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mercoledì 1 luglio 2020

Tra boschi e acqua, sulle tracce del grande Paddy

Dicembre 1933, Patrick Leigh Fermor è un ragazzo di 18 anni, che ha i suoi problemi con gli studi e con le scelte per il futuro, ma intanto una scelta sa farla, perché prende e parte. Lascia l'Inghilterra e si incammina attraverso l'Europa, direzione Istanbul. Come un vagabondo, un pellegrino, un chierico vagante. Un giorno racconterà tutto in tre libri, uno più bello dell'altro, consegnando al mito quello stesso viaggio.

Ottanta anni più tardi Nick Hunt insegue le sue tracce. Anche lui è uno scrittore, anzi, è uno scrittore che ha già avuto modo di mettersi in mostra: splendido il suo Dove soffiano i venti selvaggi, viaggio all'inseguemto dei venti europei più inquieti e imperiosi, come la bora e il mistral. 

Anche questo viaggio, a modo suo, segue un vento, perché è come il vento il passaggio di un uomo: impalbabile, inafferrabile. Per coglierne qualcosa forse c'è solo da aggiungere passo a passo e confidare nelle gambe.

Ecco, il viaggio pare lo stesso, per quanto riguarda almeno la geografia fisica. Duecentoventuno giorni, quattromila chilometri, due grandi fiumi come il Reno e il Danubio, tre catene montuose per raggiungere quella che una volta era Costantinopoli. 

Ma può essere lo stesso viaggio se l'Europa è cambiata. E in che modo è cambiata, in che misura? Già Fermor aveva camminato su un mondo sull'orlo del precipizio, con Hitler da poco al potere. Troppo è successo negli anni dopo, non solo la guerra, i popoli e i confini spazzati via, lo sdradicamento di culture millenarie. 

E ora? Camminando tra i boschi e l'acqua (Neri Pozza) dimostra che si può camminare nel tempo e che nello spazio che attraversiamo possono convivere diversi tempi. Più si muove verso est, e verso sud, più Nick Hunt ritrova nel presente le tracce del mondo che Fermor ha raccontato.

Quanto a Fermor, sì, è vento: ma in tutta Europa, dall'inizio alla fine del suo viaggio, l'uomo che ne insegue le orme trova gente disposta a ospitarlo. Sconosciuti pescati in Rete, uniti solo dall'idea di quel viaggio mito di un remoto 1933. Anche il vento, in fondo, ogni tanto si ferma e si lascia accogliere.







lunedì 11 maggio 2020

Tutta la storia del mondo tra il bagno e la cucina

Così ho concepito l'idea di fare un viaggio tra le pareti domestiche, vagando di stanza in stanza ed esaminando il ruolo che ciascuno di esse ha svolto nell'evoluzione della vita privata. Quella del bagno sarebbe stata una storia dell'igiene, quella della cucina una storia dell'arte culinaria, quella della camera da letto una storia del sesso, della morte e del sonno, e così via. Avrei scritto una storia del mondo senza uscire di casa.


Così lo stesso Bill Bryson introduce Breve storia della vita privata (Guanda), volume robusto ma che si lascia divorare come un pranzo di Natale, allo stesso modo del suo precedente Breve storia di (quasi) tutto. Perché i titoli possono fuorviare - così seri, così impegnativi e direi anche così commisurati alle dimensioni del volume sotto gli occhi - ma Bryson no, Bryson lo conosco da troppo tempo e so cosa aspettarmi da lui. 

Bryson è un affabulatore, uno scrittore che sa fare appello alla curiosità e all'intelligenza del lettore, anzi, Bryson è prima di tutto un viaggiatore e questo non viene meno anche se affronta temi grandi come montagne. O se decide di rimanersene a casa, con uno spirito che riecheggia un libro di fine Settecento, Viaggio intorno alla mia camera di Xavier De Maistre, ottimamente riproposto da Tarka in questo mesi.

Anzi, proprio quando ciò che aspetta la sua scrittura è una montagna viene fuori la tempra di camminatore. Passi brevi e robusti, nessuna fretta, capacità di osservazione, possibilità di fermarsi sempre e comunque, di fronte a un largo panorama come a una cosa da nulla che sporge da dietro un albero o un masso.

In questo libro Bryson deve esserti sentito particolarmente a suo agio. Sarà che gira il mondo, saltando per di più da un'epoca all'altra, eppure rimanendo sempre a casa. La stessa casa in cui si è trovato ad abitare, un'ex canonica del Norfolk, in Inghilterra.

Una bella casa, indubbiamente. Ma che sorpresa scoprire che attraverso di essa si può sfogliare l'intero mondo e perfino comprenderlo un po' di più.

lunedì 7 gennaio 2019

Nel giardino segreto, in fondo al cuore

Ci sono molte storie da raccontare. Non è mai la stessa. Ogni giorno il tempo soffia fuori e dentro di essa e ne altera la superficie. A volte questa storia si riduce a una singola verità essenziale, ciò di cui sarò sempre convinta. I semi dai quali è nato il giardino.

Londra, 1941. I bombardamenti tedeschi sono all'ordine del giorno, la popolazione è allo stremo. Gwen Davis, botanica della Royal Horticultural Society, decide di partire come volontaria per rimettere a coltivazione campi che serviranno a sfamare l'Inghilterra. Questa almeno la scelta consapevole. Oltre l'impegno nello sforzo bellico, è anche una donna in fuga da sentimenti di colpa e  soprattutto da desideri che non hanno avuto modo di concretizzarsi. 

Nella vecchia tenuta che a breve produrrà patate molte sono le storie che si incrociano: ci sono le ragazze della Land Army che dovranno lavorare nei campi, ci sono i soldati canadesi in attesa di partire per il fronte, c'è soprattutto Jane, il cui fidanzato è stato dato per disperso nei cieli del Mediterraneo e che lei prova a trattenere in vita con il pensiero costante e la più tenace delle speranze.

