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lunedì 17 febbraio 2020

Nei paesi vuoti con Mauro Daltin, non solo per nostalgia

Non è un esercizio di nostalgia. Tutt'altro. Possiamo partire dai Paesi Vuoti per dare vita a una teoria utile a tempi presenti così sfilacciati.

Così comincia Mauro Daltin prima di accompagnarci in un viaggio nella geografia dell'abbandono, dove ciò che era non c'è più e rischia di non rimanere nemmeno come ricordo. Perché il passato a volte non ha nemmeno la forza di reclamare attenzione, eppure questa è una storia che ci riguarda. 

 La teoria dei paesi vuoti (Ediciclo editore) è  molte cose insieme, dentro c'è storia e memoir, antropologia e riflessione sulla contemporaneità, narrativa di viaggio e poesia, sì, anche poesia, perchè c'è un sentimento poetico che certi luoghi che non sono più riescono ancora a destare.

Quanto alla tassonomia dell'abbandono, è  certo più vasta di quanto ci venga solitamente da considerare: paesi in cui l'orologio si è fermato nell'istante di un terremoto o di una frana; paesi svuotati da una scelleratezza speculativa o da una follia urbanistica; paesi sommersi dai bacini artificiali, costruiti magari per portare altrove energia elettrica; paesi che semplicemente non hanno più avuto una ragione di esistere, dopo che le miniere si sono esaurite o la corsa all'oro per cui erano nate si è rivelata una pia illusione.

 Non solo sulla nostra montagna, poi, perchè ci sono anche le storie di altri continenti, dal Quebec all'Argentina, fino al Giappone dello tsunami. E quante storie in ognuna di queste comunità svanite. Quante voci che ancora si possono percepire - parlano ancora le case abbandonate, parlano sempre - se solo si è capaci di tendere l'orecchio. 

E Mauro Daltin, che del terremoto è figlio (era nella pancia della mamma la terribile notte del Friuli), l'orecchio lo sa tendere bene. Per assicurare ancora diritto di parola a quelle voci.

lunedì 15 luglio 2019

Viaggio sentimentale nelle strade perdute del mondo

Proviamo a mettere la geografia al servizio della storia, e non viceversa; e magari riusciremo a ritrovare qualcosa di noi che forse era perduto.

Ecco, a questo ci esorta Alessandro Vanoli, all'inizio del suo nuovo, ottimo libro, Strade perdute, uscito in queste settimane per Feltrinelli. Come se fosse il consiglio di un amico o meglio ancora di un compagno di viaggio, che sa bene che ciò che del viaggio conta non sono i chilometri macinati ma le storie raccolte e poi condivise.

Poi è lui stesso che si mette in viaggio, insieme nel tempo e nello spazio, e quasi non gli si sta dietro, è un viaggio da vertigine, un viaggio che parte prima ancora che cominci la nostra storia, nelle grotte dell'uomo di Neanderthal, per arrivare all'altro ieri, in quella Route 66 che, prima di cedere il posto alle grandi autostrade, è stato il simbolo delll'America sulle quattro ruote e insieme del viaggio verso Ovest, del commesso viaggiatore come del poeta beat. 

Viaggio sentimentale sulle vie che hanno fatto la storia, è questo il sottotitolo del libro, che oltre a evocare il capolavoro della letteratura di viaggio di Laurence Sterne ci restituisce la consapevolezza del viaggio quale esperienza che coinvolge la testa e il cuore. 

Pagine dove c'è lo storico, che sa bene che la storia discende anche da scelte e che non è mai male cambiare il punto di vista, passando per esempio dalle città alle strade che le città uniscono, dai confini di stato alle frontiere mobili che i mercanti e i pellegrini hanno sempre attraversato.

Pagine dove c'è il narratore che sollecita l'intelligenza e riscalda il cuore del lettore, si parli della discesa del Nilo - magari riandando persino al terrore adolescenziale per La Mummia di Boris Karloff - come degli antichi romani che si sono spinti fino in India, oppure sulle ferrove quali la Transiberiana che nell'Ottocento hanno reso meno lontani tanti luoghi del pianeta. 

Non siamo esseri in movimento? 

Così si domanda a un certo punto Alessandro e ovviamente la risposta, dovuta e doverosa, si vorrebbe scontata - sì, da sempre siamo esseri in movimento - benché oggi muri e amnesie la rimettano in discussione. Meno male che ci sono libri come questo, che sono già zaino leggero per una nuova partenza.

