Sono le fosse comuni in cui furono gettati i corpi degli ammazzati. Sono le paludi, i fiumi, le doline adoperate come discarica dei morti senza nome. Sono i boschi e i campi che ancora oggi conservano segreti che troppi hanno trovato conveniente lasciare tali.
Paesaggi contaminati, li chiama Martin Pollack, giornalista e scrittore tedesco che il problema della memoria e dell'oblio se l'è ritrovato in casa, figlio e nipote di nazisti convinti e senza pentimento - e dev'essere insopportabile sapere che tra i tuoi famigliari c'è anche il comandante di una squadra di sterminio in Europa orientale.
Paesaggi contaminati è anche il titolo del libro che ora l'editore Keller propone al lettore italiano. Libro intenso, a metà tra il saggio e il reportage, che colpisce duro a ogni pagina, consegnandoci a un orrore smisurato. Dolore, ingiustizia, colpa. Ma anche memoria e pietas. Perché questa è l'Europa, un immenso cimitero senza croci, una distesa di fosse comuni.
Sì, questa è l'Europa, tra i Balcani e l'Ucraina, la Polonia e l'Austria: una terrificante successione di luoghi dove l'uomo ha praticato lo sterminio di massa e si è liberato dei cadaveri come si farebbe con le carcasse degli animali, infliggendo l'estremo oltraggio.
Questi luoghi sono oggi luoghi diversi. Anche se la terra ha coperto tutto. Anche se l'erba è ricresciuta e gli alberi hanno messo radici. Almeno la loro percezione è cambiata, lo si capisce nei silenzi e nelle parole sommesse, imbarazzate, di chi abita nei dintorni.
Poi è vero, bisogna vedere. Bisogna voler vedere. Perché non è facile accettare che anche il bel Danubio blu sia una grande fossa comune. E che le patate e le cipolle crescano su ciò che rimane di quei poveri corpi.
Quando paesaggi idilliaci celano oscuri segreti, recita la copertina. E questa davvero è l'Europa. Non l'Europa del Medioevo, ma ciò che ci ha lasciato l'Europa del Novecento.
Una piccola isola di parole nel grande oceano della rete per condividere libri e mondi
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mercoledì 5 agosto 2020
domenica 17 febbraio 2019
Indagine sul padre, criminale di guerra
Per anni avevo esitato a svolgere queste indagini, forse per un inconscio timore di imbattermi, seguendo le sue tracce, in scoperte che avrebbero superato le mie aspettative, senz'altro giù cupe.
Già in altri libri, su tutti Paesaggi contaminati, Martin Pollack non si è certo sottratto alla verità e al suo orrore. Qui però gioca davvero a carte scoperte, lasciandosi alle spalle ogni imbarazzo, più forte di ogni ricatto degli affetti e delle emozioni.
E forse ha esitato a lungo, prima di accingersi alla più difficile delle sue indagini, provare a fare verità anche tra le pareti di casa. Però dopo aver deciso è andato in fondo: il Morto nel bunker (Keller editore) è uno dei libri più intensi e veri su ciò che ha significato essere nazisti e far parte della macchina di sterminio di Hitler.
6 aprile 1947: in un bunker dalle parti del Brennero viene ritrovato il corpo di un uomo assassinato. E' il padre di Martin Pollack e lui non ha dubbi fin dall'inizio. La sua morte violenta - spiega - era la conclusione di una vita in cui la violenza aveva giocato un ruolo di primo piano.
Indagine su mio padre, così recita il sottotitolo di un libro che non fa sconti. Quel padre Martin Pollack non l'ha mai conosciuto, eppure la sua ombra - l'ombra di ciò che ha fatto negli anni più terribili - fin dall'inizio si è stesa su di lui. Il padre, ufficiale della Gestapo, membro delle forze speciali responsabili delle esecuzioni di massa dietro la linea del fronte, criminale di guerra.
