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lunedì 2 marzo 2020

L'Odissea fa ritrovare un padre e un figlio

L'Odissea dunque non è solo una storia di mariti e mogli, è anche, e forse ancor di più, una storia di padri e figli. 

Vero: e il bello è che non riguarda solo i padri e i figli degli Achei, riguarda anche noi, padri e figli che vivono millenni dopo la guerra di Troia e il ritorno degli eroi, ma che sono sempre alle prese con le stesse passioni e gli stessi destini.

Ecco perché può succedere quello che succede a Daniel Mendelsohn, critico letterario e scrittore che io ricordo in particolare per Gli scomparsi, meravigliosa storia di viaggio per ritrovare le proprie radici in luoghi condannati al silenzio. 

In Un'Odissea. Un padre, un figlio e un'epopea (Einaudi) David si trova a organizzare un seminario universitario sul poema omerico. E tra gli studenti iscritti, diciottenni o poco più, ecco che sbuca la testa del padre, ottantenne matematico e ricercatore scientifico per niente disposto ad ascoltare in silenzio le lezioni del figlio. "Non capisco perché dovremmo considerarlo un grande eroe" dice il primo di Ulisse. "Sarà un incubo" pensa quest'ultimo già alla fine della prima mattinata e ha le sue ragioni.

Solo che poi succedono molte altre cose: per esempio che il figlio proponga al padre una crociera nel Mediterraneo, nei luoghi del mito, e che il babbo acconsenta. E che il loro viaggiare tra le pagine e sulle rotte marine diventi rivelazione, sorpresa, nuovo inizio.

A volte abbiamo ancora da scoprire il meglio di chi crediamo di conoscere. A volte succede grazie a un libro che parla di storie remote che sono ancora le nostre storie. 

venerdì 20 dicembre 2019

Prima di tutto fermarsi, per una birra e una storia

Prima di tutto fermarsi, prima di tutto ritrovare il piacere di una birra in compagnia, di una storia che è bello condividere.

A volte inventata, ma solo a volte, perché in genere la realtà sa essere molto più fantasiosa di ogni nostra fantasia.

Prima di tutto inseguire le vite, a volte restituire loro quella vita che le parole consentono. E dopo essersi fermati ripartire, con i viaggi nello spazio e nel tempo che si possono fare anche al tavolino di 
un pub o in attesa di un treno alla stazione.

In tutti questi anni ho scritto di viaggi, di cammini e montagne, di vite dimenticate, di memorie ai margini. Una trentina di libri, ma questo è il primo che raccoglie i miei racconti.

Dentro queste pagine il mercante che regalò a Firenze la Cappella Brancacci, un poeta del Mugello fatto schiavo dai corsari berberi, i morti del Cimitero degli Inglesi e i morti della più grande tragedia del Mediterraneo. E altro ancora, seguendo le scintille della curiosità, le traiettorie della divagazione, il senso della parola necessaria.

lunedì 18 novembre 2019

Tra una birra e una storia, i racconti dei luoghi

Prima di tutto fermarsi, prima di tutto ritrovare il piacere di una birra in compagnia, di una storia che è bello condividere.

A volte inventata, ma solo a volte, perché in genere la realtà sa essere molto più fantasiosa di ogni nostra fantasia. Prima di tutto inseguire le vite, a volte restituire loro quella vita che le parole consentono.

 E dopo essersi fermati ripartire, con i viaggi nello spazio e nel tempo che si possono fare anche al tavolino di un pub o in attesa di un treno alla stazione. Paolo Ciampi in tutti questi anni ha scritto di viaggi, di cammini e montagne, di vite dimenticate, di memorie ai margini. All’attivo ha una trentina di libri, ma questo è il primo che raccoglie i suoi racconti.

Dentro queste pagine il mercante che regalò a Firenze la Cappella Brancacci, un poeta del Mugello fatto schiavo dai corsari berberi, i morti del Cimitero degli Inglesi e i morti della più grande tragedia del Mediterraneo. E altro ancora, seguendo le scintille della curiosità, le traiettorie della divagazione, il senso della parola necessaria.

 (dalla quarta di copertina di Tra una birra e una storia - Betti editore, collana I labirinti)

lunedì 14 ottobre 2019

Con l'ultimo rais del tonno il mondo che non c'è più

Un tempo c'erano i tonni nel nostro mare, un tempo c'erano isolani che li pescavano insieme ed erano comunità. Di questo vivevano e la pesca era fatica e rito, tradizione e promessa di futuro. Un tempo, però, un tempo che non era ancora il tempo delle tonnare soppiantate dalle navi frigorifero giapponesi, il tempo del sushi e di Masterchef, il tempo del lavoro che ha smesso di diventare tale per immalinconirsi nel folclore. 

E tra l'uno e l'altro tempo c'è stato un uomo che ha provato ad arrestarlo il tempo, a dargli un altro verso. Si chiamava Gioacchino Cataldo, è stato l'ultimo rais di Favignana: così si chiamavano gli uomini che guidavano la pesca in tonnara, con termine preso in  prestito dall'altra sponda del Mediterraneo, in un mare che anche questo è stato, scambio e non solo crociata. 

Il rais: non solo un pescatore più abile, ma una sorta di sciamano delle acque, un concentrato di esperienza e saggezza che una volta pretendeva addirittura un diritto di successione per linea di sangue.

In L'ultimo rais di Favignana. Aiace alla spiaggia (Bonfirraro editore) Massimiliano Scudeletti insegue la sua storia. La storia di un ultimo: e si capisce che sono storie a lui congeniali, quelle degli ultimi, un po' come l'ultimo dei Mohicani. La insegue, questa storia, la racconta, si mescola ad essa: e in questo modo la narrazione si allarga, diventa storia di un mondo al crepuscolo e di un sogno che quasi si fa realtà prima di allentare la presa. 

