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venerdì 23 novembre 2018

Il sorriso della ragazza venuta dall'Africa

C’è l’incredibile sorriso di quella ragazza somala, colto in mezzo a una manifestazione di razzismo di piazza, quel sorriso capace di disarmare un’intera folla animata dal peggio di questi tempi grami. E c’è quell’altro sorriso che è un ricordo, un’assenza, forse anche un rimorso: quello di un’altra ragazza arrivata in Italia al termine di un viaggio che è l’inferno in terra.

Chi è Sahra? Qual è stata la sua vita prima e dove è svanita ora, dopo aver abbandonato il centro di seconda accoglienza? E perché è sparita? Quali rughe segnano il suo sorriso?

Sono queste le domande che accompagnano l’ultimo ottimo libro di Carmine Abate, Le rughe del sorriso (Mondadori): uno di quei libri che prima di tutto sono uno sguardo necessario su ciò che oggi molti provano a non vedere. E che allo stesso tempo sono viaggio, si fanno viaggio, il viaggio più terribile, il viaggio dei nostri tempi. 

E c’è quel continente da cui arrivano uomini, donne e bambini. C’è la Somalia devastata dai signori della guerra, ma riscattata dal coraggio e dalla tenacia di chi sa che anche salvare un orfano è una finestra sul futuro. E c’è la Calabria, da cui un tempo si partiva e dove oggi si arriva, la Calabria di Rosarno, ma anche quella di Riace.

Questo ci racconta Carmine Abate, da scrittore par suo, con la consapevolezza che il racconto è possibilità o almeno premessa di salvezza. 

Raccontare, dunque: cominciando da ciò che c’era prima, da quel passato rimosso, da ciò che restituisce volti e nomi. Così come ci diceva Alessandro Leogrande, prima di andarsene troppo presto, dopo aver condiviso con Carmine molte parole anche su questo libro, che per noi è come un passaggio di testimone: 
 
 Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte.

lunedì 5 settembre 2016

Trieste, Livorno, Taranto, il viaggio mediterraneo che non ti aspetti

Ecco, questi sono i viaggi che mi piacciono: non stanno nel catalogo di un tour-operator, non appartengono alla categoria dell'almeno una volta nella vita, non sono nemmeno il facile suggerimento di una guida o di una carta. Nascono piuttosto dal cuore del viaggiatore, dalla sua capacità di immaginarsi un itinerario, dal suo desiderio di mettersi in movimento e di cercare, attraverso il movimento, connessioni e suggestioni. In genere una buona lettura aiuta più di un titolo di viaggio.

E dunque, questi sono i viaggi che mi piacciono, ma soprattutto questo è il modo in cui mi piace che i viaggi siano raccontati: con intelligenza e garbo, con la capacità di trasformare un diario in una storia, di divagare, di assecondare la curiosità.

Tutto questo c'è in Città nascoste. Trieste Livorno Taranto di Paolo Merlini e Maurizio Silvestri, uscito per Exòrma, libro che mi ha colto di sorpresa, su cui non avevo messo gli occhi e che forse non mi sarei mai portato a casa senza un buon suggerimento. Ma come, un libro su queste tre città? Che viaggio è? E qual è il filo che può tenere tutto?

Fili, in realtà ce ne sono in abbondanza, come spiega anche Alessandro Leongrande – l'autore de La frontiera – nella sua prefazione. Perché Trieste, Livorno e Taranto sono tre città di mare, che del mare hanno assorbito – accanto a poche altre città adriatiche, ioniche, tirreniche – la fluidità, l'instabilità, l'intima tolleranza, gli odori, la brezza, la luce.

Città mediterranee, certo, che hanno tratto linfa e anima più dal porto che dalla terra alle spalle. Ma anche città con un Novecento complesso alle spalle e una scommessa sulla grande industria che doveva essere il futuro e che invece oggi gronda di passato.

Si aggirano per queste tre città, gli autori, ne colgono gli umori e i sapori. Bazzicano osterie, caffè, librerie sorprendenti. Registrano le battute dissacranti e surreali di chi ne ha già viste molte e molte ne vedrà. Si concedono volentieri cacciucco, vini del Carso e cozze. Saltano su vecchi tram, perdono tempo tra le bancarelle dei mercati e sui moli degli arrivi e delle partenze. Ragionano di chansonnier maledetti e di gente che sta rendendo migliori i quartieri che sembravano spacciati.

Quante cose ci sono, dentro questo libro. Allo stesso modo della zuppa di mare che, con nomi diversi, ti imbandiscono in ogni scalo del Mediterraneo: tutto si può adoperare, tutto si mescola e conferisce un nuovo gusto. E non c'è dettaglio marginale, non c'è incontro di sfuggita, non c'è scampolo di storia che non faccia al caso.

mercoledì 24 agosto 2016

Cosa c'è prima dei barconi del Mediterraneo

Ho impiegato molto tempo per capirlo. Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte. Sedersi per terra intorno a un fuoco e ascoltare le storie di chi ha voglia di raccontarle, come hanno fatto altri viaggiatori fin dalla notte dei tempi.

Dovessi scegliere le righe in grado di riassumere il senso e lo spirito de La frontiera di Alessandro Leogrande (Feltrinelli), non avrei dubbio, sono senz'altro queste. Giungono verso la fine di questo libro denso e intenso, che non è un romanzo, ma che si legge come un romanzo, che indaga sulle tragedie dei nostri giorni e sa allo stesso tempo acquistare un respiro più ampio, che racconta vicende di un'infinità di persone e che pure porta dentro la narrazione anche l'esperienza, il vissuto di chi scrive.

Ha scritto davvero un bel libro, Alessandro Leogrande, giovane scrittore e vicedirettore del mensile Lo Straniero. Senza retorica, con sguardo pulito, entra dentro l'immane tragedia dei nostri giorni, l'esodo di milioni di persone dai paesi della disperazione. Si interroga sulla nostra frontiera, quella linea immaginaria attraverso il Mediterraneo che unisce e più spesso separa, che è di tutti e di nessuno, che è possibilità di salvezza e tomba per tanti. Ma soprattutto intende andare oltre ciò che c'è alla fine del viaggio: un elenco di morti - di cui per la verità spesso ignoreremo anche i nomi - oppure una lista di richiedenti asilo scampati alla traversata ma non alle incognite del futuro.

E' importare scomporre questo esodo collettivo nei nomi, nei volti, nelle storie. E soprattutto è importante raccontare le storie di questi uomini, donne, bambini. Storie che iniziano prima, molto prima.

Libro importante, La Frontiera, proprio perché ci racconta questo prima. Sia esso l'Eritrea di una speranza rivoluzionaria degradata a orrenda dittatura, oppure la Libia implosa in terribili guerre tribali.

Storie, storie che sarebbe bello ascoltare dalla labbra stesse di chi ce l'ha fatta, perché è proprio con il racconto - dai tempi di Ulisse naufrago nell'isola dei Feaci - che lo straniero si fa davvero ospite. Ma in ogni caso racconto importante, racconto prezioso, in quest'epoca di confini che cambiano, di mura che si consolidano, di distrazione che cresce per il grido di dolore del mondo.


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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...