E poi c'è un giardino perduto, oltre gli orti e i frutteti abbandonati, un giardino che da tempo non è più curato. Le piante che nel frattempo sono cresciute lo sottraggono alla vista. Ma all'occhio di Gwen ciò che c'era cela un mistero che attende di essere svelato. Una storia che riporta ad altri uomini e donne - questa volta della Grande Guerra - una storia che gli stessi fiori e la loro disposizione sul terreno sono in grado di raccontare.

E anche questa è una storia di desideri. Sono come i fiori, i desideri: i loro semi custoditi a lungo sotto terra, in attesa di crescere e sbocciare.

Un messaggio d'amore, forse. Un messaggio in cui forse anche Gwen potrà riconoscersi: in quell'estate di guerra in cui il suo stesso cuore è un giardino nascosto ancora capace di fiorire.

E' un libro incantevole, Il giardino perduto della scrittrice canadese Helen Humphreys (Playground edizioni), un libro di atmosfere, emozioni, dettagli che vedrei perfetto per un film di un regista alla James Ivory. Un libro che può aiutare tutti a scoprire il giardino perduto nel proprio cuore e in esso inoltrarsi.
 
 

lunedì 13 agosto 2018

Una casa a Damasco, luogo dell'anima malgrado tutto

Come aveva potuto un sogno trascinarmi nel mezzo di una guerra civile?

Diana Darke è un'esperta di cultura islamica a cui un giorno una casa editrice commissiona una guida sulla Siria. Evidentemente appartiene anche a quella categoria di inglesi che dopo aver completato i loro studi, per esempio a Oxford o a Cambridge, si sentono stretti nel loro paese e cedono al richiamo dell'altrove: e la cosa davvero interessante sarebbe capire perché a un certo punto diventi necessario un luogo piuttosto che un altro nel mondo intero.

Che cos'è che fa scegliere Diana Darke la Siria? Forse è quella strana sensazione di sentirsi davvero a casa che ha notato dal primo momento. Forse è la gentilezza  della gente, malgrado una tremenda dittatura. O forse il fascino dei magnifici palazzi ottomani, dimenticati dal tempo.

Fatto sta che che un giorno si lascia tentare da una porta socchiusa, varca la soglia, si lascia sorprendere dalla quiete di un cortile ornato di aranci, viti, buganvillea, indugia ad ascoltare l'acqua di una fontana di marmo: bahra, ovvero in arabo piccolo mare. E in quel momento non c'è solo una curiosità che si appaga, c'è anche un destino che chiama. A Damasco si sente a casa, ma farà in modo anche di possedere una casa.

Non sarà facile, tutto è così diverso e complicato rispetto all'Inghilterra. Però sarà la sua casa, la casa che sarà anche una dimensione interiore, un porto dell'anima. Un luogo di pace, proprio mentre la Siria sta precipitando nel terribile tunnel della guerra civile.

Anche questo è La mia casa a Damasco, pubblicato da Neri Pozza: un libro che raccontando la storia di una casa racconta un intero paese, meglio di un reportage giornalistico.

Non può essere un'oasi, una casa di Damasco, non può lasciare fuori i rumori delle bombe, le grida dei corpi straziati. E vai a sapere che ne è stato, dopo che questo libro è stato pubblicato. Ma che sia o no in piedi attraverso queste pagine, mi sembra, rimane comunque come una testimonianza di civiltà, una possibilità di futuro.

martedì 31 luglio 2018

L'impresa del professore e del pazzo

Ci vogliono libri così, che raccontano storie secondarie, apparentemente buone solo per una rivista molto specialistica o per una nota da archivio storico, solo che dentro di esse batte forte la vita. Certo poi ci vuole qualità di scrittura e con essa la capacità di non girare a vuoto, grazie alla spinta della curiosità, al desiderio di scoprire e di raccontare, ma ecco, contro ogni previsione può succedere: il libro su cui non avresti scommesso ti appassiona come un grande romanzo. 

Questo è quanto mi è capitato con Il professore e il pazzo di Simon Winchester (Adelphi), autore che peraltro mi aveva già accompagnato con grande piacere per i misteri della Cina o per le distese dell'Atlantico. Questa volta l'impresa sembrava meno agevole e più discutibile, benché in effetti porti dentro quella che un'impresa è stata davvero: la redazione del mitico Oxford English Dictionary, monumento inarrivabile della lingua inglese, di cui ambisce a racchiudere l'intero universo di parole. 

Impresa, certo, a cui raramente mi è stato dato di pensare. Quale lavoro enorme c'è dietro un dizionario o un'enciclopedia? Quanta frustrazione riserva l'accumulo di una conoscenza che non finisce mai? 

E tuttavia dentro questa impresa si nasconde anche una storia meravigliosa. Buona per un grande romanzo, appunto. La storia della relazione tra James Murray, curatore del dizionario, e il suo principale collaboratore. Detta così non suona particolarmente accattivante, fatto sta che questo collaboratore è solo una firma - W.C. Minor - con un passato ingombrante di cui Murray non ha il minimo sospetto: è un americano impazzito durante la Guerra di Secessione, a Londra ha ammazzato un passante, ora è rinchiuso in un manicomio criminale ed è da lì che invia migliaia e migliaia di voci alla redazione del dizionario. 

Solo dopo molto tempo, quando deciderà di incontrare il suo prezioso collaboratore, Murray scoprirà la verità: e invece di ritrarsi scandalizzato si aprirà a un'amicizia contro tutti i pronostici, nell'Inghilterra dei pregiudizi vittoriani. 

Murray, certo, anche lui un tipo particolare: scozzese di origine modeste, autodidatta, sin da bambino dominato da una fame di conoscenza come una malattia cronica. Però non fino al punto di smarrire se stesso.