 

domenica 13 maggio 2018

Che bella, la geografia dell'anima disegnata dalle canzoni

Ecco il libro che non avevo messo in conto. Al massimo, pensavo, lo avrei sfogliato qua e là, come si fa con un atlante, appunto, per inseguire qualche curiosità. Invece ho cominciato e non mi sono fermato. Anzi, ho cominciato a  leggere e poi a fare alcune altre cose.

Per esempio, abbandonare il divano per il computer, accendere Spotify e costruirmi la mia personale playlist per la lettura. Per esempio, andare su un negozio on line - per i libri non lo faccio, ma per i cd sì - e acquistare un bel po' di musica, che non conoscevo o che non mi ricordavo di aver ascoltato una vita fa. Il portafogli ora piange, ma anche il cuore è più leggero.

Le città da cantare di Riccardo Canesi, sottotitolo Atlante semi-ragionato dei luoghi italiani cantati, con prefazione di Mogol, è davvero una bella proposta della casa editrice Tarka, un libro che vi raccomando, sempre che siate consapevoli che le canzonette non sono solo canzonette. Perché così è: sono la colonna sonora della vita, impregnano non solo il nostro tempo ma anche i luoghi di cui cantano. Nel caso, anche a voi potranno succedervi strane cose, tipo scoprirvi a cantare Alberto Fortis nel cuore della notte.

Riccardo Canesi io lo conoscevo come appassionato di geografia - appassionato anche nella difesa delle ragioni della geografia - ignoravo il suo lato di cultore della canzone. Così sono due le passioni che stanno dentro questo libro e pensare che a volte basta che ce ne sia una, perché un libro abbia buone radici.

Ne viene fuori una bella geografia dell'anima, un viaggio verso i tanti altrove della nostra penisola: le città che io ho imparato a conoscere non solo con i miei passi ma anche con i libri e che ora scopro di poter conoscere ancora di più attraverso le canzoni.

Così per Livorno d'ora in avanti non potrò prescindere da Piero Ciampi. Per Milano non potrò mai fare più a meno di Jannacci, il primo Jannacci. E per Genova, cosa potrò fare senza Bruno Lauzi e Fabrizio De Andrè? Nomi che faccio solo per comodità ovviamente. Perché poi viene anche da interrogarsi sulla canzone composta da Franco Fortini o di cercare qualcosa di più di Giuni Russo - che non non è solo quella canzone su Alghero in compagnia di uno straniero - oppure su Roberta Alloisio - chi era questa donna che dalla Liguria ci portava fino a Buenos Aires?

Viene così, domandandosi di anni andati, canzoni che forse era un altro a sentire, luoghi che non so se esistono davvero o se abitano le mappe della mia immaginazione. Per capirlo vorrei andare a qualche incontro con questo libro: per ascoltare non solo parole, ma anche canzoni, al posto dei tanti, troppi discorsi che di solito infarciscono le presentazioni.

Ecco, mi metterei in ascolto e sfoglierei il libro, questa volta sì, saltando dall'indice a una qualche pagina. Sempre più convinto che Marcel Proust aveva ragione persino in questo:

Non disprezzate la musica popolare... a poco a poco essa si è riempita del sogno e della lacrime degli uomini. Per questo vi sia rispettabile. 

venerdì 16 febbraio 2018

Nelle mappe la storia e il sogno del mondo

L'impulso a disegnare mappe e carte geografiche è un istinto umano fondamentale e immortale. Dove saremmo senza?

Ecco questa è una buona domanda, anche se non è facile darle risposta. Ma le buone domande, si sa, sono quelle che in genere mettono in movimento il cuore e la testa, senza in realtà assicurarti un punto di arrivo. Vale anche per questo straordinario libro, in cui è meraviglioso immergersi, con la sensazione di abbracciare l'intera storia del mondo attraverso la visione che del mondo l'uomo ha avuto.

Da Tolomeo a Google Earth, dalla carta tedesca che per prima volta chiamò America il Nuovo Mondo alla proiezione di Peters che negli anni Settanta del secolo scorso provò a ripristinare un giusto rapporto tra i continenti, quando si cercò di scrollarsi dalla visione eurocentrica e di tutto ciò che essa aveva comportato. La mappamundi di Hereford, le opere di arte di Mercatore e Joan Blau, e molto molto altro.