E sì, forse è anche la storia di una generazione di persone che magari in vita sua non ha mai visto Favignana, tanto meno una tonnara, ma come dice Massimiliano, malgrado i nobili scopi, i modi geniali, spesso disperati nella loro inattualità, ha avuto come ricompensa di essere tramutata in statua di tufo tra gente altra che passeggia. Oppure si è venduta

La mia generazione, la generazione di Massimiliano.

 C'è l'odore della salsedine e l'odore degli spaghetti al tonno, in questo libro, ci sono gli orizzonti del mare aperto e dei sogni che a volte si coltivano a occhi aperti. C'è una storia che, incredibilmente appartiene a tutti noi, persone che spesso ci facciamo fuori le scatolette del tonno senza nemmeno sospettare che prima quei filetti erano guizzi di vita nelle profondità.










lunedì 20 maggio 2019

I gatti sono come i venti che portano storie

Racconta Paolo che a casa ha una gatta, si chiama Mina, ha 15 anni ed è zoppa, ma lo aspetta sempre sul molo della sua isola immaginaria, sonnecchia mentre lui balza di storia in storia. E' l'unico essere vivente a cui non deve spiegare che quando guarda fuori dalla finestra sta lavorando - e questo mi sembra già tanto.

Racconta Paolo che il gatto mediterrano ama la solitudine, non conosce il peso del ricordo, non vuole essere altro che se stesso in un mondo in cui tutti vorrebbero essere qualcos'altro: insomma, la sua è una vita pagana, epicurea, forse zen.

Racconta Paolo che il gatto mediterraneo è un'isola, e l'isola è isolata, appunto, però il mare che è intorno non è solo separazione, è anche viaggio e possibilità di incontro e poi non ci sono solo le correnti, c'è anche il vento che sorvola il mare e porta le storie da una costa all'altra: e questo il gatto lo sa benissimo. 

Quante cose ci sono in questo gioiello di poche pagine e molte emozioni, L'istinto del gatto mediterraneo di Paolo Ganz (Piccola filosofia di viaggio, Ediciclo). Sembra un libro fatto apposta per me, che da qualche mese ho provveduto a dotarmi di felino domestico, una gattina di nome Lola. Però ancor di più me lo sento cucito addosso perchè dentro c'è il viaggiare, di più, ci sono i luoghi: ci sono più che in un libro dedicato ai mercantili che solcano il mare.

Mina è un po' tutti i gatti del mondo, soprattutto quelli che abitano i porti e gli angiporti del nostro Mediterraneo. E i gatti di Paolo sono vele che prendono il vento per consegnarci ad altre destinazioni. 

Quello del gatto, racconta Paolo, è un mondo piccolo, anzi, un mondogatto: come in genere lo è quello di scrive e persino di chi viaggia e va lontano per cercare nuove rotte verso casa. 

Sì, è proprio isola, il gatto. Come le isole dell'Egeo che Paolo ha saputo regalarci in altri ottimi libri. Isola e isole, arcipelaghi. Come i gatti, come le storie che non smettono di cercarsi e riconnettersi. 


domenica 20 maggio 2018

In un'isola greca, perché arenarsi è un'arte

Ci sono libri che ti regalano l'emozione del viaggio anche quando non riguardano posti che solleticano la tua voglia di partire, perché sanno farsi luogo dell'anima a prescindere. E così è per le isole della Grecia che scopro nelle pagine di Paolo Ganz: è dai tempi dell'università che non cerco un volo o un traghetto per raggiungerle, quando qualcuno ne parla provo a esercitare l'arte del distacco, eppure cosa può fare un libro, un bel libro.

E questo è La Grecia di isola in isola di Paolo Ganz (Ediciclo), un libro bello, un libro che sa di Mediterraneo e che del Mediterraneo porta il vento, gli odori, il rumore della risacca, soprattutto la luce. Un libro che va oltre i luoghi comuni, i resoconti da supplemento viaggi di quotidiano, la facile seduzione per adescare gli eserciti di vacanzieri.

Qui c'è molto altro, c'è la Grecia di un viaggiatore vero, c'è la parola meditata su libri importanti, colta sulla linea dell'orizzonte o tra le voce di una caffetteria, filtrata e fermata su un taccuino. Parole che rimandano a letture, a miti, a pensieri. E che dilagano fino a tornare alle sorgenti della nostra civiltà o a interrogarsi su ciò che può essere l'Europa oggi, un'Europa che non necessariamente è quella che si ha per la testa Berlino o Parigi: perché questo è il Mediterraneo, il mare che va in Africa.

Da  Rodi, con la sua storia così intrecciata alla nostra, a Megisti, che non è solo il set di uno dei film più fortunati del cinema italiano. Da Corfù, per alcuni studiosi dell'Odissea la terra dei Feaci, fino a Matala, la spiaggia di Creta che non è più degli hippie ma dove ancora sembra risuoni una canzone di Joni Mitchell.

Paolo Ganz salta di isola in isola e ovunque ci sono storie e oltre le storie c'è una storia che scava dentro e riguarda tutti: perché arrivare e partire, di isola in isola, in fondo riguarda tutti.

Arenarsi è un arte - spiega a un certo punto Paolo - un dono di pochi capaci di lasciarsi andare all'agrodolce piacere di non riuscire più a salpare.

