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martedì 7 aprile 2020

Le lacrime che fanno davvero grandi gli eroi

Sul promontorio piangeva, seduto, là dove sempre 
con lacrime, gemiti e pene straziandosi il cuore,
al mare mai stanco guardava, lasciando scorrere lacrime.

Ecco, è così che entra in scena. Non mentre abbandona Troia vinta e saccheggiata, non mentre sfida il canto delle Sirene oppure trova il modo di sfuggire a Polifemo. Dopo aver narrato le vicende di Itaca e altri luoghi, Omero gli si avvicina e lo coglie così: un uomo che guarda il mare e piange, sospirando il ritorno per cui è disposto a rinunciare all'immortalità.

E' con questa immagine che si apre Le lacrime degli eroi di Matteo Nucci (Einaudi), libro affascinante, per certi versi spiazzante, a cui sono tornato più volte. Mi sembra una lettura particolarmente adatta in tempi come questi, in cui l'inquietudine morde ma spesso non ci lascia sfogo. 

Comincia con Ulisse, questo libro, ma abbraccia tutto l'antico mondo degli eroi. Di loro conosciamo le imprese, li abbiamo seguiti nei loro combattimenti e nelle loro vendette, non riusciamo a immaginarceli senza le loro armi: sono tali per il coraggio, la fermezza, lo sprezzo del pericolo. Eppure - e di questo riusciamo a essere meno consapevoli - piangono, piangono molto.

Sono inzuppati di lacrime, i versi che gli sono stati dedicati. Lacrime di dolore e rabbia, di amore e nostalgia, ma in ogni caso lacrime.

Persino di Achille, dell'eroe dalla cui ira funesta discende un intero poema, ricordiamo più volentieri le lacrime sul corpo di Patroclo, oppure le lacrime al cospetto di Priamo, il re nemico che ormai è solo un anziano che piange i figli persi.

Lacrime e a volte - incredibile - persino il desiderio del pianto: desiderio nobile, debolezza che non sminuisce ma rende ancora più grandi. Desiderio che Matteo Nucci trasforma in un viaggio attraverso le storie e i sentimenti. Parlando al nostro tempo, alla nostra mortalità, a ciò che siamo e possiamo essere.

sabato 27 giugno 2015

Il maledetto terzo giorno in bici e il paradosso di Zenone

Dicono che il terzo giorno sia il peggiore, per i viaggi su due ruote. Dicono e in realtà talvolta l'ho sperimentato. Il primo giorno anche i muscoli meno allenati raccolgono la sfida dell'entusiasmo e giocano sulla freschezza; il secondo non va affatto bene, ma uno lo sa, lo mette in conto, e sulle sue aspettative calibra la tappa e misura il rendimento; ma il terzo, perché il terzo proprio non si va, perché il nostro corpo è così molle e sfiatato?

L'ho sperimentato sulla mia pelle, il maledetto terzo giorno. Di volta in volta ho imprecato contro l'acido lattico, ho rimpianto la mia allergia agli allenamenti, ho studiato percorsi alternativi e soprattutto mezzi alternativi, hai visto mai che nei dintorni non ci sia una stazioncina. 

Ho tirato avanti così, con il miraggio di un comodo treno che per il popolo della bicicletta è l'equivalente del carro attrezzi per l'autista in panne. Macerandomi sui chilometri che non passano mai, sulla strada davanti che è sempre la stessa. Con contorno di deprimenti considerazioni sulla vischiosità dello spazio. E per pietanza qualche crudele disanima filosofica.

Al liceo, mi ricordo, scoprii Zenone, una di quelle teste che ai tempi la Grecia produceva in quantità industriale. 

Ricordate? Zenone e i suoi paradossi. La storia di Achille e la tartaruga che si sfidano alla corsa. Il piè veloce che accorda un vantaggio al suo risibile avversario, serenamente convinto che se la mangerà in un sol boccone. Solo che ogni volta che Achille raggiunge una posizione in precedenza occupata dalla tartaruga, quest'ultima è già avanzata, di poco ma è avanzata. E lo stesso quando arriva in quella nuova posizione. Il vantaggio diminuisce, tende verso l'infinitamente piccolo, però la tartaruga rimane sempre avanti. 

Dubito che la gazzella che il leone è sul punto di sbranare trovi motivo di conforto nella filosofia e in particolare in Zenone. Nemmeno io ne trarrei giovamento, nei panni dell'inseguito. Però il paradosso può acquistare una sua stupefacente parvenza di verità.

Avete presente quando i traguardi non si avvicinano mai? Quando semmai danno l'idea di allontanarsi?

(da Paolo Ciampi, Le nuvole del Baltico, Mauro Paglia editore)

sabato 12 febbraio 2011

Siamo noi Omero, il poeta cieco

Lo diceva Victor Hugo:
Il mondo nasce, Omero canta. È l’uccello di questa aurora

Omero, dunque. O meglio, l’uomo che abbiamo imparato a chiamare Omero. L’antico greco che ci ha regalato i poemi con cui inizia la storia della nostra letteratura e forse della nostra bellezza. Il poeta cieco, che non aveva occhi per guardare, ma che proprio per questo sapeva guardare più lontano di chiunque altro e staccare dal suo silenzio parole che risuonavano a lungo nel cuore degli uomini.

