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venerdì 15 settembre 2017

Il Vietnam di Kim, così vicino, così distante

La storia del Vietnam e dei vietnamiti - dice Kim Thúy - vive, cresce e diventa complessa senza essere né scritta né raccontata.

Vero - e ho potuto scoprirlo solo a Mantova, in un incontro al Festival che nemmeno avevo messo in conto. Sono contento di aver scoperto questa scrittrice dal sorriso irresistibile e dalla straordinaria empatia, ancora più  sorprendente alla luce di una scrittura che invece si distingue per la sua rarefazione, la sua leggerezza poetica. 

E' tant'altro la storia del Vietnma, soprattutto per chi come me è più o meno rimasto ancorato al Vietnam di Apocalypse Now e dintorni o che al massimo ha orecchiato qualcosa sulle impetuose trasformazioni della città che un tenpo si chiamava Saigon. E in questa storia c'è anche la storia dei vietnamiti che hanno abbandonato il loro paese su barconi che non possono non rammentare altri barconi, altri mari dei nostri tempi: i nostri mari.

Kim, ragazzina, fu una delle persone che ce la fecero. Scampò ai naufragi e ai pirati. Insieme a tanti altri fu accolta in Canada. Ai suoi familiari venne data la possibilità di ricostruirsi una vita, magari ripartendo dia lavori più umili. Oggi - spiega - molti vietnamiti in Canada sono medici o dentisti o ingegneri. 

C'è tutto questo in Il mio Vietnam (Nottetempo), libro di poche pagine e grande poesia: il Vietnam dell'infanzia, il Vietnam del ritorno, il Vietnam trapiantato in Canada. 

Una finestra su un mondo che non conoscevo, la storia di una vita che è la storia di molti.  

lunedì 11 settembre 2017

A Mantova saluto l'estate e mi porto via libri e promesse

Ieri in treno, di ritorno da Mantova, dopo le giornate trascorse al Festival della Letteratura che ogni settembre fa di questa città la capitale del libro e prima ancora dei lettori. Di questo sto parlando, non della mia ultima lettura, per una volta. Di un ritorno in  treno, una domenica pomeriggio: e non c'è niente che mi mette più tristezza delle stazioni dei treni la domenica pomeriggio. Un giorno di fine estate, poi.
Come ogni anno è a Mantova che saluto i viaggi, i libri, i festival dell'estate.Ragione sufficiente per una robusta dose di malinconia. Eppure, eppure. Quante cose mi sono portato dietro.

Per esempio gli incontri con alcuni autori da cui quest'anno mi sono fatto coccolare - Jan Brokken e Martin Pollack su tutti - con i loro reportage narrativi, carichi di storia e storie, buona letteratura per entrare nello spirito dei luoghi.

La scoperta di altri autori, che non avevo ancora avuto la fortuna o la capacità di incrociare. Diego Marani, per dirne uno, con il suo libro sul bar del paese e su quel personaggio - Nullo di nome, non di fatto - che pare un personaggio universale: e io a interrogarmi sulle analogie e le corrispondenze che tengono insieme quel bar di paese e il mio pub di quartiere.

Le 400 persone che domenica mattina di buon'ora hanno affollato una sala perboat people dei nostri tempi e dei nostri mari - e non sapevo decidermi: 400 persone riunite così erano un'enormità o erano maledettamente poche, a fronte di un paese che non sa più ascoltare queste storie?
Kim Thúy, scrittrice vietnamita scappata ragazzina dal suo paese su un barcone, per essere bene accolta in Canada. E pensando a lei e alle storie degli altri vietnamiti che in Canada hanno trovato casa e lavoro - e che sono diventati medici, dentisti, ingegneri - pensavo anche ad altre persone -

Le chiacchiere da bar, i discorsi col vicino di sedia, le parole e i sorrisi presi al volo per le strade e le piazze di Mantova. Complicità e connivenze, magari innaffiate di lambrusco. Persone che ho ritrovato qui, dopo averle già incontrate grazie a qualche altro libro che fu galeotto in altre parti di Italia.Altre persone che solo fino all'altro ieri erano un profilo su Instagram o un blog senza volto. L'idea di far parte di una comunità di gente che legge e partecipa e senz'altro rende migliore l'Italia.

Quanti siamo, però! Sì, è vero, magari siamo tutti qui.

