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lunedì 4 maggio 2020

Cento viaggi con la matita: Guido Gozzano e l'India

E' dai tempi del liceo, quando l'antologia di italiano mi fece planare verso i poeti crepuscolari, che mi piace tornare al suo mondo di care piccole cose, tanto decenti quanto di gusto discutibile, come i soprammobili nel salotto buono di una vecchia zia. 

Guido Gozzano occupa un posto particolare tra le mie letture, con i suoi versi teneri e malinconici. Amo il suo essere poeta con timidezza e imbarazzo, lui che diceva cose così: Dopo tutto la poesia è la cosa meno necessaria di questo mondo. Che in realtà era un modo per ammettere che non ne poteva fare a meno.

Però meritano anche le lettere che scrisse non da uno borghesissimo studio del Piemonte fin di secolo (intendendo l'Ottocento) ma niente di meno che dall'India. Sorprendenti per una persona che non è facile nemmeno immaginarsi che possa partire e andare così lontano. 

Gozzano in India arriva nel 1911, non come uno scrittore in cerca di materiali per un libro, ma come un giovane avvocato torinese malato di tubercolosi, in cerca di chissà che cosa,  forse di un'aria migliore, forse di un'altra vita. Di una guarigione comunque, che chissà forse ha meno a che vedere con i polmoni che con le inquietudini della vita. 

Qualcosa che alla lontana sa di Tiziano Terzani, insomma.

C'è chi ha scritto che Guido Gozzano è il viaggiatore che vede e racconta quasi soltanto se stesso, ma in ogni caso c'è anche l'India, l'esperienza dell'India, in queste lettere prima pubblicate sul quotidiano La Stampa e poi raccolte nel volume Verso la cuna del mondo (oggi riedite da Edt).

Sono belle, anche se ho fatto fatica a riconoscere nel poeta dei salotti dell'Italia giolittiana l'uomo che parla di Bombay metropoli ospitale oppure di Goa, misteriosa e spiazzante.

Però, a pensarci bene, in India c'è già stato: cento volte - ammette lui stesso - con la matita, durante le interminabili lezioni di matematica. Viaggiatore da fermo, come quell'altro esploratore di carta che appartiene agli stessi anni, come a tutti i ragazzi che fantasticano: Emilio Salgari. 

E sì, in questo mescolarsi di sogni e nostalgie, di avventure del cuore e di letture intrepide, io ritrovo il Gozzano poeta, il Gozzano di quei salotti, di quei pomeriggi, di quelle occasioni sfumate.

mercoledì 20 gennaio 2016

Con Puck il folletto nell'Inghilterra che fu

Lasciate da parte Il libro della giungla, le lontananze esotiche, i tempi dell'impero inglese, té in veranda e battute di caccia alla tigre, partite di cricket sotto il sole tropicale e divinità dai nomi impronunciabili. Ruyard Kipling non è solo l'India, le colonie, un mondo inghiottito dalla storia.

Prendete per esempio Puck il folletto, un libro per tutte le età. Un libro con cui Kipling ritorna a casa, sempre che l'Inghilterra possa davvero essere la sua casa, e non piuttosto il più meraviglioso di tutti i paesi stranieri dove sia mai stato, come diceva.

Racconta Ottavio Fatica nella nota all'edizione Adelphi che per Kipling la macchina era una sorta di macchina del tempo. Sulla quattro ruote prendeva e partiva come gli altri, solo che riusciva a vedere ciò che gli altri non riescono a vedere, perché bene che vada è solo roba da ragazzi.


Andava scorrazzando per l'isola che non c'è, per quell'Inghilterra piena per lui di meraviglie e di misteri stupefacenti. Un giorno in macchina nella campagna inglese era un giorno in un museo fatato dove tutti i pezzi sono vividi e reali e, al tempo stesso, deliziosamente mescolati con i libri

Ed ecco dunque il Colle Fatato che non è solo un luogo di una mappa fantastica, è una torre di avvistamento per scrutare la storia e le storie, per far emergere dal buio dei tempi i personaggi, le leggende, ciò a cui è bello restituire la parola. Ecco Puck, fauno di shakespeariana memoria, che racconta ai bambini di cavalieri normanni, di pirati vichinghi e di centurioni romani del Vallo di Adriano.