Tutto questo è Omero: la grandezza dei versi dell’Iliade e dell’Odissea e, nel ricordo di molti di noi, il busto di un anziano dall’espressione saggia e solenne, e poi magari le traduzioni e gli studi dei tempi di scuola.

Penso spesso a lui, credo che si sia in diversi a farlo. Eppure, cosa si sa davvero di Omero?

Già nell’antichità si erano moltiplicate le biografie, le vite immaginarie, le leggende. E già allora non si contavano le città che si contendevano il vanto di avergli dato i natali, da Atene a Rodi, da Argo a Chio e Smirne. Città, per inciso, quasi tutte dell’Asia Minore, tanto per destarci il sospetto che la nostra poesia in effetti sia arrivata da lontano, dall’Oriente.

Qualcuno assicurava che Omero era nato pochi anni dopo la guerra di Troia, altri che era nato parecchio dopo. Anche sul significato del suo nome ci si accapigliava: discendeva da una parola con cui i greci si riferivano ai non vedenti o dalla parola che indicava, più misteriosamente, un ostaggio?

Ce n’è voluta per iniziare a convincersi che forse Omero non è mai esistito. Anzi, che non è mai esistito perché in realtà di Omero ce ne sono stati centinaia, migliaia.

Infiniti Omero prima di Omero che hanno raccontato di Achille e di Ettore, del re Agamennone e dell’astuto Ulisse. Infiniti poeti che hanno cantato nelle feste e nei banchetti, hanno improvvisato versi che poi sono passati di bocca in bocca, hanno tramandato la memoria delle gesta, delle imprese e delle miserie dei loro eroi.

Così la più grande poesia della nostra letteratura è nata dalla parola leggera, imprendibile, evanescente di tanti poeti senza volto e senza nome.

Ed è bello pensare a tutto questo e poi pensare ai nostri nonni e ai nostri bisnonni, alla nostra Toscana contadina dove si passava le sera a veglia alzandosi in piedi per una rima, per un’ottava improvvisata da chi non sapeva né leggere né scrivere. Credo che sia per questo che qualche tempo fa mi è venuto di scrivere Beatrice: un modo per provare a saldare qualche debito di gratitudine.

È bello pensare a tutto questo, perché permette a ognuno di noi di ritrovare il dono della parola. Perché aiuta ognuno di noi a sentirsi un po’ Omero.

Pensate, ognuno di noi come il grande poeta cieco.

venerdì 23 luglio 2010

Omero, il poeta cieco che è in noi

Lo diceva Victor Hugo:
Il mondo nasce, Omero canta. È l’uccello di questa aurora

Omero, dunque. O meglio, l’uomo che abbiamo imparato a chiamare Omero. L’antico greco che ci ha regalato i poemi con cui inizia la storia della nostra letteratura e forse della nostra bellezza. Il poeta cieco, che non aveva occhi per guardare, ma che proprio per questo sapeva guardare più lontano di chiunque altro e staccare dal suo silenzio parole che risuonavano a lungo nel cuore degli uomini.

Tutto questo è Omero: la grandezza dei versi dell’Iliade e dell’Odissea e, nel ricordo di molti di noi, il busto di un anziano dall’espressione saggia e solenne, e poi magari le traduzioni e gli studi dei tempi di scuola.

Penso spesso a lui, credo che si sia in diversi a farlo. Eppure, cosa si sa davvero di Omero?

Già nell’antichità si erano moltiplicate le biografie, le vite immaginarie, le leggende. E già allora non si contavano le città che si contendevano il vanto di avergli dato i natali, da Atene a Rodi, da Argo a Chio e Smirne. Città, per inciso, quasi tutte dell’Asia Minore, tanto per destarci il sospetto che la nostra poesia in effetti sia arrivata da lontano, dall’Oriente.

Qualcuno assicurava che Omero era nato pochi anni dopo la guerra di Troia, altri che era nato parecchio dopo. Anche sul significato del suo nome ci si accapigliava: discendeva da una parola con cui i greci si riferivano ai non vedenti o dalla parola che indicava, più misteriosamente, un ostaggio?

Ce n’è voluta per iniziare a convincersi che forse Omero non è mai esistito. Anzi, che non è mai esistito perché in realtà di Omero ce ne sono stati centinaia, migliaia.

Infiniti Omero prima di Omero che hanno raccontato di Achille e di Ettore, del re Agamennone e dell’astuto Ulisse. Infiniti poeti che hanno cantato nelle feste e nei banchetti, hanno improvvisato versi che poi sono passati di bocca in bocca, hanno tramandato la memoria delle gesta, delle imprese e delle miserie dei loro eroi.

Così la più grande poesia della nostra letteratura è nata dalla parola leggera, imprendibile, evanescente di tanti poeti senza volto e senza nome.

Ed è bello pensare a tutto questo e poi pensare ai nostri nonni e ai nostri bisnonni, alla nostra Toscana contadina dove si passava le sera a veglia alzandosi in piedi per una rima, per un’ottava improvvisata da chi non sapeva né leggere né scrivere. Credo che sia per questo che qualche tempo fa mi è venuto di scrivere Beatrice: un modo per provare a saldare qualche debito di gratitudine.

È bello pensare a tutto questo, perché permette a ognuno di noi di ritrovare il dono della parola. Perché aiuta ognuno di noi a sentirsi un po’ Omero.

Pensate, ognuno di noi come il grande poeta cieco.

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