Ecco, in queste pagine vien voglia di essere una di quelle barche, che si arrendono al fondale e al destino. Senza partire più, per un pezzo almeno. Stranieri e cittadini in una di queste isole: con un canto di Omero e un bicchiere di ouzo a tenere compagnia. 

martedì 13 giugno 2017

Quando la storia del Mediterraneo è appassionante come un romanzo

E meno male che era considerato solo il grande storico del Mediterraneo del Cinquecento e del Seicento, di altre epoche non si sa. Meno male che lui stesso aveva dubitato di quello che stava facendo, tanto che il manoscritto, dopo alcune vicissitudini editoriali, non era stato pubblicato, anzi, era rimasto in un cassetto per i dieci anni successivi alla sua morte. Cosa avremmo perso se alla fine non avesse trovato la strada della pubblicazione.

Memorie del Mediterraneo di Fernand Braudel (Bompiani) è assai più di un ottimo saggio storico. Non è l'opera di uno specialista per specialisti. Si raccomanda per la lettura a tutti coloro che sentono il richiamo di un mare che - come indica lo stesso nome - è spazio tra terre diverse dove tante civiltà hanno conosciuto prosperità e declino.

Lettura buona per chi ama capire cosa rimane oltre i singoli eventi e per chi sa che c'è una storia oltre l'odore della salsedine, la rosa dei venti, le merci accatastate sui moli e i sapori delle cucine: di più, che proprio queste cose fanno la storia.

E la storia che Braudel racconta abbraccia con un poderoso colpo d'occhio i secoli e i millenni. Parte dall'inizio, dal mare che non è ancora mare, per raccontare poi i tanti popoli che questo mare lo hanno solcato, dai cretesi ai fenici, dagli etruschi ai greci e ai romani.

E quante sorprese in queste pagine, quanti punti fermi che lo storico fissa a uso e consumo del nostro presente.

Per esempio, sullo spazio e sul tempo, perché il Mediterraneo, spiega Braudel, non si è mai rinchiuso nella propria storia, ma ne ha rapidamente superato i confini: a ovest verso l'oceano Atlantico; a est attraverso il Vicino Oriente... Oltrepassato l'ultimo olivo, la vita e la storia del Mediterraneo non si interrompono solo per far piacere al geografo, al botanico, allo storico.

E poi il Mediterraneo è mare di scambi, di mescolanze, di appartenenze sfumate e confuse, a volta esse stesse fonte di equivoci. Allo stesso modo con cui la vela triangolare che noi chiamiamo latina ci arriva dall'oceano Indiano ed è regalo dell'Islam.

Il Mediterraneo è storia di potenti flussi migratori - mica solo ora  - è storia di popoli che hanno passato il mare e hanno cominciato un'altra vita su un'altra sponda, come i coloni delle città greche in Sicilia e in Calabria. Carestie, invasioni, massacri, ma poi una storia che si distende, dopo la tragedia.

E' mare dove le civiltà più belle e affascinanti - a volte anche le più misteriose - sono state quelle più aperte allo scambio, meno tenacemente dedite al mestiere della guerra. Dagli ittiti che non manifestano la crudeltà guerriera di tutta un'epoca ai minoici di Creta, con i loro palazzi senza difese, agli etruschi, con i sorrisi enigmatici della loro arte.

Ci sono simpatie, ci sono emozioni, in questo libro appassionante come un romanzo. Non le nasconde, Braudel, le rivel,a ci gioca, se ne fa forte:

Queste passioni contraddittorie sono la fiamma di cui si nutre la storia, quella che ci viene raccontata e quella che a nostra volta cerchiamo di comprendere. Come si potrebbe non soffrire, o non entusiasmarsi cammin facendo, anche se è un peccato contro le sacrosante regole dell'imparzialità?

 Concordo. E anch'io, in queste pagine, mi sono sentito ittita, cretese, etrusco, nomade del mare

mercoledì 12 aprile 2017

Creta e l'uomo in cammino, quando un'isola diventa luogo del cuore

Raccogli un sasso sulla spiaggia più a est, lo infili in tasca e inizi il tuo cammino. Nei trenta giorni che seguono non si contano le volte in cui lo tocchi, anzi, lo accarezzi, lasciando scivolare le tue dita lungo la superficie liscia: solo per sincerarti di non averlo perso. Solo per poter arrivare in fondo - al mare più a ovest, quello che guarda la Libia - e lasciarlo cadere dietro di te.

Un gesto così, ma sono gesti così che danno anima a un viaggio. Come un rito che segna l'inizio e la fine. Poi, in mezzo, ci sono le altre cose: e quante ce ne sono in Rapporto a Kazantzakis di Luca Gianotti (Edizioni dei Cammini), uomo che come pochi ha indagato le infine possibilità del cammino.

C'è tutta Creta, prima di tutto, attraversata da Est a Ovest lungo un sentiero che magari non sarà per tutti, ma di cui tutti, già in questre pagine, possono percepire la straripante bellezza, l'indicibile suggestione. Ci sono montagne che sembrano toccare il cielo e squarci di azzurro giù in basso. Ci sono chiese e monasteri di un altro cristianesimo, fatto di liturgie e vicende che non sono le nostre, ma con le nostre sono intimamente intrecciate. C'è l'Oriente e c'è l'Occidente, in mezzo al Mediterraneo. C'è  l'odore della salsedine che si  mescola ai molteplici odori della macchia mediterranea. Ci sono i  paesi e i villaggi dove la gente sa ancora trattare il viandante come un ospite e accoglierlo con generosità. Ci sono gli incontri, i tanti incontri, di un camminatore che come sa abitare con agio la sua solitudine così sa aprirsi, ricevere, restituire.

Quante cose, davvero, soprattutto se ti fai accompagnare dalle parole di uno scrittore che in Italia meriterebbe di essere conosciuto di più e comunque non solo per Zorba il greco: che peraltro è un grande romanzo prima di essere un film con la colonna sonora che ha lanciato il sirtaki.

