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lunedì 29 ottobre 2012

L'uomo che cammina per cercare suo figlio

C'è l'Uomo che cammina, padre di un giovane soldato morto da tempo, che una sera lascia la casa, la moglie, il brodo caldo sulla tavola, per andare "laggiù" a cercare suo figlio.

Comincia a camminare in una città mitologica e senza tempo e, di lì a poco, dietro a lui si forma una processione dolente di madri e padri che hanno perso i loro figli. Ognuno racconta la sua storia. Un compendio della cultura occidentale: la Bibbia, Erodoto, Antigone, Orfeo e Euridice, Amleto, il pifferaio magico. Dalla tragedia greca a La terra desolata.

Grossman fa l'ordinazione e poi abbassa la voce. Si comincia:

"Mia moglie sostiene che la poesia è più vicina al silenzio. Davanti a una tragedia non ci sono parole, non sappiamo dire altro che: non ho parole. Di solito quando scrivo non pianifico come sarà la forma, perché so che viene dal contenuto, ma stavolta è stato subito chiaro che la poesia è la lingua del mio dolore".

(dall'intervista di Paola Zanuttini a David Grossman, sul Venerdì di Repubblica, in occasione dell'uscita dell'ultimo libro, Caduto fuori dal mondo)

venerdì 18 maggio 2012

Il libro con cui abbiamo scoperto gli adulti

Bella la domanda che qualche tempo fa Tuttolibri ha rivolto a Eric-Emmanuel Schmitt, l'autore di libri quali Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano, La parte dell'altro, La donna allo specchio:

E lei su quali libri ha scoperto il mondo adulto?

Ha risposto così, Eric-Emmanuel Schmitt:

Sui Tre moschettieri. Avevo nove anni, sono rimasto folgorato. Mi riconoscevo in ognuno di loro ed è allora che ho scoperto la molteplicità che c'è in ognuno di noi... La pena per la morte di D'Artagnan è stato il mio primo lutto. Poi, mi sono appassionato ai drammi di Shakespeare e Amleto mi ha lasciato il segno perché è la tragedia di chi non riesce a scegliere e dunque ad agire.

Bella domanda, domanda che mi piacerebbe posta a tutti gli scrittori. Anzi a tutti noi. Facciamocela, questa domanda. Tutti noi abbiamo il libro che ci ha spinto dentro il mondo adulto. Che ci ha cambiato, solo per il fatto di finire sotto i nostri occhi e di rubarci il sonno.

Quale libro, quali libri. Così ne sapremo di più anche su di noi.

giovedì 21 luglio 2011

Il Fantasma del Padre in un pub inglese


Come nell'Amleto, solo che il marcio non è in Danimarca, ma in una cittadina inglese che più inglese non si può, tanto che un bel pezzo della storia scivola nei pub. Come nell'Amleto, perché fin dall'inizio compare il Fantasma del Padre a svelare il suo assassinio e a chiedere vendetta, solo che qui non c'è Ofelia, non c'è Amleto e per la verità non c'è nemmeno Shakespeare.

Ci sono libri che ti deludono non per quello che sono ma per le aspettative che ti hanno alimentato, sarà per il titolo azzeccato, la copertina accattivante, l'idea che te ne sei fatta grazie a qualche recensione.

Non è un brutto libro, Il club dei padri estinti di Matt Haig, che qualcuno vorrebbe paragonare, per intensità e originalità, a Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte. Scorre che è un piacere, i dialoghi funzionano piuttosto bene, provi una necessaria simpatia per il ragazzino, l'undicenne Philip, e un'altrettanto necessaria avversione per lo zio Alan, l'omicida (non vi rivelo nulla, si sa fin dall'inizio).

Poi però quello che ti rimane tra le dita è niente. Sabbia che è scivolata via e qualche retropensiero su un tentativo malriuscito di costruire un caso editoriale. Nel caso, un pessimo servizio anche a Matt Haig.

E a proposito di libri originali, che giocano tra la sofferenza della morte e la possibilità di continuare un pezzo di strada con i cari defunti, volete mettere Alice Sebold e il suo Amabili resti?

giovedì 13 gennaio 2011

La parola di Lella Costa che fanno bene al cuore

E' un libro che è un piacere possedere e leggere Amleto, Alice e la Traviata, con cui la Feltrinelli ha raccolto tre testi teatrali di Lella Costa.