Indagare sul padre, però, significa anche indagare su una famiglia dove il nazismo è riuscito a piantare radici salde. La cronaca familiare si mescola all'affresco storico, alle vicende di comunità di lingua tedesca fuori dalla Germania che dopo la dissoluzione dell'impero asburgico sono entrate in rotta di collisione con il mondo slavo, consegnandosi ai sentimenti nazionalistici più esasperati.
Una spirale di odio e violenza che culmina appunto nella carriera del padre. Sarebbe potuto andare diversamente? A quali condizioni?
Anche da queste domande si lascia inseguire Martin Pollack, senza perdere mai di vista il punto di vista di chi da quella macchina è stato stritolato.
Per la prima volta vedevo davanti a me delle vittime di mio padre e degli uomini ai suoi ordini, per a prima volta, belli o straziati, ebbero dei volti.
Il resto è pietà, il resto è dovere della memoria: ovvero questo libro crudele e appassionante.
Già in altri libri, su tutti Paesaggi contaminati, Martin Pollack non si è certo sottratto alla verità e al suo orrore. Qui però gioca davvero a carte scoperte, lasciandosi alle spalle ogni imbarazzo, più forte di ogni ricatto degli affetti e delle emozioni.
E forse ha esitato a lungo, prima di accingersi alla più difficile delle sue indagini, provare a fare verità anche tra le pareti di casa. Però dopo aver deciso è andato in fondo: il Morto nel bunker (Keller editore) è uno dei libri più intensi e veri su ciò che ha significato essere nazisti e far parte della macchina di sterminio di Hitler.
6 aprile 1947: in un bunker dalle parti del Brennero viene ritrovato il corpo di un uomo assassinato. E' il padre di Martin Pollack e lui non ha dubbi fin dall'inizio. La sua morte violenta - spiega - era la conclusione di una vita in cui la violenza aveva giocato un ruolo di primo piano.
Indagine su mio padre, così recita il sottotitolo di un libro che non fa sconti. Quel padre Martin Pollack non l'ha mai conosciuto, eppure la sua ombra - l'ombra di ciò che ha fatto negli anni più terribili - fin dall'inizio si è stesa su di lui. Il padre, ufficiale della Gestapo, membro delle forze speciali responsabili delle esecuzioni di massa dietro la linea del fronte, criminale di guerra.
Indagare sul padre, però, significa anche indagare su una famiglia dove il nazismo è riuscito a piantare radici salde. La cronaca familiare si mescola all'affresco storico, alle vicende di comunità di lingua tedesca fuori dalla Germania che dopo la dissoluzione dell'impero asburgico sono entrate in rotta di collisione con il mondo slavo, consegnandosi ai sentimenti nazionalistici più esasperati.
Una spirale di odio e violenza che culmina appunto nella carriera del padre. Sarebbe potuto andare diversamente? A quali condizioni?
Anche da queste domande si lascia inseguire Martin Pollack, senza perdere mai di vista il punto di vista di chi da quella macchina è stato stritolato.
Per la prima volta vedevo davanti a me delle vittime di mio padre e degli uomini ai suoi ordini, per a prima volta, belli o straziati, ebbero dei volti.
Il resto è pietà, il resto è dovere della memoria: ovvero questo libro crudele e appassionante.
lunedì 4 dicembre 2017
Galizia, regione dove vivevano uomini ne libri
Regione in cui vivevano uomini e libri. Così la definva Paul Celan, che da quella regione di uomini e libri proveniva. Diceva della Galizia, terra per cui è obbligatorio l'impiego del passato. Non la Galizia della penisola iberica, certo, quella affacciata sulle distese dell'Oceano. Ma la Galizia che era al centro dell'Europa, era perchè non c'è più, perché di essa si è perso perfino il nome, che è stato cancellato dalla geografia.
E perché sia qualcosaGalizia di Martin Pollack, uscito per Keller.
di più di un vago ricordo, di un rigo dei manuali di storia su combattimenti che non sapremmo ritrovare sulle mappe, ecco un libro magnifico,
Reportage nella Mitteleuropa scomparsa, diario sentimentale, romanzo di romanzi, resoconto di letteratura e cronaca, omaggio poetico e filosofico, non so bene dire cosa siano davvero queste pagine - e anche questo a suo modo è un apprezzamento. Non so bene, come non so bene cosa sia stata la Galizia: e anche questo, forse, è un modo di coltivarne la nostalgia.