Nikos Kazantzakis, insomma: e chissà che a tenercelo lontano non sia stato questo cognome così ostico. Scrittore complesso, inquieto, uomo in ricerca come in fondo lo sono i viandanti. Quando scrisse la sua autobiografia la intitolò Rapporto a El Greco, richiamando il pittore dallo sguardo cretese. A sua volta Luca, che ha scoperto Creta come luogo del cuore,ora  fa il suo rapporto a Nikos, lo scrittore.

Come un discepolo che segue le orme del maestro. Ancora incapace di convincersi di tanta meraviglia. 

giovedì 23 febbraio 2017

Se l'ignoto è ancora davanti a noi

Il libro che state per iniziare parla di esplorazione e di ignoto. E di quanto il mondo a forza di farsi sempre più piccolo e conosciuto abbia visto sparire quei sogni e quelle aspirazioni che per secoli sono andati assieme ai viaggi e alle scoperte.

Credete in me, i libri di Alessandro Vanoli sono tappeti volanti di parole, in grado di portarvi molto lontano. Ci entrate dentro in punta di piedi, convinti delle vostre coordinate geografiche e del vostro fuso orario, per trovarvi di schianto sbalzati in un altro continente e in un'altra epoca. E il bello è che non ci sono effetti speciali, semmai la competenza e la passione dello storico, insieme a quelle doti narrative che nello storico spesso scarseggiano.

L'avevo già sperimentato con Quando guidavano le stelle, racconto di un Mediterraneo più volte attraversato in un grande viaggio sentimentale. E lo ritrovo ancora di più in questo nuovo libro, L'ignoto davanti a noi (Il Mulino), con tanto di sottotitolo che è di per sé indicazione di rotta: sognare terre lontane.

Perché poi è vero, ogni viaggio, ogni autentico viaggio, è attesa, desiderio, emozione che non si lascia catalogare e ovviamente sogno. Vale in qualche misura ancora oggi, figurarsi ai tempi in cui le mappe erano approssimative, gli oceani erano popolati di mostri, le chiacchiere nelle taverne dei porti mescolavano ambizioni e superstizioni, interi continenti non c'erano o erano solo un contorno con la terra incognita dentro.

Erano tempi difficili, ma anche tempi meravigliosi di avventura e scoperta. Prima dei Gps, prima dell'altrove che ormai è un ovunque. Vanoli ci prende per mano e ci accompagna tra navigatori del mondo antico e pirati dei Caraibi, tra monaci buddisti in cammino e naufraghi tra isole che poi sono diventate letteratura.

E quanti nomi che ritornano dai romanzi e dalle fantasticherie di quando ero un ragazzo: Cristoforo Colombo e Ibn Battuta, Marco Polo e Henry Morgan.

Ciò che soprattutto mi interessa - spiega Vanoli quasi a mettere le mani avanti - è la storia del lento scomparire dello spazio esplorabile.

Sarà vero? Certo che no, per uno studioso che sospetto sia rimasto eterno ragazzo. Ci scommetto, perché con lui -  scopro - condivido libri che non ti mollano più, che lasciano il segno: Emilio Salgari, Robert Louis Stevenson, Italo Calvino e incredibile, incredibile, persino Peter Kolosimo (allora non ero il solo...).

E' evidente che non potrà che pensarla così:

Dell'ignoto abbiamo ancora bisogno e, soprattutto, a ben guardare di ignoto e di stupore è ancora pieno il mondo.

Così dice  Vanoli. E io insieme a lui. 
 

lunedì 14 novembre 2016

Riscoprire il Mediterraneo con le stelle di una volta

Questo è il racconto di un viaggio. Parla di barche, di mare e di coste; di città antiche e di metropoli moderne, di porti ormai scomparsi e soprattutto di un tempo lontano quando le stelle orientavano il cammino.

Ecco il libro che non ti aspetti da uno storico: e lo dico con tutta la considerazione possibile per chi la storia la esercita. Non te l'aspetti, perché ci sono dentro molte cose che in un libro di storia, soprattutto se italiano, raramente ci sono. C'è buona, anzi ottima narrazione. C'è capacità di prendere per mano il lettore e di accompagnarlo dentro un tempo. C'è bisogno di immedesimazione, che non fa mai male. C'è persino immaginazione, che sembra che non c'entri niente con il mestiere dello storico,  e invece no, credo che per lo storico ci voglia anche l'immaginazione, purché onesta e ben alimentata dagli studi.

C'è tutto questo in Quando guidavano le stelle di Alessandro Vanoli, pubblicato dal Mulino. Libro di uno storico, appunto, ma soprattutto libro di viaggio, gran libro di viaggio. Anzi, di viaggio sentimentale, come recita il sottotitolo: anche se poi ogni viaggio, se è importante, evoca i sentimenti e con essi si misura.

Un viaggio, anzi quattro viaggi, attraverso il Mediterraneo, il mare ormai lontano, come si ricorda nell'introduzione. E' il nostro mondo, ma anche un mondo che ormai non c'è più.  E' la nostra storia, ma anche una storia divisa, lacerata, oggi perfino più complicata.

Sino a non molto tempo fa - spiega Vanoli - Il Mediterraneo era, a suo modo, anche una scelta di civiltà, l'idea di un'antica matrice comune. Signori della guerra e crociati, pirati e mercanti di schiavi, certo, erano all'opera. Eppure a quel mare appartenevamo tutti, grazie a quel mare ci si mescolava. Solo che tutto questo oggi sta scomparendo: il Mediterraneo è diventato confine liquido, steppa da cui prima o poi arriveranno i barbari.

Bene dunque riprendere il mare, magari scendendo un giorno al Pireo per cercare l'antico porto di Atene con le parole della Repubblica di Platone. Per trovarlo davvero,  nelle fonti della storia e della letteratura, come nelle suggestioni di un viaggiatore moderno. Bene respirare la stessa aria che gonfia le vele, fremere per l'ormeggio che si scioglie. Salutare il molo e scrutare orizzonti più ampi.