I ragazzi che per giornate intere hanno provato a promuovere un bel festival di poesia in Emilia, avvicinando tutti in piazza Sordello, invidia per i loro sorrisi, il loro entusiasmo e la loro maglietta: La poesia è un invito alla felicità.

Tutte le persone che agli incontri hanno sfoderato taccuini, bloc notes, quaderni, pezzi di carta su cui prendere appunti, nemmeno si fosse di nuovo sui banchi di scuola, a prepararsi per un'interrogazione.

Il solito zaino pieno di volumi che presumibilmente si accatasteranno sopra il mio baule delle "letture in attesa".

Pensare che sul treno per qualche attimo, sul treno, ho sentito come una sensazione di vuoto. Sbagliavo, certo. Con tutte le voci, tutte le parole che mi terranno compagnia. In autunno e poi in inverno, prima di ripartire.

martedì 30 luglio 2013

Parole e silenzi nei luoghi di Marguerite Duras

Potrei parlare per ore di questa casa, del giardino. Conosco tutto, so dove sono le vecchie porte, tutto, i muri dello stagno, tutte le piante, il posto di tutte le piante, conosco anche il posto delle piante selvatiche, tutto.

Buono per quanti almeno una volta si sono imbattuti in una pagina di Marguerite Duras e si sono fatti catturati dalla sua scrittura, dalle sue storie che scavano fino in fondo e danno parola a ciò che di solito di parola è privo. Buono anche per quanti la Duras non l'hanno mai amata - non è un autore che si lascia conquistare facilmente, nonostante i successi editoriali di altri anni - e che tuttavia ora hanno la possibilità di esplorare il mondo segreto di una grande del Novecento.

Non so bene come definire I miei luoghi, ora pubblicato da Clichy. Un libro-intervista certo, con la Duras che, conversando con Michelle Porte, racconta i luoghi della sua vita, dalla giungla del Vietnam alla casa affacciata sulla sabbia e le maree della Normandia. Eppure non è solo questo. O meglio il gioco delle domande e delle risposte si fa molto altro: racconto intimo, parola evocativa, silenzio che sembra impregnare i luoghi stessi della Duras e farsi più eloquente di molti discorsi.

Un libro sul filo della memoria, della nostalgia, del ricordo che si fa strada e chiede cittadinanza al presente. Un libro anche da toccare, sfogliare, vedere, perché parla pure attraverso le sue pagine bianche e le tante fotografie.

giovedì 13 settembre 2012

L'America della semplicità che non è semplice

Ma cos'ha la loro vita che non va? Cosa diavolo c'è di meno riprovevole della vita dei Levov?

I Levov, cioé in primo luogo Seymour Levov, imprenditore di successo, spensierato marito e padre di famiglia, discendente di immigrati ebrei che con la sua vita ha saputo incarnare l'ideale dell'americano perfetto, il sogno stesso dell'America. E chi se non lui, l'uomo che già ai tempi del college, quando era un campione a football, avevano soprannominato lo Svedese, per i capelli biondi, gli occhi chiari, l'espressione che era un concentrato di tenacia, ottimismo, fame di futuro?

Eppure ci può essere tempesta sotto la superficie, anche in una vita così. Può succedere qualcosa che rimette in discussione ogni certezza e ruba la vita in cui si è sempre creduto per lasciare solo una parte, da recitare con maggiore o minore perizia.

Che storia, questa storia che Philip Roth ci racconta in Pastorale americana. Ascesa e declino, sogno e tragedia, parabola individuale e storia collettiva, legami famigliari e guerra del Vietnam, con le ferite che il terrorismo ha inferto anche all'America.

E poi il punto di vista di chi racconta, quel Nathan Zuckerman che è il consueto alter ego di Philip Roth, lo sguardo di chi non riesce davvero a vedere, di chi capisce che la semplicità non è poi così semplice, che c'è qualcosa che suona falso ma che è quasi impossibile penetrare, perché fa parte del mistero e forse dell'insensatezza della vita.

E anche il fascino di quel punto interrogativo che è lo Svedese:

Ho passato i sessant'anni, non sono propriamente uno che abbia, nella vita, le stesse prospettive che aveva da ragazzo, eppure l'incanto non si è mai dissipato del tutto, perché fino a oggi non ho dimenticato lo Svedese che, placcato dagli inseguitori, si rialza lentamente, scrollandoseli di dosso, alzando lo sguardo ribelle al cielo autunnale, sospirando mestamente, e torna al piccolo trotto verso il gruppo dei compagni.

