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venerdì 10 aprile 2015

Un albero per ricordare Enrica


Un tempo era solo un nome, forse nemmeno quello, certo un nome che nemmeno figurava nel doloroso elenco delle vittime della persecuzione. Enrica si era sottratta a quell'ultimo treno, quello per i forni di Auschwitz. Alla vigilia della partenza aveva scelto di uccidersi nel carcere di Santa Verdiana, così in qualche modo si era cancellata anche dalla memoria pubblica, riconosciuta, di tutte gli uomini e le donne inghiottite nella Shoah.

Un nome, questo era il libro che anni fa, con la casa editrice Giuntina, ho dedicato a Enrica Calabresi, la scienziata che le leggi razziali avevano cacciato dall'insegnamento e dalla ricerca, la professoressa che era andata incontro al suo destino per non lasciare i suoi allievi della scuola ebraica - anche loro espulsi dalle leggi razziali.

Mi fa piacere che oggi non sia più solo un nome. Le hanno dedicato vie e aule e questo è molto bello. Ma la cosa più bella l'ha fatta in questi giorni Castel San Pietro Terme - il comune nel cui territorio c'era (e c'é) la casa degli affetti familiari di Enrica.

A Enrica ha dedicato un albero. Un gesto semplice, ma profondo, come sono profonde le radici che l'albero metterà crescendo. Profonde e invisibili, come possono essere gli insegnamenti. Sono vita e tornano nella vita, anche quando di quell'insegnante non ci si ricorderà
più nemmeno il nome. Come è successo per Enrica che nonostante tutto è rimasta nel cuore di tanti suoi allievi molti e molti anni dopo.

E' bello che la vita di una persona si traduca nella vita di un albero. E non dovrei dirlo, ma mi sembra più importante dei ricordi che possono trasmettere le pagine di un libro.

Un albero, un albero che mi commuove ancora di più, pensando che è stato piantato davanti a una scuola elementare. Sarebbe piaciuto a Enrica. Spero che i bambini passandoci davanti lo chiamino con il giusto nome: l'albero di Enrica. 

lunedì 9 febbraio 2015

La suora e la professoressa ebrea, nel carcere insieme

Ci  sono storie come fili invisibili che solo i libri permettono di scorgere. Ci sono libri che ti prendono in contropiede, prima ancora che per le storie che raccontano, per le storie che suggeriscono, magari lasciandole lì, in quella penombra dove le evidenze e le possibilità danzano insieme fino a confondersi.

Questo è quanto ho provato leggendo un piccolo importante libro di Giovanna Lori, Sia benedetta la sua memoria, che mi sarebbe sfuggito se l'autrice non avesse a sua volta incontrato la storia che racconto io in Un nome: e quindi la storia di Enrica Calabresi, la professoressa ebrea che si avvelenò nel carcere fiorentino di Santa Verdiana per evitare la deportazione.

Prima di uccidersi lasciò un biglietto a una religiosa, affidandole quei pochi beni che le erano rimasti.
Chi era quella religiosa di cui non facevo nemmeno il nome?  C'era una storia dietro?

Ed ecco Giovanna Lori, che mi riporta a quel carcere e a quegli anni. Che con pagine scritte con buona penna ma soprattutto con ila forza delle emozioni mi consegna il nome e la storia che mi mancava: quella di Madre Ermelinda, suora che nel terribile periodo dell'occupazione nazi-fascista fece di tutto per salvare prigioniere o per recare loro un qualche conforto.

Con la forza delle emozioni, necessariamente: perché dietro questa religiosa dal fare burbero ma dal cuore grande come una casa spuntano anche le figure di un direttore del carcere che, insieme a lei, rischiò la pelle per non rassegnarsi agli ordini dei vari aguzzini. E insieme di una giovane figlia che, insospettata, riuscì perfino a comunicare con la Resistenza fuori. Rispettivamente il nonno e la figlia di Giovanna Lori.

Ecco, i fili invisibili che vengono allo scoperto. Le tessere del mosaico che compongono una storia, in attesa che altre vadano al posto giusto. Vite che balzano fuori dalle pagine di due libri, che si mescolano con vite di oggi, che lasciano intravedere perfino ciò che non potremo mai davvero sapere.

E ora quasi riesco a scorgerle insieme, Enrica e madre Ermenegilda, insieme sul ciglio della tragedia conclusiva. Sguardi e parole, umanità prima del veleno. 




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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...