Che storia, che è questa, di umanità che si riconosce. E di imprese che vanno avanti solo grazie a chi non ti aspetti, uomini ai margini dei luoghi comuni. 

lunedì 15 gennaio 2018

Fra i boschi e l'acqua, il tempo dell'incanto

Un libro e molti chilometri dopo, è ancora lui, Patrick Leigh Fermor, il ragazzo nemmeno ventenne che ha abbandonato l'Inghilterra e i suoi disastri scolastici per raggiungere a piedi quella che ancora chiama Costantinopoli. Lo avevo lasciato con le pagine di Tempo di regali, ecco ora Fra i boschi e l'acqua: seconda parte di una trilogia, proposta da Adelphi, che è uno dei vertici della letteratura di viaggio del Novecento. E anche questa volta Fermor non tradisce le aspettative, tutt'altro.

Casomai cambia il passo e con il passo il sentimento predominante.  Prima c'era l'urgenza del distacco, il tumulto della partenza, la fame di distanza, i chilometri da macinare, quanti più possibili. Ora tutto si rallenta, per incanto non per pigrizia. Più che la meta conta la deviazione. Più che la strada percorsa la pausa a cui affidarsi. Come un grande fiume che si è lasciato dietro i tumulti dei monti, che procede lento, maestoso, gonfio d'acqua. Come il Danubio, che senz'altro è uno dei protagonisti di questo viaggio.

Altri mille chilometri. Davanti si distende la pianura ungherese: l'immensa puszta che è premessa della steppa asiatica, i boschi della Transilvania, le Porte di Ferro dove Carpazi e Balcani sembrano darsi appuntamento.

Avanti, avanti ancora. Ma cedendo alle tentazioni, che volta volta sono la notte sotto le stelle, l'indolenza richiamata da un prato, una cena tra aristocratici in un maniero o un bevuta con gli zingari intorno a un fuoco.

Incredibile, è il 1934: e l'irrequietezza sembra appartenere ad altri anni, più vicini a noi. O forse è quella di sempre, quella dei giovani chierici vaganti che da sempre si mettono in movimento, per cercare se stessi prima che un altro mondo, o forse per scappare prima ancora che per cercare.

Incredibile, è il 1934: Hitler è da poco al potere - e certe avvisaglie Fermor le coglie, come no - presto questa Europa non ci sarà più. Quel remoto mondo rurale fu spazzato via nel decennio successivo - ricorderà - e adesso mi rendo conto della fortuna che ho avuto a poterne cogliere squarci prolungati, addirittura a esserne stato un poco partecipe. Discorso che ci offre profondità storica, non tutto è sparito solo dopo, ai tempi delle autostrade, del web 2.0, dei voli low cost.

Ma intanto con la sua andatura senza fretta, con la sua splendida  capacità di divagazione, c'è ancora tempo: fra i boschi e l'acqua.



domenica 7 gennaio 2018

Alan Bennett e la sua famiglia come le altre

Che smacco, passare il confine della ragione e scoprirsi tanto banali nella follia quanto nella normalità.

E dunque, la prima cosa che viene in mente a chi di Alan Bennett ha già letto e amato altre cose - per esempio Nudi e crudiSignore e signori, oppure l'incantevole La sovrana lettrice - è  questo: non è possibile che Una vita come le altre (Adelphi) sia uscita dalla stessa penna, non è possibile che ci siano dietro la stessa vita e la stessa intenzione di scrittura.

Pensare che è inconfondibile lo stile raffinato e garbato, impastato di tante buone letture e del distacco dell'ironia. Solo che per me Bennett era scrittore tipicamente inglese anche per la capacità di sottrarre se stesso al racconto. Come se parlare di se stessi, confessare le proprie emozioni, mettersi insomma a nudo, fosse non solo imbarazzante, ma addirittura disdicevole.

Magari questo libro è stata una scelta sofferta. Oppure uno di quegli stacchi improvvisi che l'età e i fatti della vita a volte impongono. In ogni caso qui c'è tutto ciò che Bennett non ha mai raccontato: la storia della sua famiglia, che poi non è una storia straordinaria, è una storia "come le altre" appunto, eppure unica, irrepetibile. Storia dolce e dolorosa, storia di una famiglia normale in un'Inghilterra normale, il lavoro fatto con scrupolo, i sogni su misura, le aspettative mai troppo azzardate.

La storia di un padre e di una madre, di una coppia che non ha mai alzato la testa e nemmeno la voce, timida e discreta,  defilata anzi confinata in un mondo chiuso di gesti ripetuti, abitudini, diversivi nessuno.Forse oggi si direbbe che non ha mai vissuto, tanto poco si è concessa.

("Io e tuo padre inizieremo a far conoscenze" mi scrisse mamma. " Pensa: abbiamo lo sherry, e anche delle noccioline salate")

E poi la malattia mentale della madre, una lunga difficile storia che cambia tutto, o forse no, non una malattia che taglia e separa, piuttosto un fardello con cui convivere, nell'imprevedibile alternarsi di momenti sereni e di ricoveri.
  
(e ora mi si accende una lampadina pensando al Bennett autore, tra l'altro, di La pazzia di Re Giorgio: scrivendo di altro quasi sempre si scrive di se stessi)

Eppure non un libro sulla malattia e sulle penose trafile che esige dai famigliari del malato. Bennett non denuncia, non chiede compassione.

Perché nella malattia questa famiglia "come le altre" rimane se stessa, con le sue piccole grandi cose, i gesti di sempre, gli affetti tenaci ancorché tenuti a bada dalle esigenze della rispettabilità.

Come le altre, ma rimanendo se stessi, nonostante tutto. Un libro come un canto di gratitudine a quanto vale davvero la pena.

martedì 19 settembre 2017

Camminando con i romantici di Inghilterra

Poi dicono che è una moda e come tale passeggera. Beh, nel caso lo fosse sarebbe finalmente una moda che mi piace e mi preoccuperei solo se fosse davvero passeggera.