Raccontando ai bambini, ma restituendo a tutti gli occhi con cui i bambini sanno ancora alimentare la meraviglia.

sabato 11 luglio 2015

Guido Gozzano, viaggiatore della nostalgia

Dopo tutto la poesia è la cosa meno necessaria di questo mondo, scriveva Guido Gozzano, e sarà anche, io so solo che con i suoi versi teneri e malinconici questo ragazzo piemontese ci ha fatto un dono straordinario, che è bene tenersi stretto.

E' dai tempi del liceo, quando l'antologia di italiano mi ha fatto planare verso questo poeta "crepuscolare", che mi tengo stretto il suo mondo di care piccole cose, tanto decenti quanto di gusto discutibile, come i soprammobili nel salotto buono di una vecchia zia. Invece non avevo ancora letto le lettere che scrisse non da uno borghesissimo studio del Piemonte fin di secolo (intendendo l'Ottocento) ma niente di meno che dall'India. Sarà che da uno come lui nemmeno mi immaginavo che un giorno potesse partire e andare così lontano. 

Eppure è proprio così, Gozzano in India arriva nel 1911, non come uno scrittore in cerca di materiali per un suo libro, ma come un giovane avvocato torinese malato di tubercolosi, in cerca chissà di che cosa, forse di un'aria migliore, forse di un'altra vita. Di una guarigione comunque, che chissà, forse ha meno a che vedere con i suoi polmoni che con le inquietudini della vita. Qualcosa che alla lontana sa di Tiziano Terzani, insomma.

C'è chi ha scritto che Guido Gozzano è il viaggiatore che vede e racconta quasi soltanto se stesso, ma in ogni caso sono belle le sue lettere dall'India, prima pubblicate sul quotidiano La Stampa e poi raccolte nel volume Verso la cuna del mondo (oggi riedite da Edt). Belle anche se ho fatto fatica a riconoscere nel poeta dei salotti borghesi l'uomo che parla di Bombay metropoli ospitale oppure di Goa, peraltro, all'Emilio Salgari, già visitata con la fantasia, cento volte con la matita, durante le interminaboli lezioni di matematica. 

Poi però ho trovato queste righe, sulla nostalgia: e ho ritrovato davvero Guido Gozzano:

E per la prima volta, dacchè sono lontano dalla patria, sento in cuore una trafittura leggera, appena percettibile, ma insistente e importuna come il primo rodìo del dente cariato: è la nostalgia!... La nostalgia, il male tremendo e indescrivibile fatto di sentimenti indefiniti simili all’ansia e al rimorso!

venerdì 31 maggio 2013

L'India alla Tiziano Terzani di Guido Gozzano

Dopo tutto la poesia è la cosa meno necessaria di questo mondo, scriveva Guido Gozzano.

E sarà anche, io so solo che con i suoi versi teneri e malinconici questo ragazzo piemontese ci ha fatto un dono straordinario, che è bene tenersi stretto.

E' dai tempi del liceo, quando l'antologia di italiano mi ha fatto planare verso questo poeta crepuscolare, che mi tengo stretto il suo mondo di care piccole cose, tanto decenti quanto di gusto discutibile, come i soprammobili nel salotto buono di una vecchia zia. Invece non avevo ancora letto le lettere che scrisse non da uno borghesissimo studio del Piemonte fin di secolo (intendendo l'Ottocento) ma niente di meno che dall'India. Sarà che da uno come lui nemmeno mi immaginavo che un giorno potesse partire e andare così lontano.
 
Eppure è proprio così, Gozzano in India arriva nel 1911, non come uno scrittore in cerca di materiali per un suo libro, ma come un giovane avvocato torinese malato di tubercolosi, in cerca chissà di che cosa, forse di un'aria migliore, forse di un'altra vita. Di una guarigione comunque, che chissà, forse ha meno a che vedere con i suoi polmoni che con le inquietudini della vita.

Qualcosa che alla lontana sa di Tiziano Terzani, insomma.

C'è chi ha scritto che Guido Gozzano è il viaggiatore che vede e racconta quasi soltanto se stesso, ma in ogni caso sono belle le sue lettere dall'India, prima pubblicate sul quotidiano La Stampa e poi raccolte nel volume Verso la cuna del mondo (oggi riedite da Edt).