Così americano, come un sogno, un sogno che non vorresti mai abbandonare, solo che alla fine non si può più dare tempo al tempo.

giovedì 19 luglio 2012

La rivolta impossibile di Lucio Mastronardi

L'unico posto a Vigevano dove non si fabbricano scarpe è il carcere, lì si fabbricano penne a sfera.

Così scriveva della sua città Lucio Mastronardi, grande scrittore che ci siamo lasciati alle spalle come le stagioni che passano, coscienza inquieta e perdente di genio come quell'altro scrittore che a lui mi piace accostare, Luciano Bianciardi: entrambi uomini di provincia, entrambi condannati a raccontare un paese intero colto in un trapasso che sa di mutazione antropologica, entrambi capaci di dissipare con disinvoltura il proprio talento.

Di Mastronardi ho letto in altri anni Il maestro di Vigevano, storia di un maestro alle prese con un lavoro che conta sempre meno in un paese che, con il boom, pensa solo a produrre e arricchirsi. E' l'Italia della provincia grassa, delle fabbrichette che ingrossano i conti in banca e l'evasione fiscale, dei furbetti che sanno come funzionano le cose.

Oggi Vigevano non è più quella Vigevano, le fabbriche sono chiuse, le scarpe arrivano dalla Cina o dal Vietnam. Però le piaghe su cui Mastronardi metteva il dito ci sono ancora tutte: hanno a che vedere, per esempio, con un'Italia in cui la cultura vale sempre poco, forse ancora meno.

Lucio Mastronardi era uno scrittore che piaceva a gente come Eugenio Montale e Italo Calvino, ma era prima di tutto un maestro. Non ebbe vita facile e nel 1979 si suicidò, gettandosi nel suo Ticino. Da poco è uscito per Ediesse un libro che lo racconta, opera di Riccardo De Gennaro. Il sottotitolo dice già tutto: La rivolta impossibile.

Lo leggerò, sperando di ritrovarci le emozioni che a suo tempo mi destò la Vita agra di un anarchico, scritta da Pino Corrias per l'altro, per Luciano Bianciardi.


mercoledì 27 gennaio 2010

Risalendo il Mekong, risalendo il tempo






Col viaggio, insomma, mi alleggerisco e mi metto a nudo.
Mi spiego meglio: quando parto, o appena prima di partire, mi sento come un vecchio barcone che sta sott'acqua, incrostato di conchiglie, sabbia e vecchio cordame. Ecco, per riportarlo a galla, per farlo navigare, è necessaria quest'opera di pulizia, occorre scrostare tutto ciò che lo appesantisce.

Un nuovo viaggio, un nuovo inizio, un nuovo libro, I giorni del riso e della pioggia. Dopo Le nuvole non chiedono permesso e Antartide, dopo anche Caduti dal muro, Tito Barbini parte per un altro viaggio che non è solo un viaggio, ci regala un altro libro di viaggio, di nuovo pubblicato da Vallecchi, che non è solo un libro di viaggio, è molto di più, esperienza di vita, riflessione, riscoperta.

All'inizio trovate subito questa frase, che è quasi dichiarazione programmatica e insieme chiave di lettura di tutte le pagine successive. E poi parte Tito, questa volta parte per risalire il corso del Mekong, la grande arteria fluviale dell'Indocina, fiume che attraversa popoli, civiltà, storie.

Attenzione alla parola "risalire". Perchè questo è proprio quello che fa Tito, rovesciando il senso comune che vorrebbe i viaggi lungo i fiumi sempre dalle sorgenti al mare, chissà poi perchè.

Tito invece a lungo indugia sull'immenso delta del Mekong, sterminato gioco di acqua e terra, reticolo di risaie e giungla, per attraversare il Vietnam, la Cambogia e altri paesi, fino al Tibet.

Un risalire che non è solo di questo viaggio, perché il fiume diventa la metafora della vita. Risalire, allora, significa ripercorrere le proprie stagioni, scandagliare il passato, tornare all'infanzia come sorgente del proprio presente.
Proposito dichiarato, anche questo.

"Oggi so che il viaggio libera anche la voglia di ripercorrere con le levità le tante stagioni della vita. So che significa girovagare nel tempo come se i ricordi fossero una o tante stazioni di un viaggio immateriale".

Un viaggio che è tutto un percorso a ritroso, per ritrovare ciò che è più autentico, essenziale. Un libro affascinante, coinvolgente, schietto, come tutti i libri di Tito.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...