Parlo dei cammini: e in effetti è qualche tempo che giornali, libri, blog e quant'altro si sono gettati con soddisfazione sull'argomento. In tanti ci provano, anche persone che non direste mai. E più in genere sono diminuiti sorrisetti, occhiate di compatimento, manifestazioni di stupore nei confronti di chi si mette in cammino: diciamo che tutto sommato siamo sulla cresta dell'onda.

Moda passeggera? Beh, meglio rassicurarsi con un libro come La via del sentiero, uscito qualche tempo fa per le Edizioni dei Cammini, a cura di Wu Ming 2. Un'antologia per camminatori, ma anche un'antologia di camminatori, anzi, di scrittori camminatori.

E' la riproposta di un'opera uscita molto tempo fa in Inghilterra e che mette insieme diversi autori inglesi: non dei nostri tempi, ma dell'Ottocento. Ovvero del secolo in cui, almeno da quelle parti, camminare divenne attività che non era solo del mendicante, del pastore o tutt'al più del pellegrino. Quando anche i poeti e i pittori cominciarono a mettersi per strada.

Vi troverete scritti illuiminanti e grandi autori alle prese con le scoperte che il cammino ti concede. Forse con qualche atteggiamento snob, allo stesso modo degli aristocratici che per primi scoprirono il rugby e non si tirarono indietro di fronte al fango.

Tante scoperte sono anche per il lettore, tra queste pagine. Per esempio Robert Louis Stevenson, che prima di incantarci con l'Isola del tesoro e gli altri grandissimi romanzi compie un viaggio a  piedi in compagnia di un asino, attraverso le Cévennes, in Francia: ed è il primo a descriverci un sacco a pelo. Oppure Thomas de Quincey, che tutti conoscono per le sue Confessioni da oppiomame, attività che non pare molto compatibile con quella del camminatore: e che pure lo fu, grandissimo. Fu lui, tra l'altro, a lasciarci la pirma descrizione di una tenda da escursionista.

Quante cose in queste pagine: l'ottimismo di uomini che si mettono in cammino, il romanticismo che si alimenterà dei monti e dei laghi di Inghilterra, una sorprendente sensazione di libertà che è già premessa dell'on the road dei poeti beat.... e certo anche un discreto individualismo, l'idea della fuga che - come nota Wu Ming 2 nella sua introduzione - per ora ha la meglio sull'idea di responsabilità per il territorio che si attraversa.... ma appunto questto è solo l'inizio e se non è moda ci sarà tempo per aggiustare tutto...

lunedì 22 maggio 2017

Il pastore che racconta il Lake District al posto dei poeti

Dici Lake District e pensi a uno dei posti più incantevoli dell'Inghilterra e dell'intera Europa, un paradiso per i camminatori e in particolare per quanti amano leggere un territorio attraverso la cultura che esso ha ispirato. Lake District: i laghi tra cui trovarono pace e ispirazione William Worsdsworth e tanti altri poeti, gli scenari naturali rappresentati da tanti pittori romantici che, tra le altre coxe, ci hanno regalato anche l'aggettivo "pittoresco".

Del Lake District diceva appunto Wordsworth: Al fondo di queste Vallate si trovava una perfetta Repubblica di Pastori e di Agricoltori. Poche parole per seminare l'invidia di un posto idilliaco, buono per ogni tentazione bucolica. Ma proprio questo è il punto, che il Lake District è stato sempre raccontato dai poeti, dai pittori, da chi comunque è arrivato da Londra o da altre città e che il Lake District l'ha scoperto e quindi scelto. Non da chi da sempre lo abita, tosando pecore invece di maneggiare penne e pennelli.

Per questo è sorprendente - oltre che incredibilmente affascinante - un libro quale La vita del pastore (Mondadori) di James Rebanks, che pastore lo è sempre stato e lo è ancora, nonostante le parabole della vita lo abbbiamo portato a laurearsi a Oxford.

Pensare che Rebanks, discendente di una famiglia che alleva pecore da seicento anni, a scuola non voleva nemmeno andare: in aula si raccontava un mondo che non era il suo, la sua storia, il suo mestiere, i suoi monti pareva non avessero diritto di cittadinanza tra quei banchi. Poi è andata come è andata e lui ha saputo andare avanti nella vita senza tagliare le radici.

Eccolo allora il suo mondo, che ancora resiste malgrado tutto, tra pascoli, rocce e pub dove la trattativa per un buon animale si conclude con una stretta di mano e una pinta di birra. Un mondo dove i terreni comuni e le regole comunitarie che ne disciplinano l'uso non sono stati spazzati via e dove i nomi dei padri sono interscambiabili con quelli dei figli, tanto quello che conta è il nome della fattoria. Dove  anche ai tempi del web 2.0 il lavoro è segnato dal sorgere e dal tramontare del sole.

Il Lake District: non solo un luogo letterario o la destinazione di uno splendido viaggio. Piuttosto un luogo che è il risultato del lavoro di secoli, la sommatoria di infiniti gesti, azioni, scelte. La vera storia della nostra terra dovrebbe essere la storia dei suoi perfetti sconosciuti. Vero, verissimo.

Come è vero che i libri costruiscono l'immaginario di un luogo. Per questo è importante che i libri siano scritti. E che siano scritti anche dalle persone che a quel luogo appartengono.

giovedì 8 settembre 2016

Inghilterra, la piccola grande isola di Bill

Mentre me ne stavo lì, mi venne in mente che una delle cose della Gran Bretagna che mi piace veramente, ma proprio sul serio, è questa: è inconoscibile.

