprattutto da provare.


‘Non riesco a meditare se non camminando. Appena mi fermo, non penso più, e la testa se ne va in sincronia con i miei piedi’. Sono parole, amate dai camminatori-filosofi (o dai filosofi-camminatori) di Jean-Jacques Rousseau. Appaiono nelle sue Confessioni. La storia del camminare come atto culturale è davvero recente. Poco più di due secoli fa: se Wordsworth (nato nel 1770) compie i primi passi letterali, Jean-Jacques Rousseau (nato quasi sessanta anni prima del poeta inglese) avvia il cammino dei filosofi che devono sentire le gambe muoversi per mettere in movimento anche i pensieri. L’esordio di Rousseau come camminatore è avvolto da un aneddoto leggendario: aveva quindici anni, il giovane Jean-Jacques, tornava da una gita domenicale nelle campagne attorno a Ginevra: è in ritardo e le porte della città sono già chiuse. Il giovane Rousseau non si dispera e continua a camminare fino a oltrepassare i confini della Svizzera. Il camminare diventa la metafora dell’uomo semplice. Nello stato di natura, l’uomo ‘erra nella foresta, senza industria, senza parole, senza domicilio, senza guerra e senza associazione, senza alcun bisogno dei propri simili, come pure senza desiderio di nuocere loro’. Il ribelle Rousseau riesce a pensare solo camminando: ‘Bisogna che il mio corpo sia in moto perché io vi trovi il mio spirito’. Jean-Jacques Reausseau pone ‘le basi per l’edificio ideologico dentro il quale il camminare sarebbe stato racchiuso’. E, come un destino, il filosofo morirà camminando in uno dei suoi paesaggi più amati.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...