Un tempo era il regno di Galizia e Lodomiria - e che nome da fiaba, Lodomiria. Un tempo, dopo la prima spartizione della Polonia, era dominio della corona di Asburgo. Un tempo era provincia e allo stesso tempo cuore dell'impero.
Galizia, terra che a seguirla nelle vicende della storia c'è da perderci la testa. Mosaico di popoli, laboratorio di una convivenza sempre a rischio e sempre ritrovata: ruteni, come ai tempi si chiamavano gli ucraini, polacchi, ebrei, romeni, zingari e tanti altri che forse non avete mai sentito nominare (chi erano gli huzuli? chi erano i lipovani?)
Galizia, terra di città importanti, che hanno lasciato un segno, attraverso nomi che non ci sono più, dopo continue metamorfosi che sono come il gioco delle tre carte: dove è finita Leopoli? E dove Cernowitz?
La Galizia - diceva uno dei suoi figli, il grande Joseph Roth - vive in una solitudine trasognata, eppure non è isolata: vi è più cultura di quanto le sue insufficienti fognature farebbero pensare; il disordine è notevole, le singolarità lo sono ancora di più.
Galizia, terra di scrittori come Bruno Schulz, terra che attraverso i suoi scrittori appartiene al mondo. Non c'è più, o forse c'è più di prima, ora che il mondo a cui apparteneva è stato spazzato via. Terra dell'anima, terra di parole, terra di assenza che ci reclama.

di più di un vago ricordo, di un rigo dei manuali di storia su combattimenti che non sapremmo ritrovare sulle mappe, ecco un libro magnifico,
Reportage nella Mitteleuropa scomparsa, diario sentimentale, romanzo di romanzi, resoconto di letteratura e cronaca, omaggio poetico e filosofico, non so bene dire cosa siano davvero queste pagine - e anche questo a suo modo è un apprezzamento. Non so bene, come non so bene cosa sia stata la Galizia: e anche questo, forse, è un modo di coltivarne la nostalgia.
Un tempo era il regno di Galizia e Lodomiria - e che nome da fiaba, Lodomiria. Un tempo, dopo la prima spartizione della Polonia, era dominio della corona di Asburgo. Un tempo era provincia e allo stesso tempo cuore dell'impero.
Galizia, terra che a seguirla nelle vicende della storia c'è da perderci la testa. Mosaico di popoli, laboratorio di una convivenza sempre a rischio e sempre ritrovata: ruteni, come ai tempi si chiamavano gli ucraini, polacchi, ebrei, romeni, zingari e tanti altri che forse non avete mai sentito nominare (chi erano gli huzuli? chi erano i lipovani?)
Galizia, terra di città importanti, che hanno lasciato un segno, attraverso nomi che non ci sono più, dopo continue metamorfosi che sono come il gioco delle tre carte: dove è finita Leopoli? E dove Cernowitz?
La Galizia - diceva uno dei suoi figli, il grande Joseph Roth - vive in una solitudine trasognata, eppure non è isolata: vi è più cultura di quanto le sue insufficienti fognature farebbero pensare; il disordine è notevole, le singolarità lo sono ancora di più.
Galizia, terra di scrittori come Bruno Schulz, terra che attraverso i suoi scrittori appartiene al mondo. Non c'è più, o forse c'è più di prima, ora che il mondo a cui apparteneva è stato spazzato via. Terra dell'anima, terra di parole, terra di assenza che ci reclama.
lunedì 11 settembre 2017
A Mantova saluto l'estate e mi porto via libri e promesse
Ieri in treno, di ritorno da Mantova, dopo le giornate trascorse al Festival della Letteratura che ogni settembre fa di questa città la capitale del libro e prima ancora dei lettori. Di questo sto parlando, non della mia ultima lettura, per una volta. Di un ritorno in treno, una domenica pomeriggio: e non c'è niente che mi mette più tristezza delle stazioni dei treni la domenica pomeriggio. Un giorno di fine estate, poi.