E dunque, eccomi di nuovo a godermi un libro di Bill Bryson, nemmeno tre mesi dopo aver viaggiato in Australia sulle sue pagine: di questo passo rischia di diventare una sorta di dipendenza, ma tanto non è come per le bibite gassate o per i gelati, non fa male e se ingrassa è solo per accumulo di intelligenza e buon umore. Mi piacerebbe scrivere libri di viaggio alla maniera di Bill: e lo dico così, con tutta l'umiltà.

Ho appena finito di leggere anche Piccola grande isola. Come il postino che suona sempre due volte, Bill torna a raccontare nel paese a cui 20 anni fa dedicò Notizie da un'isoletta. Nel frattempo il giovine di improbabili speranze che un giorno sbarcò in Inghilterra è diventato autore affermato, ha messo su casa, famiglia e presumibilmente anche diversi chili di troppo. Ma nel frattempo, è evidente, qualcosa è successo anche a questo paese, che pure tra tutti è il più incredibilmente tenace  nel voler rimanere uguale a se stesso.

Bill prova a raccontarcelo in Piccola grande isola (Guanda), seguendo il filo di un viaggio più strampalato degli altri, perché l'idea è questa: prendere una mappa della Gran Bretagna, un righello e una matita; tracciare la più lunga linea retta tra due località; e quindi mettersi in viaggio, seguendo quella linea da sud a nord.

La Bryson Line congiunge Bognor Regis, cittadina sulla manica che ha visto tempi migliori, a Capa Wrath, in Scozia, faro sbattuto dalle onde atlantiche. Ma in mezzo c'è tutto il resto, compreso un numero esorbitante di divagazioni. E con esse storie, incontri, riflessioni, aforismi fulminanti. 

Il tutto sorretto da alcune convinzioni: che quest'isola di nebbia e pioggia che a volte sembra volerci punire con la monotonia sia in realtà il posto con maggiore concentrazione al mondo di cose da vedere (in realtà anche l'Italia non scherzerebbe, ma volete mettere con l'amore britannico anche per il più modesto dei dettagli?); che in fondo sia un paese fondamentalmente saggio (il voto sulla Brexit qualche dubbio me lo ha instillato); e che tuttora registri una sorprendente qualità della vita o comunque una capacità di contentarsi di quello che ha: unico popolo al mondo davvero capace di illuminarsi di fronte a una bevanda calda e a un semplice biscottino. 

Magari sarà anche per il clima, che insegna pazienza e stoicismo. Che dire, meglio lasciare l'ultima parola al vecchio Bill.

  Un britannico che si trovi in un campo minato, e al quale sia saltata in aria una gamba, ma che possa comunque dire “Te l'avevo detta che sarebbe andata a finire così”, è veramente un uomo felice. E questo, in un popolo, mi piace moltissimo. 

lunedì 29 agosto 2016

Se un libro mi aiuta a credere a Re Artù e ai suoi cavalieri

La lettura di questo libro vi farà trascorrere piacevolmente il tempo, ma regolatevi a vostro talento quanto al prestarvi fede e al credere tutto ciò che esso contiene.

Così scriveva nel 1485 William Caxton, primo tipografo di Inghilterra, all'atto di dare le stampe La storia di Re Artù e dei suoi cavalieri, opera di ser Malory che avrebbe definitivamente consacrato il nome e il mito del sovrano dei britanni, di cui tanto si era già parlato nei versi dei bardi, nelle cronache dei monaci e nelle storie dei trovatori francesi.  

Diceva già tutto, William Caxton. Ovvero: vai a sapere se erano vere le imprese di Re Artù, ma in fondo si trattava di cosa meno rilevante rispetto alla possibilità di trascorrere piacevolmente il tempo sprofondandosi nella lettura; ciascuno poi era libero di crederci o non crederci, però in fondo, a pensarci bene, perché non crederci? Le parole non hanno forse il potere di creare mondi?

Quanti studiosi nei secoli si sono affannati a cercare la verità dietro o sotto il mito, provando a individuare quel personaggio storico, quel luogo, quella circostanza. E di tanto in tanto ecco la scoperta, la rivelazione, l'inevitabile bufala.

Io questo libro me lo sono portato in Galles, uno dei luoghi in cui la storia - incerta - più si intreccia con il mito - potente - del sovrano giusto e coraggioso e dei suoi cavalieri. Mi sono lasciato accompagnare dai saggi consigli di Merlino, dai sortilegi di Fata Morgana, dalle giostre dei cavalieri e dall'amore infelice di Lancillotto e Ginevra. E guardandomi intorno, respirando l'aria del Galles, ho sentito che quelli erano i posti, che quelle storie in qualche modo avevano lasciato un segno su quei boschi, quei laghi, quelle scogliere a picco sul mare.

Vero, falso? Che importa. L'immaginazione di Ser Malory - avventuriero che scrisse gran parte della sua opera in galera e non si sa se sia scampato al patibolo - è la magia della letteratura: creare e ricreare il mondo. Fare in modo che tutti noi, almeno per qualche tempo, ci si possa credere.

lunedì 22 agosto 2016

Tra fabbrica e pub, così era la vita in Inghilterra

Perché era sabato sera, il momento più felice e festoso della settimana, uno dei cinquantadue giorni di vacanza sulla lenta ruota panoramica dell'anno, un violento preambolo a una domenica di prostrazione.

Per Arthur, giovane operaio inglese, la febbre del sabato sera è un copione che si ripete: il giro dei pub, le sbronze, le risse, il sesso con donne sposate. Tutto quello che non c'è nel resto della settimana, perchè il resto è solo la routine del lavoro nella sua fabbrica di Nottingham.

L'adrenalina di questi fine settimana, il loro concentrato di pulsioni e trasgressioni, non cambieranno il mondo, anzi, non lasceranno niente se non un cerchio alla testa la domenica mattina. Eppure è tutto ciò che Arthur ha a disposizione per gridare il suo rifiuto contro una vita che per lui è già tutta scritta, faticare alla catena di montaggio e mettere su famiglia.