Tre testi che ci ripropongono altrettante figure che da tempo sono balzate fuori dalle pagine dei libri per mettere radici profonde anche nel nostro immaginario: miti che ci accompagnano e che a volte ci parlano anche, quasi a tu per tu.

Tre testi e tre storie universali, in cui più o meno ci siamo tutti noi, in questo nostro mondo di luci e ombre, di crude realtà e di implacabili fantasie, di sogni e di risvegli.

Senza imbarazzo, senza timori reverenziali, Lella Costa si carica sulle spalle questi classici che per strada diventano un bagaglio leggero di parole condivise.

E lei vai avanti e poi ritorna, divaga e coglie il punto, suona l'intera tastiera delle emozioni e ci ingarbuglia.

Poi il monologo finisce, le luci si spengono, il sipario, quando c'è, cala. Ed è allora che scopriamo che con tutto questo Lella ci ha regalato la magia della parola di teatro.

 La parola che vola via verso l'ennesima replica e intanto si incide nei cuori.

mercoledì 18 novembre 2009

Su Amleto e la paura di essere se stessi


Se si chiude gli occhi, se si prova a indugiare per qualche istante, queste scene tornano sempre a popolare la nostra immaginazione: le torri di Elsinore, la vecchia capitale della Danimarca, i soldati che durante la guardia, mentre aspettano il cambio della mezzanotte, scorgono il fantasma del re ammazzato, la bella Ofelia che si suicida, e poi soprattutto lui Amleto, il principe che conoscono anche i più digiuni di Shakespeare, il personaggio che ci accompagna con la domanda più celebre che mai si sia ascoltata da un palcoscenico, la domanda che di volta in volta è poi diventata in tutti noi citazione e scherzo, cantilena e inquietudine esistenziale.

Nella storia della letteratura mondiale non c'è un altro che abbia messo radici così nei nostri cuori, e certo non solo per il suo “Essere o non essere”, perché in realtà Amleto è assai di più.

Amleto è altro. Amleto, soprattutto, si sottrae a ogni definizione, a ogni facile classificazione: trovatelo, un altro personaggio in questo modo, così complesso e complicato, così ricco di sfumature e contrasti, così sfuggente.

È per Amleto che la storia che ci racconta Shakespeare non è soltanto la storia di una vendetta. Perché tra lui e la vendetta Amleto stende un oceano di esitazioni, un dubbio che procastina in continuazione il compimento dei destini.

E non è nemmeno la storia della finta follia di Amleto – parte che recita a sua volta una parte – ma piuttosto una storia che manda in scena il dubbio, l'ambiguità, il distacco tra l'essere e l'apparire, tra il pensare e l'agire. E se si vuole, anche la sconfinata malinconia per tutto questo.

Verrebbe da dire anche che che c'è tanta saggezza nella follia di Amleto, vero e presunta che sia.

Come se solo da una sguardo anomalo, da uno sguardo che si sistema a lato, si possa arrivare a nude verità, che poi sarebbero di tutti, se solo si avessero davvero occhi per guardare.

Pensate per esempio all'inutilità della guerra... Pensate ad Amleto che si leva in piedi e considera i «20 mila uomini che per un sogno, per un capriccio dell'onore vanno alla tomba come a letto, e combattono per un palmo di terra che non basterà nemmeno a seppellirli». Immagine che, per dire, arriverà fino a una poesia di Bertold Brecht.

Però non è la sua saggezza a colpirci. Se Amleto è Amleto lo è perché anche noi siamo malati della stessa malattia, anche noi siamo malati di esitazioni e di contraddizioni. Anche noi ci affliggiamo perché tra il dire e il fare c'è sempre di mezzo il mare, perché non sappiamo cosa vogliamo e se sappiamo ci si arrende al vorrei ma non posso, perché certe emozioni non trovano mai la loro strada, perché dubitiamo e ci facciamo scacco.

Siamo tutti un po' Amleto, aggrappati alle nostre paure.
Siamo tutti un po' avvolti nelle nebbie del castello di Elsinore. Tutti aggrappati al fragile guscio delle parole di Ofelia: “Sappiamo quello che siamo, ma non quello che potremmo essere”.

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...