Come ogni anno è a Mantova che saluto i viaggi, i libri, i festival dell'estate.Ragione sufficiente per una robusta dose di malinconia. Eppure, eppure. Quante cose mi sono portato dietro.
Per esempio gli incontri con alcuni autori da cui quest'anno mi sono fatto coccolare - Jan Brokken e Martin Pollack su tutti - con i loro reportage narrativi, carichi di storia e storie, buona letteratura per entrare nello spirito dei luoghi.
La scoperta di altri autori, che non avevo ancora avuto la fortuna o la capacità di incrociare. Diego Marani, per dirne uno, con il suo libro sul bar del paese e su quel personaggio - Nullo di nome, non di fatto - che pare un personaggio universale: e io a interrogarmi sulle analogie e le corrispondenze che tengono insieme quel bar di paese e il mio pub di quartiere.
Le 400 persone che domenica mattina di buon'ora hanno affollato una sala perboat people dei nostri tempi e dei nostri mari - e non sapevo decidermi: 400 persone riunite così erano un'enormità o erano maledettamente poche, a fronte di un paese che non sa più ascoltare queste storie?
Kim Thúy, scrittrice vietnamita scappata ragazzina dal suo paese su un barcone, per essere bene accolta in Canada. E pensando a lei e alle storie degli altri vietnamiti che in Canada hanno trovato casa e lavoro - e che sono diventati medici, dentisti, ingegneri - pensavo anche ad altre persone -
Le chiacchiere da bar, i discorsi col vicino di sedia, le parole e i sorrisi presi al volo per le strade e le piazze di Mantova. Complicità e connivenze, magari innaffiate di lambrusco. Persone che ho ritrovato qui, dopo averle già incontrate grazie a qualche altro libro che fu galeotto in altre parti di Italia.Altre persone che solo fino all'altro ieri erano un profilo su Instagram o un blog senza volto. L'idea di far parte di una comunità di gente che legge e partecipa e senz'altro rende migliore l'Italia.
Quanti siamo, però! Sì, è vero, magari siamo tutti qui.
I ragazzi che per giornate intere hanno provato a promuovere un bel festival di poesia in Emilia, avvicinando tutti in piazza Sordello, invidia per i loro sorrisi, il loro entusiasmo e la loro maglietta: La poesia è un invito alla felicità.
Tutte le persone che agli incontri hanno sfoderato taccuini, bloc notes, quaderni, pezzi di carta su cui prendere appunti, nemmeno si fosse di nuovo sui banchi di scuola, a prepararsi per un'interrogazione.
Il solito zaino pieno di volumi che presumibilmente si accatasteranno sopra il mio baule delle "letture in attesa".
Pensare che sul treno per qualche attimo, sul treno, ho sentito come una sensazione di vuoto. Sbagliavo, certo. Con tutte le voci, tutte le parole che mi terranno compagnia. In autunno e poi in inverno, prima di ripartire.
Come ogni anno è a Mantova che saluto i viaggi, i libri, i festival dell'estate.Ragione sufficiente per una robusta dose di malinconia. Eppure, eppure. Quante cose mi sono portato dietro.
Per esempio gli incontri con alcuni autori da cui quest'anno mi sono fatto coccolare - Jan Brokken e Martin Pollack su tutti - con i loro reportage narrativi, carichi di storia e storie, buona letteratura per entrare nello spirito dei luoghi.
La scoperta di altri autori, che non avevo ancora avuto la fortuna o la capacità di incrociare. Diego Marani, per dirne uno, con il suo libro sul bar del paese e su quel personaggio - Nullo di nome, non di fatto - che pare un personaggio universale: e io a interrogarmi sulle analogie e le corrispondenze che tengono insieme quel bar di paese e il mio pub di quartiere.