Belle anche se ho fatto fatica a riconoscere nel poeta dei salotti borghesi l'uomo che parla di Bombay metropoli ospitale oppure di Goa, peraltro, all'Emilio Salgari, già visitata con la fantasia, cento volte con la matita, durante le interminaboli lezioni di matematica. 

Poi però ho scovato queste righe: e ho ritrovato davvero Guido Gozzano.


mercoledì 13 marzo 2013

I viaggi e gli altri viaggi di Antonio Tabucchi

Nati dalle occasioni più diverse, sempre da viaggi ma mai da viaggi fatti per poi diventare letteratura di viaggi, questi testi vagavano come isole in un arcipelago fluttuante....

E' così che Antonio Tabucchi presenta il suo Viaggi e altri viaggi (Feltrinelli), raccolta di articoli, memorie, scritti vari legati al suo peregrinare per il mondo e in genere al grande dono che gli ha fatto la vita, ovvero la possibilità di abitare molti altrove, dall'India a Creta, dall'Australia al Portogallo.

Si tratta del primo libro che ho avuto modo di leggere o rileggere dopo la sua morte, mettendo inevitabilmente in conto un crampo di nostalgia. Libro diseguale, tra l'altro, che contiene pagine più o meno felici, di diverso valore e di diverso coinvolgimento emotivo. Però un libro a suo modo necessario, non fosse altro che per abbracciare con un solo colpo d'occhio queste isole in un arcipelago fluttuante,  isole, forse, a loro modo alla deriva.

E quindi per condividere la consapevolezza che fu di Tabucchi, oltre i viaggi che qui sono raccontati.

Ma forse mancano i viaggi più straordinari. Sono quelli che non ho mai fatto, quelli che non potrò mai fare. Restano non scritti, o chiusi in un loro segreto alfabeto sotto le palpebre, la sera. Poi arriva il sonno, e si salpa.




mercoledì 19 dicembre 2012

I fiumi dell'India, che sono la vita

Radika mi spiega che in India i fiumi sono vissuti come benevole manifestazioni delle divinità femminili. E la madre Ganga li riassume tutti perché nella credenza popolare alla fine tutti confluiranno in lei.

"Il fiume è vivo. La corrente di un grande fiume è una straordinaria forma di energia. Nelle confluenze l'energia dei fiumi si incontra e si rafforza. Molti luoghi in prossimità dell'acqua sono considerati sacri. In hindi si dice tirtha. Luoghi naturali di unione e trasformazione, dove le trasformazioni della vita sono accettate come naturali. Una confluenza è anche una soglia. Un luogo di passaggio da una forma di energia a un'altra, l'inizio di un nuovo viaggio".

"Mahaprasthan?"

"Esatto. Ma non pensare solo alla morte e alle ceneri. Sulle confluenze si va per un matrimonio, per avere figli o per ringraziare di quelli che si hanno. I fiumi sono la vita".

(da Giuseppe Cederna, Il grande viaggio, Feltrinelli)

domenica 25 novembre 2012

Il Gange e il Grande Viaggio che è di tutti

Himalaya. Mi è difficile descrivere, ogni volta, la felicità di partire a piedi verso le montagne lasciandomi dietro il mondo fatto di strade e case. Camminare. Trovare il ritmo. Salire lento ascoltando il respiro nei talloni, nei muscoli delle gambe e nel corpo che con il sudore si rimette in moto.

Comincia così, con un gruppo di amici che parte per un viaggio indimenticabile, le montagne dell'India del Nord, le sorgenti del fiume sacro per eccellenza, il Gange.

Aria di Marrakesh Express,il film che diversi anni prima ha regalato la notorietà a un attore come Giuseppe Cederna, che certo non è solo un attore. Amicizia, avventura, la leggerezza del viandante.

Ma ci sono viaggi che, magari inaspettatamente,  diventano pellegrinaggi. E che a ogni passo si fanno domanda, tentativo di risposta, resa a ciò che è più grande.

Succede magari con la scomparsa di una cara amica, notizia che rimbalza dall'altro lato del mondo, per telefono. Con il pellegrinaggio per le vie delle Sorgenti e delle Confluenze che diventa altro ancora: il grande viaggio, nel mistero della vita e della morte.