Prima di avventurarvi in queste pagine, osservate la data. Saturday Night e Sunday Morning  (ripubblicato in Italia da Minimun Fax) è del 1958: un'altra Inghilterra, un altro mondo, quello delle grandi fabbriche e del benessere che non esclude più gli operai. Anche loro possono cominciare a sperare in una casa di proprietà, nella televisione, nella settimana al mare.

Arthur, in fondo, beneficia di ciò che altri hanno conquistato sul terreno dei diritti. Ha soldi in tasca - poco importa se se li sputtana in birre - e un giorno avrà la sua pensione. Eppure, in una vita in cui mancano le speranze, in cui è già assente ogni soggetto collettivo (per dirne uno, il sindacato), Arthur è solo, Arthur non ha futuro.

Alan Sillitoe - lo stesso scrittore di La solitudine del maratoneta, uomo che viene dall'Inghilterra delle industrie e del lavoro proletario - ci ha regalato un romanzo di esordio folgorante, capace di rappresentare tutta un'epoca, ma anche con un personaggio destinato a rimanere.

Poco importa che Arthur non sia assolutamente simpatico. Che molte volte vorresti fermarlo, prenderlo per le spalle, portarlo via dal disastro incombente. Qui c'è tutta una generazione che non è stata raccontata. Con una frattura che la separa dai padri e che non è quella del giovane Holden e tantomeno quella del Sessantotto.

 Leggendolo ho pensato ad Arthur e poi ai ragazzi dei nostri anni con ancora meno futuro - dove è finito il lavoro? - e ancora meno capaci di intravedere una possibilità di protesta. Forse proprio questo libro del 1958 ci può aiutare a capire qualcosa in più. E magari a scorgere una qualche speranza all'orizzonte. Non fosse che per i lampi di tenerezza, improvvisi e disorientanti, che anche uno come Arthur sa manifestare.

lunedì 8 agosto 2016

Lo scrittore in cammino nell'Inghilterra che non ti aspetti

Nell'agosto del 1992, quando la canicola cominciò ad allentarsi, intrapresi un viaggio a piedi attraverso la contea di Suffolk in East Anglia con la speranza di sfuggire al vuoto che si stava diffondendo in me dopo la conclusione di un lavoro piuttosto impegnativo. Una speranza che sino a un certo punto si è anche realizzata, perché di rado mi sono sentito così libero come in quel periodo, durante le ore e i giorni passati a vagabondare.

Comincia così Gli anelli di Saturno (Adelphi), libro scritto in cammino attraverso il Suffolk - un posto che in effetti non verrebbe mai in mente di scegliere per un viaggio, almeno "prima" di questo libro - ma in realtà attraverso tutto il tempo e lo spazio che può abbracciare un viaggio, un viaggio che sa farsi spessore, profondità, squarcio, lampo di luce.

Chilometri lenti, chilometri a piedi, chilometri in paesaggi dai contorni sfumati dalla bruma, chilometri con i piedi gonfi e l'umidità che entra nella ossa. Altri avrebbero la sensazione di non arrivare mai da nessuna parte, ma W. G. Sebald, uno di cui chissà perché non viene di scrivere il nome per intero, fa venire il capogiro da quanto riesce ad arrivare lontano.

E dunque qui c'è perfino l'Africa nera di Joseph Conrad, c'è perfino la Cina al tramonto del Celeste Impero.

E tutto regge, tutto si tiene, tutto rimanda a tutto, nel passo leggero che si fa parola sommessa, ipnotica, coinvolgente, parola che sostiene a sua volta il cammino.

E l'ultima cosa che viene in mente, o forse la prima, non è che Sebald ci ha lasciato troppo presto, privandoci di vai a sapere quali altri libri. Ma che uno scrittore in cammino come lui non poteva che morire così, spazzato via in un incidente automobilistico, estrema beffa di una storia che  lui avrebbe saputo raccontare perfino troppo bene.

sabato 6 febbraio 2016

Tornando a casa in bicicletta, dalla Siberia

Prendete per esempio una cosa così: pedalare tre anni in bicicletta solo per tornare a casa, dall'ultimo lembo della Siberia alla placida Inghilterra, passando però anche per il Giappone, la Nuova Guinea, l'Australia, il Tibet, l'Afghanistan, l'Iran...

E' quanto ha fatto Rob Lilwall, insegnante di geografia che a un certo punto la geografia ha smesso di insegnarla per andarla a sperimentare nelle distanze del mondo. Ed è quanto poi, dopo, ci ha raccontato in In bici dalla Sibera a casa, pubblicato da Ediciclo. 

Che dire: è un viaggio pazzesco, un ritorno lungo 56 mila chilometri, il che vuol dire assai più di quanto misuri l'equatore; è il disegno, se disegno c'è, di un viaggiatore che schiva la linea retta e predilige il vagabondaggio. E' l'Odissea su due ruote dell'uomo che si perde, non si arrende, trova nuove vie, allunga il suo sguardo.

Non sarà un grandissimo narratore, Rob Lilwall, ma il libro è tutto in questa straordinaria avventura, che comincia nell'autunno siberiano, non lontano dai luoghi dello sterminio stalinista, con le temperature che dopo qualche giorno precipitano fino a meno quaranta, pensate.

Più volte il nostro mette a repentaglio la sua vita o avverte un pericolo che può essere letale, per esempio attraversando quelle lande della Nuova Guinea dove la vita di un uomo vale zero. Eppure, eppure, le pagine più belle del libro sono quelle su uno stupore che si rinnova quasi ogni giorno. I sorrisi della gente nell'Afghanistan dei talebani, l'ospitalità che non viene mai meno ovunque, anche in Iran, le oltre 200 persone che lo accolgono sotto il loro tetto - Robe ne tiene il conto -, il cibo o una bevanda o un saluto condivisi per strada.