Tutto questo potrete trovare ne La storia del mondo in dodici mappe di Jerry Brotton (Feltrinelli), libro bello anche da vedere e da sfogliare, ma soprattutto libro appassionante come un romanzo della conoscenza, capace tra l'altro di rimettere in discussione quel poco di certo che ci portiamo dietro. Figurarsi, anche il nord non è sempre stato dove siamo convinti sia sempre stato e non esiste in effetti nessuna ragione puramente geografica per orientare le mappe come facciamo.

A non venire mai meno è proprio quell'istinto fondamentale, quel bisogno essenziale cui le mappe provano a rispondere: imporre un ordine e una struttura allo spazio smisurato, apparentemente illimitato, del mondo conosciuto.

Così essenziale questo bisogno che un tempo a chi realizzava le mappe o a chi semplicemente le possedeva era conferito una sorta di potere arcano, magico. E che di fronte a esse, ancora oggi, si compie il miracolo di tornare bambini, pronti alla meraviglia, pronti a saltare sul tappeto volante destinazione altrove.

Ps: neanche a dire,  per me è stato un libro necessario e insostituibile per scrivere le pagine de Il sogno delle mappe,  il mio titolo nella Piccola filosofia di viaggio di Ediciclo.

lunedì 10 giugno 2013

Il viaggio di Concita nel paese della rabbia

Poco a poco, come le pietre di una collana, tutte queste storie diventavano un rosario: non di una preghiera, però. Di una maledizione. Diventavano tutti i colori della rabbia: la geografia esatta del disamore per chi ti ha promesso e poi negato, per chi ti ha illuso, per chi sa solo chiederti e mai dare.

Spiega Concita De Gregorio nel prologo che la sua intenzione era scrive un libro sul lavoro e sull'assenza di lavoro - almeno di lavoro degno di questo nome - e sulle relative frustrazioni e disillusioni. Così, da brava giornalista qual è, ha cominciato a raccogliere storie, a dare voce a chi solitamente voce non ha.

Solo che su questa strada il libro è diventato un'altra cosa. O forse è lei stessa che dalle storie è stata sospinta altrove. Come se si fosse incamminata a ritroso, verso le radici della rabbia.

Ne è venuto fuori un affresco, un canto corale della rabbia dei nostri tempi, della rabbia che è marea crescente, della rabbia che ha perso la presa non solo sul presente ma anche sul futuro e non sa più a che santo votarsi, della rabbia che diventa ancora più rabbia perché pare che non ci sia nessuno che le presti davvero ascolto, tranne servirsene di tanto in tanto.

Rabbia che è invettiva, fin dal titolo, fortissimo, di questo libro: Io vi maledico. Rabbia che, chissà, potrebbe diventare anche altro, come nella bella poesia - non solo per bambini - di Bruno Tognolini.

La rabbia giusta, quella che ha ragione, si chiama indignazione.

In attesa, ci incamminiamo con Concita De Gregorio, in questo viaggio doloroso e inquieto per il nostro paese. 

venerdì 3 giugno 2011

Se la vera geografia è quella immaginaria

Alla base della geografia c'è immaginazione e curiosità. E che la geografia sia legata alla ricerca del paradiso terrestre mi sembra ovvio: le prime carte geografiche, in Occidente, cercavano appunto di localizzarlo

Lo dice Umberto Eco, in un'intervista di Wlodek Goldkorn pubblicata su L'Espresso. Lo dice quasi en passant, per parlare poi di molte altre cose. E almeno a me mi ha lasciato con parecchia voglia di saperne di più.

Perchè il tema, in sostanza, è questo: la geografia come scienza immaginaria. Ovvero l'evanescenza della scienza del mondo com'è, della scienza che quasi si può toccare, come si tocca la terra che si calpesta. Montagne e pianure, mari e fiumi: ma su tutto la nostra immaginazione.

Il pianeta com'è, ma soprattutto il pianeta come ce lo immaginiamo, come lo sogniamo, in fondo anche come lo vogliamo. Un pianeta, ma anche due pianeti che sono irrimediabilmente diversi e necessariamente uguali.

La geografia dei geografi e la geografia dei viaggiatori immaginari.  Charles Darwin - per dire uno scienziato - ed Emilio Salgari. E ora anche Umberto Eco che mi spiega quello che forse confusamente avevo già intuito:

Sono affascinato dalla geografia immaginaria, perché ogni geografia in statu nascenti lo è, altrimenti registra quello che già si sa

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...