Il Grande viaggio che è anche un libro, che racconta di montagne e di sorgenti, ma anche della morte che ci accompagna e della vita che si rinnova.

venerdì 13 luglio 2012

Folco Terzani e la sua storia a piedi nudi

"Baba, where are you from?" gli chiedo.
"Italy".
Rimango di sasso. Il giorno dopo torno insieme ai miei due amici a trovare Baba Cesare. Gli faccio delle domande sulla sua vita e lui ha sempre delle risposte pronte - chiare, ironiche, dure. Mi dice che se sono veramente interessato posso restare, c'è una grotticina lì vicino dove posso dormire. E io cosa farei in un posto così?
"Puoi guardare il sole che sorge la mattina e tramonta la sera".

Mi sbaglierò, ma credo che il libro di Folco Terzani sia nato anni fa, da questa risposta. Ben oltre la sorpresa per un baba che non è nato sulle sponde del Gange, figlio di un commercialista nostrano. Oltre anche la voglia di raccontare una storia dentro la quale ci sono già molte cose,  gli anni Sessanta e Settanta, la crisi di una generazione che non riuscì a scalare il cielo, le utopie e le controculture, un mondo in fuga tra droghe e guru.

Parlasse solo di questo A piedi nudi sulla terra sarebbe solo un libro per guardarsi indietro, una discutibile possibilità di riscatto, forse un alibi. Però Folco in questo è fatto della stessa sostanza del padre. E' curioso perchè sa che si vive davvero solo ponendo domande. Racconta storie perché in fondo sa che si tratta della sua stessa storia.

E davvero, non gli sarebbe mai capitato di raccontare la storia di baba Cesare, se lui stesso non si fosse messo in cammino, se non avesse trovato l'India quando l'India non era nemmeno più tanto di moda, senza cadere nelle facili seduzioni delle spiagge di Goa e delle ricette New Age un tanto a mantra.

Racconta un viaggio, Folco, ma solo perché lui stesso si è levato le scarpe e ha camminato a piedi nudi, seguendo il corso del fiume. Avvertendo qualcosa dentro. Lasciandolo crescere. Agggiungendo passo a passo. 

martedì 29 maggio 2012

La guerra sulle montagne di Rudyard Kipling

L'uccisore e l'ucciso si tengono, per lo meno, compagnia, in un mondo che essi stessi hanno creato. Ma qui si affronta il disprezzo immenso di monti, preoccupati soltanto dei loro casi; poiché tra il gelo, la neve e le acque sotterranee, i monti sono sempre affaccendati

Non sapevo che Rudyard Kipling, nel suo molto vagabondare per il mondo, tra l'India e l'Inghilterra, avesse anche avuto il modo di raccontare la Grande Guerra sul fronte italiano. Lo scopro grazie a La guerra nelle montagne pubblicato qualche anno fa da Passigli, che riporta le sue "impressioni" di corrispondente di guerra.

 E' il 1917, qualche tempo prima della rotta di Caporetto. Kipling è a tutti gli effetti un inviato di guerra e anche quello che oggi si direbbe un giornalista "embedded", al seguito di un esercito. E di questo il suo reportage porta tutti i limiti: non sembra nemmeno lo stesso uomo che qualche tempo prima, sul fronte occidentale, ha perso il suo unico figlio maschio, lutto che gli ha scavato dentro un abisso di sofferenza.

C'è propaganda, c'è retorica, in queste pagine, come quando il povero fante romano è paragonato al legionario romano. O come quando di lui si afferma che se ne sta sotto le granate con la stessa quiete di un inglese al caminetto.

Eppure anche qui di tanto in tanto si fa largo la grandezza di uno scrittore che non dovrebbe mai mancare nelle nostre librerie. E riprende il suo posto l'uomo che sa interrogarsi e misurare l'insensatezza dell'uomo, magari al cospetto delle montagne che sembrano ridicolizzarci con un silenzio che durerà più della nostra follia.

lunedì 28 maggio 2012

Che sorpresa, le lettere dell'aspirante suicida

Che scommessa, Lettere di un'aspirante suicida di Valentina Santini (Romano editore), questo piccolo grande libro, prova provata che a fare la differenza non sono il peso dei volumi, la complessità dei ragionamenti, la ricercatezza del linguaggio, che in realtà ciò che conta, prima di ogni altra cosa, è la vita che ci si mette dentro, è il cuore che racconta le storie.