Solo all'ultimo, quando ormai avverte l'aria di casa, gli viene rifiutata l'acqua. In tre anni anni è la prima volta che gli capita. E accade in un bar in Francia.

Un libro che è un giro sul mappamondo, ma anche un libro contro i pregiudizi, contro i luoghi comuni. Sarà un caso che dopo il suo ritorno l'ex insegnante di geografia si è messo a studiare teologia ed è andato a vivere a Hong Kong?

mercoledì 20 gennaio 2016

Con Puck il folletto nell'Inghilterra che fu

Lasciate da parte Il libro della giungla, le lontananze esotiche, i tempi dell'impero inglese, té in veranda e battute di caccia alla tigre, partite di cricket sotto il sole tropicale e divinità dai nomi impronunciabili. Ruyard Kipling non è solo l'India, le colonie, un mondo inghiottito dalla storia.

Prendete per esempio Puck il folletto, un libro per tutte le età. Un libro con cui Kipling ritorna a casa, sempre che l'Inghilterra possa davvero essere la sua casa, e non piuttosto il più meraviglioso di tutti i paesi stranieri dove sia mai stato, come diceva.

Racconta Ottavio Fatica nella nota all'edizione Adelphi che per Kipling la macchina era una sorta di macchina del tempo. Sulla quattro ruote prendeva e partiva come gli altri, solo che riusciva a vedere ciò che gli altri non riescono a vedere, perché bene che vada è solo roba da ragazzi.


Andava scorrazzando per l'isola che non c'è, per quell'Inghilterra piena per lui di meraviglie e di misteri stupefacenti. Un giorno in macchina nella campagna inglese era un giorno in un museo fatato dove tutti i pezzi sono vividi e reali e, al tempo stesso, deliziosamente mescolati con i libri

Ed ecco dunque il Colle Fatato che non è solo un luogo di una mappa fantastica, è una torre di avvistamento per scrutare la storia e le storie, per far emergere dal buio dei tempi i personaggi, le leggende, ciò a cui è bello restituire la parola. Ecco Puck, fauno di shakespeariana memoria, che racconta ai bambini di cavalieri normanni, di pirati vichinghi e di centurioni romani del Vallo di Adriano.

Raccontando ai bambini, ma restituendo a tutti gli occhi con cui i bambini sanno ancora alimentare la meraviglia.

sabato 2 gennaio 2016

L'Inghilterra coast to coast in compagnia di Adriano

Non so quanti conoscono il Vallo di Adriano. Quanti ne hanno già sentito parlare e quanti l'hanno preso in considerazione come una possibile meta di viaggio. 

Credo pochi, ma credo anche che saranno sempre di più in futuro. Merito non della nostra scuola, certo, ma piuttosto degli inglesi. Che ne hanno fatto uno dei grandi itinerari europei per chi intende muoversi a piedi o in bicicletta.
 

Dal Mare del Nord al Mare di Irlanda, un coast to coast ancora piuttosto originale, con distanze che non spaventano nemmeno un pantofolaio come me.
 

Se non ci credete, date un occhio alla cartina. È come se all'alba del mondo un gigante avesse provato a strozzare l'Inghilterra. Non c'è riuscito, ma il collo è rimasto così.
 

Però in un viaggio come questo non ci sono da mettere in conto solo i chilometri. Anche gli anni vogliono la loro parte.
 

E ve l'ho già detto, sono qui per questo. Voglio inoltrarmi nella storia, non solo nella campagna inglese. 

Passo dopo passo, visto che le insidie non mancano: il tempo, lo so, a volte è una palude che inghiotte vita e risputa ombre.
 

Starò attento, con il mio bagaglio fatto più di domande che di indumenti. Accetterò a cuor leggero tutta la lentezza che è nell'ordine delle cose.
 

E per non smarrirmi ho scelto con attenzione la compagnia. Avrò Adriano al mio fianco, l'uomo dal quale discende tutto questo, dalle pietre del Muro giù giù fino alla gente che arranca per queste colline. 
Fino a queste pagine, anche.
 

Un imperatore romano per compagno, non è da tutti. Però me lo merito, con tutto il tempo che ho fantasticato su di lui. Sui segni che ha lasciato in questo mondo e su tutto ciò che di lui è semplicemente svanito. 

(da Paolo Ciampi, La strada delle legioni, Mursia)

lunedì 30 novembre 2015

Gli animali di Durrell, famiglia compresa

Questa è la storia dei cinque anni che ho trascorso con la mia famiglia nell'isola greca di Corfù. In origine doveva essere un resoconto blandamente nostalgico della storia naturale dell'isola ma ho commesso il grave errore di infilare la mia famiglia nel primo capitolo del libro. Non appena si sono trovati sulla pagina, non ne hanno più voluto sapere di levarsi di torno...

Ecco comincia così La mia famiglia e altri animali di Gerald Durrell, ormai un classico dell'Adelphi, tra i libri più amati tra i tanti che nell'ultimo mezzo secolo ci sono arrivati dall'Inghilterra. Non un capolavoro, però un libro che è un piacere garbato e un inno alla vita. Con dentro i colori del Mediterraneo e una casa che nelle scoperte e nelle birbonate di un ragazzino diventa uno zoo, bipedi umani compresi. Con una madre così inglese da rimanere sempre splendidamente imperturbabile - "Meno male che sei venuto, caro, questo pellicano è un po' difficile da trattare" - e  una incredibile galleria di abitanti di Corfù che scatenano le più singolari alchimie emotive nel rapporto con la famiglia Durrell.

E meno male che lo scrittore in famiglia - quello vero - era il serio, anzi, altezzoso Lawrence. Meno male che Gerald per tutta la vita non ha preteso altro che di essere uno zoologo, magari di tanto in tanto prestato alla scrittura.

