
Se si chiude gli occhi, se si prova a indugiare per qualche istante, queste scene tornano sempre a popolare la nostra immaginazione: le torri di Elsinore, la vecchia capitale della Danimarca, i soldati che durante la guardia, mentre aspettano il cambio della mezzanotte, scorgono il fantasma del re ammazzato, la bella Ofelia che si suicida, e poi soprattutto lui Amleto, il principe che conoscono anche i più digiuni di Shakespeare, il personaggio che ci accompagna con la domanda più celebre che mai si sia ascoltata da un palcoscenico, la domanda che di volta in volta è poi diventata in tutti noi citazione e scherzo, cantilena e inquietudine esistenziale.
Nella storia della letteratura mondiale non c'è un altro che abbia messo radici così nei nostri cuori, e certo non solo per il suo “Essere o non essere”, perché in realtà Amleto è assai di più.
Amleto è altro. Amleto, soprattutto, si sottrae a ogni definizione, a ogni facile classificazione: trovatelo, un altro personaggio in questo modo, così complesso e complicato, così ricco di sfumature e contrasti, così sfuggente.
È per Amleto che la storia che ci racconta Shakespeare non è soltanto la storia di una vendetta. Perché tra lui e la vendetta Amleto stende un oceano di esitazioni, un dubbio che procastina in continuazione il compimento dei destini.
E non è nemmeno la storia della finta follia di Amleto – parte che recita a sua volta una parte – ma piuttosto una storia che manda in scena il dubbio, l'ambiguità, il distacco tra l'essere e l'apparire, tra il pensare e l'agire. E se si vuole, anche la sconfinata malinconia per tutto questo.
Verrebbe da dire anche che che c'è tanta saggezza nella follia di Amleto, vero e presunta che sia.
Come se solo da una sguardo anomalo, da uno sguardo che si sistema a lato, si possa arrivare a nude verità, che poi sarebbero di tutti, se solo si avessero davvero occhi per guardare.
Pensate per esempio all'inutilità della guerra... Pensate ad Amleto che si leva in piedi e considera i «20 mila uomini che per un sogno, per un capriccio dell'onore vanno alla tomba come a letto, e combattono per un palmo di terra che non basterà nemmeno a seppellirli». Immagine che, per dire, arriverà fino a una poesia di Bertold Brecht.
Però non è la sua saggezza a colpirci. Se Amleto è Amleto lo è perché anche noi siamo malati della stessa malattia, anche noi siamo malati di esitazioni e di contraddizioni. Anche noi ci affliggiamo perché tra il dire e il fare c'è sempre di mezzo il mare, perché non sappiamo cosa vogliamo e se sappiamo ci si arrende al vorrei ma non posso, perché certe emozioni non trovano mai la loro strada, perché dubitiamo e ci facciamo scacco.
Siamo tutti un po' Amleto, aggrappati alle nostre paure.
Siamo tutti un po' avvolti nelle nebbie del castello di Elsinore. Tutti aggrappati al fragile guscio delle parole di Ofelia: “Sappiamo quello che siamo, ma non quello che potremmo essere”.
Ci sono libri che ti deludono non per quello che sono ma per le aspettative che ti hanno alimentato, sarà per il titolo azzeccato, la copertina accattivante, l'idea che te ne sei fatta grazie a qualche recensione.
Non è un brutto libro, Il club dei padri estinti di Matt Haig, che qualcuno vorrebbe paragonare, per intensità e originalità, a Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte. Scorre che è un piacere, i dialoghi funzionano piuttosto bene, provi una necessaria simpatia per il ragazzino, l'undicenne Philip, e un'altrettanto necessaria avversione per lo zio Alan, l'omicida (non vi rivelo nulla, si sa fin dall'inizio).
Poi però quello che ti rimane tra le dita è niente. Sabbia che è scivolata via e qualche retropensiero su un tentativo malriuscito di costruire un caso editoriale. Nel caso, un pessimo servizio anche a Matt Haig.
E a proposito di libri originali, che giocano tra la sofferenza della morte e la possibilità di continuare un pezzo di strada con i cari defunti, volete mettere Alice Sebold e il suo Amabili resti?