Sigmund Freud, che non mi sta particolarmente simpatico, ma che pure ne ha azzeccate diverse assicurava: È impossibile conoscere gli uomini senza conoscere la forza delle parole. Ed è su questa frase, pescata da chissà quale cassetto della memoria, che ho indugiato una volta che sono riemerso dalla lettura di queste pagine, sorpreso, alle prese con sensazioni che non credevo più di riconoscere.

Come se avessi recuperato un pezzo di me, di cui non sospettavo più l'esistenza, un pezzo che forse affonda nei miei anni di studente liceale, epoca bella e infernale, oppure no, che forse riguarda quell'età  di cui Paul Nizan affermava perentoriamente:

Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questo è il periodo migliore della vita.

Tranne poi innamorarsi di quei 20 anni, innamorarsi anche di quelle vertigini metafisiche, di quelle notti insonni, di quel vagabondare con amici che sognavani Parigi e la rive gauche degli esistenzialisti, o forse l'India, forse qualche puerto escondido dell'America Latina.

Oppure no, perché è di tutti e di tutte le età e le scelte della vita, questo dilemma, questo riproporsi delle ragioni della vita e della morte. Questo arrovellarsi sul perché, questo fermarsi sul ciglio della strada e chiedersi: ma vale la pena?

Però c'è modo e modo. E in queste lettere dell'Aspirante Suicida e di Quello che aspetta la risposta c'è freschezza, c'è sincerità, c'è quella speciale leggerezza che sa andare al cuore delle questioni più dei saggi ponderosi.

Leggerezza, è ovvio, da non equivocare con la superficialità, perché poi il gioco, se di gioco si tratta, è assai meno innocente di quanto ci induca a credere, è quel gioco terribile e affascinante che ti inghiotte come una droga, è quel gioco che, in questo caso, chiama in causa perfino Leopardi e Goethe – il Goethe del Giovane Werther e che, sì, si scrive proprio così – quel gioco che non finisce più e che si chiama letteratura.

Goethe, dunque, il Goethe giovane, nave in balia della tempesta del Romanticismo, passioni e sentimenti, sogni e paure. Quel Goethe di cose così:

Sollevare il sipario ed introdurvisi: questo è tutto! Perché indugiare, perché temere? Forse perché ci è ignoto cosa viene al di là di esso? O perché di là si ritorna? Perché la nostra mente è fatta in modo da pensare che vi siano tenebre e caos là dove non sappiamo nulla di certo.

Nulla di certo, è chiaro, nulla di certo, in questo mare che abbiamo davanti e che ci permette solo di spiegare le vele.

Nulla di certo, o forse sì, almeno una. E la dico come la diceva una poetessa dell'anima come Emily Dickinson:

Una parola muore appena detta, dice qualcuno. Io dico che solo in quel momento comincia a vivere.

E questo è certo: in questo piccolo grande libro troverete molte parole che cominciano a vivere.



(dalla mia introduzione a Valentina Santini, Lettere di un'aspirante suicida, Romano editore)

martedì 22 maggio 2012

Kipling e il folletto che scopriva l'Inghilterra

Lasciate da parte Il libro della giungla, le lontananze esotiche, i tempi dell'impero inglese, té in veranda e battute di caccia alla tigre, partite di cricket sotto il sole tropicale e divinità dai nomi impronunciabili. Ruyard Kipling non è solo l'India, le colonie, un mondo inghiottito dalla storia.

Prendete per esempio Puck il folletto, un libro per tutte le età. Un libro con cui Kipling ritorna a casa, sempre che l'Inghilterra possa davvero essere la sua casa, e non piuttosto il più meraviglioso di tutti i paesi stranieri dove sia mai stato, come diceva.

Racconta Ottavio Fatica nella nota all'edizione Adelphi che per Kipling la macchina era una sorta di macchina del tempo. Sulla quattro ruote prendeva e partiva come gli altri, solo che riusciva a vedere ciò che gli altri non riescono a vedere, perché bene che vada è solo roba da ragazzi.