Questo libro l'ho divorato negli stessi in cui per lavoro partecipavo al lancio di Mediterraneo Downtown, a Prato, e cominciavo le presentazioni del mio Fibonacci, cioè di un grande toscano che seppe attraversare il Mediterraneo. Non mi paragono a questo libro in cui piuttosto ho ritrovato le sensazioni di altre letture - dalle parti di Braudel e Matvejevic - però ritrovo in queste pagine gli stessi sentimenti: curiosità come minimo. La voglia di andare sull'altra sponda per capire cosa c'è davvero.

E' una bella giornata si sole e le correnti sembrano favorevoli. I libri bisogna avere il coraggio di chiuderli ogni tanto e accettare la sfida e la fatica: i remi fendono l'acqua con lentezza e l'aria ha l'odore del sale. C'è un grande viaggio che ci aspetta e un mare infinito davanti a noi. 

lunedì 5 settembre 2016

Trieste, Livorno, Taranto, il viaggio mediterraneo che non ti aspetti

Ecco, questi sono i viaggi che mi piacciono: non stanno nel catalogo di un tour-operator, non appartengono alla categoria dell'almeno una volta nella vita, non sono nemmeno il facile suggerimento di una guida o di una carta. Nascono piuttosto dal cuore del viaggiatore, dalla sua capacità di immaginarsi un itinerario, dal suo desiderio di mettersi in movimento e di cercare, attraverso il movimento, connessioni e suggestioni. In genere una buona lettura aiuta più di un titolo di viaggio.

E dunque, questi sono i viaggi che mi piacciono, ma soprattutto questo è il modo in cui mi piace che i viaggi siano raccontati: con intelligenza e garbo, con la capacità di trasformare un diario in una storia, di divagare, di assecondare la curiosità.

Tutto questo c'è in Città nascoste. Trieste Livorno Taranto di Paolo Merlini e Maurizio Silvestri, uscito per Exòrma, libro che mi ha colto di sorpresa, su cui non avevo messo gli occhi e che forse non mi sarei mai portato a casa senza un buon suggerimento. Ma come, un libro su queste tre città? Che viaggio è? E qual è il filo che può tenere tutto?

Fili, in realtà ce ne sono in abbondanza, come spiega anche Alessandro Leongrande – l'autore de La frontiera – nella sua prefazione. Perché Trieste, Livorno e Taranto sono tre città di mare, che del mare hanno assorbito – accanto a poche altre città adriatiche, ioniche, tirreniche – la fluidità, l'instabilità, l'intima tolleranza, gli odori, la brezza, la luce.

Città mediterranee, certo, che hanno tratto linfa e anima più dal porto che dalla terra alle spalle. Ma anche città con un Novecento complesso alle spalle e una scommessa sulla grande industria che doveva essere il futuro e che invece oggi gronda di passato.

Si aggirano per queste tre città, gli autori, ne colgono gli umori e i sapori. Bazzicano osterie, caffè, librerie sorprendenti. Registrano le battute dissacranti e surreali di chi ne ha già viste molte e molte ne vedrà. Si concedono volentieri cacciucco, vini del Carso e cozze. Saltano su vecchi tram, perdono tempo tra le bancarelle dei mercati e sui moli degli arrivi e delle partenze. Ragionano di chansonnier maledetti e di gente che sta rendendo migliori i quartieri che sembravano spacciati.

Quante cose ci sono, dentro questo libro. Allo stesso modo della zuppa di mare che, con nomi diversi, ti imbandiscono in ogni scalo del Mediterraneo: tutto si può adoperare, tutto si mescola e conferisce un nuovo gusto. E non c'è dettaglio marginale, non c'è incontro di sfuggita, non c'è scampolo di storia che non faccia al caso.

mercoledì 24 agosto 2016

Cosa c'è prima dei barconi del Mediterraneo

Ho impiegato molto tempo per capirlo. Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte. Sedersi per terra intorno a un fuoco e ascoltare le storie di chi ha voglia di raccontarle, come hanno fatto altri viaggiatori fin dalla notte dei tempi.

Dovessi scegliere le righe in grado di riassumere il senso e lo spirito de La frontiera di Alessandro Leogrande (Feltrinelli), non avrei dubbio, sono senz'altro queste. Giungono verso la fine di questo libro denso e intenso, che non è un romanzo, ma che si legge come un romanzo, che indaga sulle tragedie dei nostri giorni e sa allo stesso tempo acquistare un respiro più ampio, che racconta vicende di un'infinità di persone e che pure porta dentro la narrazione anche l'esperienza, il vissuto di chi scrive.

Ha scritto davvero un bel libro, Alessandro Leogrande, giovane scrittore e vicedirettore del mensile Lo Straniero. Senza retorica, con sguardo pulito, entra dentro l'immane tragedia dei nostri giorni, l'esodo di milioni di persone dai paesi della disperazione. Si interroga sulla nostra frontiera, quella linea immaginaria attraverso il Mediterraneo che unisce e più spesso separa, che è di tutti e di nessuno, che è possibilità di salvezza e tomba per tanti. Ma soprattutto intende andare oltre ciò che c'è alla fine del viaggio: un elenco di morti - di cui per la verità spesso ignoreremo anche i nomi - oppure una lista di richiedenti asilo scampati alla traversata ma non alle incognite del futuro.

E' importare scomporre questo esodo collettivo nei nomi, nei volti, nelle storie. E soprattutto è importante raccontare le storie di questi uomini, donne, bambini. Storie che iniziano prima, molto prima.

Libro importante, La Frontiera, proprio perché ci racconta questo prima. Sia esso l'Eritrea di una speranza rivoluzionaria degradata a orrenda dittatura, oppure la Libia implosa in terribili guerre tribali.