Le 400 persone che domenica mattina di buon'ora hanno affollato una sala perboat people dei nostri tempi e dei nostri mari - e non sapevo decidermi: 400 persone riunite così erano un'enormità o erano maledettamente poche, a fronte di un paese che non sa più ascoltare queste storie?
Kim Thúy, scrittrice vietnamita scappata ragazzina dal suo paese su un barcone, per essere bene accolta in Canada. E pensando a lei e alle storie degli altri vietnamiti che in Canada hanno trovato casa e lavoro - e che sono diventati medici, dentisti, ingegneri - pensavo anche ad altre persone -
Le chiacchiere da bar, i discorsi col vicino di sedia, le parole e i sorrisi presi al volo per le strade e le piazze di Mantova. Complicità e connivenze, magari innaffiate di lambrusco. Persone che ho ritrovato qui, dopo averle già incontrate grazie a qualche altro libro che fu galeotto in altre parti di Italia.Altre persone che solo fino all'altro ieri erano un profilo su Instagram o un blog senza volto. L'idea di far parte di una comunità di gente che legge e partecipa e senz'altro rende migliore l'Italia.
Quanti siamo, però! Sì, è vero, magari siamo tutti qui.
I ragazzi che per giornate intere hanno provato a promuovere un bel festival di poesia in Emilia, avvicinando tutti in piazza Sordello, invidia per i loro sorrisi, il loro entusiasmo e la loro maglietta: La poesia è un invito alla felicità.
Tutte le persone che agli incontri hanno sfoderato taccuini, bloc notes, quaderni, pezzi di carta su cui prendere appunti, nemmeno si fosse di nuovo sui banchi di scuola, a prepararsi per un'interrogazione.
Il solito zaino pieno di volumi che presumibilmente si accatasteranno sopra il mio baule delle "letture in attesa".
Pensare che sul treno per qualche attimo, sul treno, ho sentito come una sensazione di vuoto. Sbagliavo, certo. Con tutte le voci, tutte le parole che mi terranno compagnia. In autunno e poi in inverno, prima di ripartire.
martedì 26 aprile 2016
Questa è l'Europa, fosse comuni sotto i campi di grano

Paesaggi contaminati, li chiama Martin Pollack, giornalista e scrittore tedesco che il problema della memoria e dell'oblio se l'è ritrovato in casa, figlio e nipote di nazisti convinti e senza pentimento - e dev'essere insopportabile sapere che tra i tuoi famigliari c'è anche il comandante di una squadra di sterminio in Europa orientale.
Paesaggi contaminati è anche il titolo del libro che ora l'editore Keller propone al lettore italiano. Libro intenso, a metà tra il saggio e il reportage, che colpisce duro a ogni pagina, consegnandoci a un orrore smisurato. Dolore, ingiustizia, colpa. Ma anche memoria e pietas. Perché questa è l'Europa, un immenso cimitero senza croci, una distesa di fosse comuni.
Sì, questa è l'Europa, tra i Balcani e l'Ucraina, la Polonia e l'Austria: una terrificante successione di luoghi dove l'uomo ha praticato lo sterminio di massa e si è liberato dei cadaveri come si farebbe con le carcasse degli animali, infliggendo l'estremo oltraggio.
Questi luoghi sono oggi luoghi diversi. Anche se la terra ha coperto tutto. Anche se l'erba è ricresciuta e gli alberi hanno messo radici. Almeno la loro percezione è cambiata, lo si capisce nei silenzi e nelle parole sommesse, imbarazzate, di chi abita nei dintorni.
Poi è vero, bisogna vedere. Bisogna voler vedere. Perché non è facile accettare che anche il bel Danubio blu sia una grande fossa comune. E che le patate e le cipolle crescano su ciò che rimane di quei poveri corpi.
Quando paesaggi idilliaci celano oscuri segreti, recita la copertina. E questa davvero è l'Europa. Non l'Europa del Medioevo, ma ciò che ci ha lasciato l'Europa del Novecento.
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