Andava scorrazzando per l'isola che non c'è, per quell'Inghilterra piena per lui di meraviglie e di misteri stupefacenti. Un giorno in macchina nella campagna inglese era un giorno in un museo fatato dove tutti i pezzi sono vividi e reali e, al tempo stesso, deliziosamente mescolati con i libri

Ed ecco dunque il Colle Fatato che non è solo un luogo di una mappa fantastica, è una torre di avvistamento per scrutare la storia e le storie, per far emergere dal buio dei tempi i personaggi, le leggende, ciò a cui è bello restituire la parola. Ecco Puck, fauno di shakespeariana memoria, che racconta ai bambini di cavalieri normanni, di pirati vichinghi e di centurioni romani del Vallo di Adriano.

Raccontando ai bambini, ma restituendo a tutti gli occhi con cui i bambini sanno ancora alimentare la meraviglia.

domenica 9 ottobre 2011

L'India formato famiglia di Andrea Bocconi

Mi ha sempre irritato chi scrive dell'India al singolare. Per cui non parlo dell'India, ma di un'India, una delle tante: l'India non esiste, se non come spaziotempo a dieci dimensioni che si dipana in mille direzioni, si riavvolge su se stesso e contiene infinite Indie, una matrioska gigantesca....

Ha ragione, Andrea Bocconi, scrittore viaggiatore che con i suoi libri mi ha già altre volte portato lontano, anche quando in realtà non andava poi troppo distante (penso per esempio all'intrigante In viaggio con l'asino). Ha ragione perché in realtà è sempre così: un paese sono i paesi, un plurale come i corpi che lo attraversano, gli occhi che si posano.

Lui, che tante volte è stato in India, che in India ha trovato molte cose diverse, non ha conosciuto l'India, ma le Indie.

Ogni volta era diversa nei molti viaggi, cambiava lei ed ero cambiato io: ci sono stato ragazzo di vent'anni, ci sono tornato giovane uomo in viaggio di nozze, poi fuggiasco, cercatore, e oggi ci vado con la famiglia, da padre

Allora, eccolo qui, lo sguardo diverso, quello che mancava nella parabola di vita di Andrea Bocconi. Un nuovo viaggio, con la famiglia: con la moglie e con i due figli, bambini con cui guardare di nuovo il paese conosciuto e accogliere il dono della sorpresa.

Non sarà un viaggio avventuroso - non lo vuole essere, ed è già tanto partire pochi giorni gli attentati dei fondamentalisti a Mumbai (mi immagino cosa si agiti nel cuore di un padre, benché di un padre viaggiatore).

Ma dove è scritto che i libri di viaggio devono infliggerci in continuazione avventure? Dove è scritto che lo stile deve essere sempre quello di Bruce Chatwin?

Così va bene, va benissimo. Un'altra India si distende davanti a noi. Illuminata dall'amore per un paese e prima ancora dall'amore di una famiglia, che in un viaggio non si perde e nemmeno deve ritrovarsi, tanto è già dove deve essere.

giovedì 7 luglio 2011

Perché sono sparite le vacche di Nuova Delhi

Sono tre miliardi e mezzo. Sono più giovani di noi, lavorano più di noi, studiano più di noi. Hanno più risparmi e più capitali di noi da investire. Hanno schiere di premi Nobel della scienza. Guadagnano stipendi con uno zero in meno dei nostri. Sono Cina, India e dintorni. Cindia non indica solo l'aggregato delle due nazioni più popolose del pianeta... 

Sapete, l'immagine che più mi ha colpito tra le tante evocate da Federico Rampini nel suo L'impero di Cindia? Non quella straordinaria Silicon Valley indiana che è Bangalore. Non la cappa di smog su Pechino. Ma le vacche di Nuova Delhi. O meglio, le vacche che sono sparite da Nuova Delhi.

Figuratevi che pensavo che girassero indisturbate perché sacre. Invece erano semplicemente vacche abbandonate dai loro proprietari perché ormai improduttive. Sono sparite non perché le hanno fatte fuori - sempre sacre saranno - ma perché hanno trovato il modo di restituirle ai loro proprietari. Ci sono riuscite assegnando a ognuna di esse un microchip in grado di identificarle e di "riportarle a casa". Un po' come le vetture immatricolate.

Insomma, la vecchia India e le nuove tecnologie. Un mondo che arriva da lontano ma che cambia in un modo che nemmeno abbiamo idea. Perché poi, rimanendo in India, l'immagine è ancora quella di Calcutta come la Città della gioia di Madre Teresa. Solo per dire.

Meno male che ci sono libri come questi, che ci liberano da ciò che ancora ci viene naturale pensare. Per  indicarci il futuro: quello in cui il dragone e l'elefante si apprestano a riconquistare il posto che appartenne a loro per millenni.