Storie, storie che sarebbe bello ascoltare dalla labbra stesse di chi ce l'ha fatta, perché è proprio con il racconto - dai tempi di Ulisse naufrago nell'isola dei Feaci - che lo straniero si fa davvero ospite. Ma in ogni caso racconto importante, racconto prezioso, in quest'epoca di confini che cambiano, di mura che si consolidano, di distrazione che cresce per il grido di dolore del mondo.


martedì 22 dicembre 2015

Due giovani donne nell'Istanbul sospesa tra due mondi

E dunque, questo è un libro che sembra fatto apposta per coglierti di sorpresa. Fin dall'inizio, allorché si parla di una giovane donna che si rivolge in una clinica per abortire, mentre dall'esterno si sente il richiamo alla preghiera di una moschea. Ma come? Forse non si può fare di ogni erba un fascio, forse anche nell'Islam c'è paese e paese. Ma del resto siamo a Istanbul, paese sospeso tra l'Europa e l'Asia, tra la modernità in versione american way of life e una tradizione che affonda nelle storie e nei popoli del Mediterraneo. E per l'appunto questa è una storia che rimbalza tra il Bosforo e la California e che è opera di una scrittrice turca, che però come lingua ha scelto l'inglese... tanto per confondere le idee.

E per confonderle ancora di più: La bastarda di Istanbul di Elif Shafak - questo è il libro di cui vi parlo - sa trasportarci in una Turchia che non è quella di altri grandi scrittori come Orhan Pamuk (di cui mi manca però l'ultimo libro), la Turchia dei giannizzeri e dei pascià. Affonda nelle storie terribili del passato - in particolare nelle terribili vicende degli armeni - eppure lo fa con una leggerezza da romanzo ambientato nella Manhattan di Woody Allen. E questo senza rimuovere, senza nascondersi. Semplicemente sprigionando un'idea di futuro, attraverso la capacità delle persone di ritrovarsi e andare oltre i muri.

Ecco, è questa la storia che racconta Elif Shafak. La storia di due giovani donne, Armanoush, americana in cerca delle proprie radici armene, e Asya, ragazza turca. Due persone che tutto ha congiurato per dividere. E che invece riescono a diventare amiche e a scoprire il segreto che lega le loro famiglie.

Non dico più. Ma questo  romanzo sa di buona medicina, in questi tempi di muri e di sangue. 

lunedì 30 novembre 2015

Gli animali di Durrell, famiglia compresa

Questa è la storia dei cinque anni che ho trascorso con la mia famiglia nell'isola greca di Corfù. In origine doveva essere un resoconto blandamente nostalgico della storia naturale dell'isola ma ho commesso il grave errore di infilare la mia famiglia nel primo capitolo del libro. Non appena si sono trovati sulla pagina, non ne hanno più voluto sapere di levarsi di torno...

Ecco comincia così La mia famiglia e altri animali di Gerald Durrell, ormai un classico dell'Adelphi, tra i libri più amati tra i tanti che nell'ultimo mezzo secolo ci sono arrivati dall'Inghilterra. Non un capolavoro, però un libro che è un piacere garbato e un inno alla vita. Con dentro i colori del Mediterraneo e una casa che nelle scoperte e nelle birbonate di un ragazzino diventa uno zoo, bipedi umani compresi. Con una madre così inglese da rimanere sempre splendidamente imperturbabile - "Meno male che sei venuto, caro, questo pellicano è un po' difficile da trattare" - e  una incredibile galleria di abitanti di Corfù che scatenano le più singolari alchimie emotive nel rapporto con la famiglia Durrell.

E meno male che lo scrittore in famiglia - quello vero - era il serio, anzi, altezzoso Lawrence. Meno male che Gerald per tutta la vita non ha preteso altro che di essere uno zoologo, magari di tanto in tanto prestato alla scrittura.

Ci si diverte e ci si commuove, inseguendo questo ragazzino che scopre il mondo e che in questo mondo costruisce la passione e il lavoro di una vita. E non si può sorridere pensando all'uomo che si guarda indietro, ritrova quel ragazzino e così lo racconta, anzi si racconta. Con quell'umorismo che non è superficialità, è solo una particolare leggerezza di cui abbiamo bisogno come l'aria.


sabato 28 novembre 2015

Ma che c'entrano i girasoli con l'Olanda?

Magari è proprio questo che Vincent avrebbe voluto: essere ricordato per i girasoli, lui che per tutta la vita amò i fiori. Il suo cuore, che non traboccò mai di gioia, si allargava appena li vedeva in un vaso o per i campi.  Quando litigò e abbandonò la casa dei suoi genitori, pensò subito a procurarsi bulbi di narcisi, giacinti e crochi per la nuova abitazione a L'Aia, per i cui arredi certo poteva permettersi assai poco. E forse anche questo era un modo di coltivare la nostalgia e rimpiangere i giorni in cui si riempiva gli occhi delle margherite e delle violette della sua terra, la campagna del Brabante. 

I girasoli, dunque. Questo fiore americano che solo nel sedicesimo secolo arriva in Europa. All'inizio accolto nei giardini della migliore aristocrazia, ma solo per poco, perché questo è un fiore rustico, che sa provvedere a se stesso. Buono per ogni suolo e per i davanzali di chi non può permettersi giardinieri. 

Però che c'entrano i girasoli con l'Olanda? Perché i girasoli e non i tulipani?

Sono la mia Toscana, i girasoli. Sono gli invitati d'onore al gran ballo delle sfumature e dei profumi del Mediterraneo. E anche per Van Gogh, cosa possono essere se non l'esplosione dell'estate, i lampi di giallo nei campi di Arles? 