Ci si diverte e ci si commuove, inseguendo questo ragazzino che scopre il mondo e che in questo mondo costruisce la passione e il lavoro di una vita. E non si può sorridere pensando all'uomo che si guarda indietro, ritrova quel ragazzino e così lo racconta, anzi si racconta. Con quell'umorismo che non è superficialità, è solo una particolare leggerezza di cui abbiamo bisogno come l'aria.


giovedì 3 settembre 2015

Il piccolo grande mondo perso di Luigi Meneghello

"Questo giorno qui lo voglio di nuovo domani", dissi. La Ernestina disse sorridendo che anche domani sarebbe stato un bel giorno. M'insospettii e dissi freddamente:
"Io voglio che torni questo giorno qui".
"Questo giorno qui ormai è passato", disse la Ernestina, "domani ne viene un altro".
Mi rivoltai come un forsennato, intravedevo che c'era di mezzo una specie di regola intollerabile...

Ma chi lo direbbe mai che questo libro ha così tanta storia dietro, anzi, che è venuto fuori lo stesso anno che sono venuto io al mondo - tanto per confessare che non sono più un ragazzino?

Era un'altra Italia, allora. Ed era un'altra Italia quella che l'Italia di allora stava rapidamente seppellendo. Le lucciole non erano ancora sparite, per dirla con Pasolini, e per fortuna non sarebbero sparite. Però era l'epoca in cui le autostrade cominciavano ad allungarsi da un angolo all'altro dell'Italia e la felicità era una Fiat più un frigorifero a casa. Iniziava l'epoca della televisione, i dialetti sparivano. Soprattutto era cominciata la grande fuga dalle campagne, mica solo per una questione economica. la città era la città: e fare il contadino era qualcosa di cui vergognarsi.

Ecco, erano questi gli anni. Ed ecco che spunta fuori un libro come Libera nos a malo di Luigi Meneghello, autore vicentino che avrebbe trascorso molta della sua vita in Inghilterra, facendone una seconda patria, ma che già allora aveva fame di radici.

Un libro così, a sorpresa. Che racconta di un piccolo paese tra gli anni Trenta e il dopoguerra, con gli occhi sognanti di un bambino ma anche di un adulto che vuole tenersi stretto il bambino che era. Che impasta il suo italiano di dialetto. Che rifugge alle sperimentazioni ardite di tanta letteratura per raccontare che cosa eravamo e che cosa abbiamo perso. Che fa di un piccolo paese - il Malo del titolo - un microcosmo di storie e possibilità. Che usa la farina del distacco ironico - e a volte anche di un irresistibile umorismo - ma poi inforna tutto con l'ingrediente della malinconia.

Ciò che eravamo. Ciò che abbiamo perso. Ciò che forse ora ci viene più facile rimpiangere. 

mercoledì 19 agosto 2015

Passo passo, lungo il Vallo di Adriano

Non so quanti conoscono il Vallo di Adriano. Quanti ne hanno già sentito parlare e quanti l'hanno preso in considerazione come una possibile meta di viaggio.

Credo pochi, ma credo anche che saranno sempre di più in futuro. Merito non della nostra scuola, certo, ma piuttosto degli inglesi. Che ne hanno fatto uno dei grandi itinerari europei per chi intende muoversi a piedi o in bicicletta.
 

Dal Mare del Nord al Mare di Irlanda, un coast to coast ancora piuttosto originale, con distanze che non spaventano nemmeno un pantofolaio come me.
 

Se non ci credete, date un occhio alla cartina. È come se all'alba del mondo un gigante avesse provato a strozzare l'Inghilterra. Non c'è riuscito, ma il collo è rimasto così.
 

Però in un viaggio come questo non ci sono da mettere in conto solo i chilometri. Anche gli anni vogliono la loro parte.
 

E ve l'ho già detto, sono qui per questo. Voglio inoltrarmi nella storia, non solo nella campagna inglese. 

Passo dopo passo, visto che le insidie non mancano: il tempo, lo so, a volte è una palude che inghiotte vita e risputa ombre.
 

Starò attento, con il mio bagaglio fatto più di domande che di indumenti. Accetterò a cuor leggero tutta la lentezza che è nell'ordine delle cose.
 

E per non smarrirmi ho scelto con attenzione la compagnia. Avrò Adriano al mio fianco, l'uomo dal quale discende tutto questo, dalle pietre del Muro giù giù fino alla gente che arranca per queste colline. 
Fino a queste pagine, anche.
 

Un imperatore romano per compagno, non è da tutti. Però me lo merito, con tutto il tempo che ho fantasticato su di lui. Sui segni che ha lasciato in questo mondo e su tutto ciò che di lui è semplicemente svanito.

(da Paolo Ciampi, La strada delle legioni, Mursia)

sabato 18 luglio 2015

Il superfluo che scivola via col cammino

Non so cosa c'entri con questo viaggio. Non so, ma credo che valga lo stesso per i viaggi, meglio, per la smania di catalogarli con grande profluvio di preposizioni, aggettivi e sostantivi.



Il viaggio è sempre verso qualcosa, implica sempre una distanza. È vicino o lontano. Pare non contare per se stesso ma per la sua destinazione, regione, paese o continente che sia. 

Non so cosa c'entri, ma ora che mi sto dirigendo verso Walltown Crags avverto che molte delle cose che finora ho considerato dei viaggi appartengono al superfluo. Possono cadere a ogni passo, come foglie di autunno al primo stormire. 

Walltown Crags, balcone sul tempo, sui tempi, fuori dal tempo. Posto buono per sciogliersi dai pensieri e abbandonarsi a ogni congettura. Per riposare la mente e lasciarla andare, come un pattinatore che scivola sul ghiaccio con leggerezza. 

Perché a volte capita, è in superficie che si scopre il senso della profondità.




(da Paolo Ciampi, La strada delle legioni, Mursia)

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