Il loro futuro, il nostro futuro. Cominciare a capirlo è già qualcosa.

lunedì 7 marzo 2011

Kipling e i figli ammazzati nella Grande Guerra

Se qualcuno domanda perché siamo morti,
Ditegli perché i nostri padri hanno mentito


Non mi incanta il Rudyard Kipling poeta - assai meno in ogni caso del Kipling narratore del Libro della giungla, di Capitani coraggiosi o di Puck il folletto - non mi incanta anche se quei versi sono una finestra splalancata sulla sua vita e su un mondo, quello dell'Impero britannico della regina Vittoria, che di fascino ne ha da vendere.

E sia chiaro, non che fosse un mondo giusto. Però come non perdersi in quelle atmosfere di riti coloniali e di tinte esotiche? Piantagioni e fumerie d'oppio, ricevimenti dal governatore e infamie coloniali. La voglia di dominare il mondo e quella di nascondersi al mondo. Ecco, proprio questa è la poesia di Kipling, che di volta in volta si assume la missione dell'impero - il deprecabile fardello dell'uomo bianco - ma cerca anche una via di fuga; e si fa parola di soldato e fuga di sognatore.

Non mi incanta, la sua poesia. Ma quante suggestioni che riesce a evocare, quello che già ai tempi era catalogato come un buon cattivo poeta.

Ma c'è una parte dei suoi versi che non hanno niente a che vedere con l'India o altre terre dell'Estremo Oriente. Li ho scoperti solo ora, in un'antologia che gira intorno a If, la sua poesia più famosa - e che ancora una volta non mi incanta. Sono i versi che ha composto come lapidi immaginarie - ma poi non tanto - per i caduti della prima guerra mondiale. Una sorta di Spoon River europea, non per un cimitero di una piccola cittadina americana, ma per i morti ammazzati della grande ecatombe europea.

Niente retorica, niente fascino esotico. Ma forse le parole di un padre che in guerra ha perso suo figlio. E che da allora lavorò constantemente non per inventarsi altri capolavori, ma per alimentare la memoria. Dei tanti, degli innumerevoli come suo figlio.


mercoledì 8 dicembre 2010

Quando viaggiavo in compagnia di Emilio Salgari

Ecco, così inizia I due viaggiatori (Mauro Pagliai editore), parole per sognare con il grande Emilio.


Come da piccolo, quando una febbre vera, oppure dichiarata e generosamente riconosciuta, mi liberava dalla scuola. Non erano brutte giornate, quelle, però non filavano mai. Le ore erano un cargo appesantito che risale la corrente e chissà se e quando arriverà a destinazione.

Chiunque l'abbia detto aveva ragione: i decenni volano via, sono certi pomeriggi che non finiscono più.
E la televisione non era mica come ora, che a ogni momento c’è il cartone animato, il supereroe alle prese con i mali del mondo, la partita del campionato brasiliano. A parte L’isola dei Gabbiani e Avventura – da brividi la sigla, Joe Cocker con She came in through the bathroom window – tutto era di una noia mortale. Corsi di tedesco per principianti, lezioni sui principi della termodinamica, documentari sulle api o sul baco da seta, cose così insomma.
Meno male che c’erano i libri. Meno male che c’era Emilio Salgari.

Se il tempo passava e non passava, per farlo passare meglio avevo molti amici che si erano raccolti intorno a me per tenermi compagnia. Sandokan e quella simpatica canaglia di Yanez. Tremal-Naik e tutti i tigrotti di Mompracem. Il Corsaro Nero e la bella Jolanda.

Leggevo, in giornate così. Leggevo finché la testa faceva male, le righe ballavano sotto gli occhi, le pagine diventavano una macedonia di lettere. Se perdevo il segno era un problema ritrovarlo, perché la pagina girata si confondeva con quella ancora non letta. Tanto era un pezzo che la storia aveva abbandonato il libro.
Oppure no, ero io che avevo abbandonato quella stanza e già veleggiavo verso Maracaibo, sempre che non mi fossi perso tra i coccodrilli del delta del Gange.