Però che bello, che nella sua vita a un certo punto ci sia stato tutto questo.     I fiori, l'arte, il dilagare dei colori. 

In tutto questo c'è un insegnamento che in qualche modo vorrei trasmettere a Ernesto. Magari più tardi, quando libereremo le nostre biciclette dalla rastrelliera e ripartiremo per l'Holland, sul finire di questa giornata. Chissà se troverò le risposte giuste. 

Non ora, con Ernesto fisso a studiare un quadro. Immobile, sembra trattenere il respiro: una posa troppo adulta, ancora una volta. 

Non voglio disturbarlo, ora. Spero solo che tutta questa bellezza  sia un passaporto per il suo futuro. 

Domanda, allora. Domanda del giorno e non solo di questo giorno: troverà anche lui i suoi girasoli?

(da Paolo Ciampi, L'Olanda è un fiore, Ediciclo)

venerdì 3 luglio 2015

Tuffarsi nella storia antica per capire cosa succede oggi

Nel mio cantuccio universitario per lungo tempo ho coltivato un orticello fatto di crociate, di pellegrinaggi, di leggende e di racconti passati dal cosiddetto Oriente al cosiddetto Occidente....

Poi si dice che studiare la storia di altri secoli non serve, che è roba buona solo per accademici fuori dal mondo, per chi ha ancora la fortuna di vivere tuffandosi tra i libri, senza curarsi troppo di ciò che succede.

Comincia con quelle due righe, tra la giustificazione e lo scatto di orgoglio, L'ipocrisia dell'Occidente di Franco Cardini (Laterza), storico che su ciò che ci sta succedendo sa offrire molte più chiavi di lettura di tanti noti analisti e opinionisti dei nostri media.

 La marea montante del fondamentalismo, le esecuzioni e le vittorie militari dell'Isis, il nuovo califfato che si sta spingendo verso il Mediterraneo.... ma che cosa sta davvero succedendo? Forse è il momento di cominciare a ragionare con la testa piuttosto con le viscere. Di porsi le domande giuste con il coraggio di risposte assai poco piacevoli. E tuffarsi nella storia - fosse anche quella degli antichi califfi Abbasidi o di Saladino - ci può aiutare, come no.

Poi si dovrà davvero capire cosa è davvero successo in Libia o cosa significa parlare oggi di califfato. Si dovrà capire chi è che finanzia e sostiene il nemico alle porte e perché la nostra civiltà ha partorito l'orrore di Guantanamo nascondendoselo agli occhi. Responsabilità, sottovalutazioni, ipocrisie.

 Serve la lezione della storia, come no.

sabato 18 aprile 2015

Nel Levante dei marinai e delle spezie

Questa è una storia che non mi appartiene, racconta la vita di un altro. Con parole sue, che ho soltanto risistemato quando mi sono sembrate poco chiare o prive di coerenza. Con le sue verità, che valgono quanto valgono tutte le verità.
Che mi abbia mentito qualche volta? Non lo so


Inizia così Gli scali del Levante di Amin Maalouf (Bompiani), come una storia raccontata quasi per caso, per le pretese della curiosità e dell'insistenza, come una storia che, si dice, non appartiene ad altri.

E invece no, non ci vuole molto per capire che questa non è solo la storia di chi confessa la sua storia, è storia di tutti noi, è storia che riflette ciò che siamo o che dovremmo essere e che forse potremmo anche essere.

Storia immaginaria dell'ultimo discendente della dinastia ottomana, storia di un secolo che è fin troppo facile definire breve, storia che si affaccia su un mare di cui sembra di catturare perfino l'odore delle spezie trasportate nei secoli dalle navi mercantili.

Il Mediterraneo, mare nostro fin dal suo nome, mare che sta in mezzo, mare che dovrebbe unire e invece spesso ha diviso. E poi il Medio Oriente, crogiuolo di popoli e di religioni, civiltà che si dividono e che però non possono fare a meno l'una nell'altra. E nel cammino di una tragedia che arriva fino a noi, le vicende di questo uomo, eroe per caso e allo stesso tempo scarto,  uomo ponte, uomo che non sa coltivare pregiudizi e risentimenti, lui islamico che sposa un'ebrea nei giorni dell'ira.

Sarà per questo che finirà per anni in una clinica per malati mentali. Sarà per questo che mi piace, quest'uomo da cui mi farei accompagnare al cospetto del mare, per ponderare insieme su ciò che è più duraturo delle nostre follie.

venerdì 6 marzo 2015

Jean-Claude Izzo, l'uomo che scriveva della miseria



Scrivo della miseria che è davanti ai nostri occhi e che facciamo finta di non vedere. Scrivo perché il lettore si ribelli, e non c'è altro modo che emozionarlo, che farlo innamorare con la verità

Che belle queste parole di Jean-Claude Izzo, scrittore che abbiamo perso troppo presto, autore di grandissimi noir ma prima di tutto cantore di un'umanità dolente. Uomo che sapeva guardare e che non nascondeva il suo sguardo. Gran solitario che aveva un maledetto bisogno degli altri. Allergico a ogni liturgia mondana che si trovò a gestire un successo inaspettato. Legato in modo indissolubile a un solo posto, Marsiglia, ma a un posto che da sempre ha nel suo Dna le lontananze e le mescolanze, porto che è come dire tutto il Mediterraneo, traffici e meticciato, scontri e incontri.

E' un mondo che ho imparato a conoscere anche attraverso i suoi libri, a partire dalla trilogia di Fabio Montale. Calli alle mani e bistrot, zuppe di pesce e casse da scaricare ai moli, mazzi di carte e parole arabe mescolate al francese.