A un certo punto il libro scivolava dalle ginocchia, le palpebre si abbassavano a saracinesca. Me ne andavo via, sul serio.
A volte mi portavo dietro una manciata di parole. A volte erano loro a inseguirmi, come un’eco. Parole tipo quelle del fratellino Yanez.

Noi non siamo uomini da condurre una vita tranquilla. Siamo invecchiati fra le urla di guerra dei malesi e dei dayachi ed il fumo delle artiglierie, e rimpiango sempre Mompracem.

Sapete, hanno continuato a risuonarmi anche molti anni più tardi, queste parole. Anche quando mi sono ormeggiato a una scrivania con computer e ho insediato la mia Tortuga in una bella casa di un quartiere residenziale. Noi non siamo uomini da condurre una vita tranquilla. Anche quando ho messo su pancetta e famiglia, quelle parole.

E come è vero, rimpiango sempre Mompracem.
La rimpiango e la cerco ancora sulla mappa dei miei sogni.

martedì 2 novembre 2010

L'India del signore delle lacrime

Le strade che abbiamo percorso, anche non tante volte ma avendo la piena consapevolezza piena di quel che facevano, si impregnano di noi. Il nostro fantasma continua a batterle, anche se non siamo morti, anche si siamo vivi altrove

Da un grandissimo editor - un punto di riferimento per l'editoria italiana - un libro che non mi attendevo, che è molte cose insieme.
 
Proprio così: Signore delle lacrime di Antonio Franchini (Marsilio) è un libro di viaggio che non è solo di viaggio, è riflessione alta, dialogo con se stessi, tuffo nella spiritualità. Reportage narrativo dall'India che non dimentica la vita quotidiana a casa propria. Abitudini e vizi del turista, ma anche autobiografia. Pantheon induista e materialismo nostrano, con diverse sorprese però. Occidente e oriente e tanto altro ancora.

Un libro che è ricchezza e contaminazione e allergia a ogni schema precostituito. Un libro che non fa sconti e che per questo è ancora di più da leggere.

domenica 18 luglio 2010

Guido Gozzano tra l'India e la nostalgia

Dopo tutto la poesia è la cosa meno necessaria di questo mondo, scriveva Guido Gozzano, e sarà anche, io so solo che con i suoi versi teneri e malinconici questo ragazzo piemontese ci ha fatto un dono straordinario, che è bene tenersi stretto.

E' dai tempi del liceo, quando l'antologia di italiano mi ha fatto planare verso questo poeta "crepuscolare", che mi tengo stretto il suo mondo di care piccole cose, tanto decenti quanto di gusto discutibile, come i soprammobili nel salotto buono di una vecchia zia. Invece non avevo ancora letto le lettere che scrisse non da uno borghesissimo studio del Piemonte fin di secolo (intendendo l'Ottocento) ma niente di meno che dall'India. Sarà che da uno come lui nemmeno mi immaginavo che un giorno potesse partire e andare così lontano. 

Eppure è proprio così, Gozzano in India arriva nel 1911, non come uno scrittore in cerca di materiali per un suo libro, ma come un giovane avvocato torinese malato di tubercolosi, in cerca chissà di che cosa, forse di un'aria migliore, forse di un'altra vita. Di una guarigione comunque, che chissà, forse ha meno a che vedere con i suoi polmoni che con le inquietudini della vita. Qualcosa che alla lontana sa di Tiziano Terzani, insomma.

C'è chi ha scritto che Guido Gozzano è il viaggiatore che vede e racconta quasi soltanto se stesso, ma in ogni caso sono belle le sue lettere dall'India, prima pubblicate sul quotidiano La Stampa e poi raccolte nel volume Verso la cuna del mondo (oggi riedite da Edt). Belle anche se ho fatto fatica a riconoscere nel poeta dei salotti borghesi l'uomo che parla di Bombay metropoli ospitale oppure di Goa, peraltro, all'Emilio Salgari, già visitata con la fantasia, cento volte con la matita, durante le interminaboli lezioni di matematica. 

Poi però ho trovato queste righe, sulla nostalgia: e ho ritrovato davvero Guido Gozzano:

E per la prima volta, dacchè sono lontano dalla patria, sento in cuore una trafittura leggera, appena percettibile, ma insistente e importuna come il primo rodìo del dente cariato: è la nostalgia!... La nostalgia, il male tremendo e indescrivibile fatto di sentimenti indefiniti simili all’ansia e al rimorso!

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