Non sapevo che Jean-Claude Izzo era stato anche un bravo giornalista. Uno di quei giornalisti che non finiscono in televisione a ogni momento o che non sgomitano con il titolo più gridato. Un giornalista che lavorava con pazienza alle sue inchieste e non scriveva delle celebrità della Costa Azzurra, ma di vita in fabbrica e di quartieri dormitorio. Consumava scarpe, Jean-Claude Izzo, perché  un buon cronista fa così, prende e va a vedere. Un giornalista militante, si direbbe oggi, o meglio, si diceva allora.

Non so se ci vedete il nesso, ma per me tutto torna, gli articoli sul lavoro degli operai siderurgici e i personaggi come Lole la zingara. Verità e poesia. Poesia e verità.

lunedì 13 ottobre 2014

Con Silvano Lippi e quella gavetta in fondo al mare

Ogni volta che se ne va uno dei testimoni ho più paura del silenzio e allo stesso tempo avverto su di me un'altra responsabilità.

E' quello che ho provato l'altro giorno venendo a sapere della scomparsa di Silvano Lippi, due volte scampato agli orrori della guerra, prima il naufragio dell'Oria (la più terribile e dimenticata delle tragedie del Mediterraneo, con le sue 4.200 giovani vite inghiottite) e poi il campo di concentramento di Mauthausen.

Da sopravvissuto, per una fortuita serie di circostanze, Silvano Lippi è stata voce necessaria per tessere quei pochi fili della memoria che, per quanto mi riguarda, ho provato a tenere insieme in La gavetta in fondo al mare: storia che, per un'altra fortuita serie di circostanze, è entrata nella mia vita e non mi ha più abbandonato. Le parole di quel monologo mi risuonano ancora dentro, sono ancora rabbia, indignazione, commozione. Ma non sono ancora niente rispetto alla sofferenza di Silvano Lippi, della sua lunga vita segnata per sempre e alleviata solo dalla possibilità della testimonianza.

Una nave è attraccata alla banchina in attesa dell'imbarco di questi soldati. Il piroscafo comincia ad inghiottire il suo smisurato carico umano. È subito incomprensibile come il ventre della nave possa contenere un così grosso numero di persone. Quando il carico è al completo viene chiuso ermeticamente il boccaporto. 

In realtà anche la sua vita forse è finita lì, quel giorno sulla banchina, quando fu tra gli ultimi a salire sull'Oria già stracolma, tanto che per lui non si trovò posto. Così fu fatto discendere, al contrario delle altre migliaia di ragazzi, pigiati nelle stive come sardine. 

In questo modo si salvò. O in questo modo morì lo stesso, per diventare un altro Silvano Lippi chiamato ad altre cose.

Ora non c'è più. Quel silenzio lo sento e ne ho davvero paura. Meno male che ha fatto in tempo a passare il testimone ad altre persone. Meno male che ovunque in Italia si stanno finalmente ritrovando e riconoscendo i familiari delle vittime dell'Oria: chi li fermerà più, a questo punto?

giovedì 30 gennaio 2014

Il Porto delle storie e il viaggio di Ulisse

C'è chi sostiene che il lungo viaggio di Ulisse verso casa e prima ancora la guerra di Troia non c'entrino con i nostri mari caldi, con i profumi della macchia mediterranea, con i pomeriggi riarsi dal sole e i campi a olivo e vite. Piuttosto con le acque gelide del Baltico, con le terre abitate dagli antenati dei vichinghi, su a nord. Come succede alle storie che si raccontano intorno a un fuoco, quelle vicende si sarebbero incamminate verso il sud, per poi trovare un poeta, o più poeti, in grado di donare loro la bellezza del verso. E non mi importa che sia un'ipotesi fondata piuttosto che l'ennesima idea strampalata. Mi piace questa idea delle storie che si muovono assieme agli uomini, passando di bocca in bocca. 

L'ho presa alla larga, molto alla larga, ma era esattamente a questa storia di storie in viaggio che pensavo l'altra sera, mentre insieme ad Angela Terzani ed Alen Loreti partecipavo all'inaugurazione del Porto delle Storie. Una realtà che non so bene come definire - bar condiviso, spazio di approdo, luogo di scambio di parole e idee - ma che senz'altro è un'altra prova provata di un paese che dà il meglio di sé dove forse meno ci si aspetta. E il meglio si può trovare anche in un ex circolino dell'Arci, fino a ieri malmesso e abbandonato a se stesso, nascosto in un reticolo di strade alla periferia di Campi Bisenzio.

Certo, ci sarebbero molte altre cose da dire: i prodotti del commercio equo e solidale, il rapporto con Libera, il lavoro prezioso di una cooperativa che già in passato ho avuto modo di conoscere, le gambe che una nuova amministrazione comunale sta dando a diverse buone idee.... Però a me piace soprattutto questa idea delle storie, questo stesso nome che evoca le storie.... Il Porto delle Storie....

E mentre i miei pensieri vagavano tra il Baltico e il Mediterraneo, inseguendo parole di viaggi e su viaggi, ecco, mi è venuto in mente che è esattamente questo ciò di cui abbiamo bisogno: porti a cui approdare, porti in cui cercare riposo e mescolare le nostre parole, in cui lasciare il bagaglio dei nostri racconti e prepare altre partenze.  Bello, come no. Necessario, anche. 

Più tardi una persona amica mi ha risvegliato dalle mie elucubrazioni. Bisogna levare l'articolo, per capire il senso: così mi ha detto. E il sostantivo si è fatto anche verbo. Non solo un porto per ormeggiare le storie. Ma un luogo dove io porto le storie.

E la cosa mi è piaciuta ancora di più. E mi è venuta in mente che in questa storia di storie c'è un'altra storia, bella, che merita di essere raccontata. Quella di un porto, quella di uomini e donne che, come Ulisse, tornano e poi ripartono.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...