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venerdì 10 maggio 2013

In quel bistrot di Parigi, con Jean Paul Sartre

Loro erano programmati per odiarsi e distruggersi e invece erano caduti l'uno nelle braccia dell'altro. Era bello sentire il proprio patronimico. In Francia, si aveva soltanto un nome. Di colpo, un poco dell'odore, della musica e della luce del loro Paese tornava, anche se l'uno era un russo bianco, ortodosso praticante, antisemita e misogino, che odiava i comunisti, e l'altro un ex nemico, un rosso fervente, convinto ed entusiasta, che aveva partecipato all'instaurazione del comunismo. Quel tipo di differenze, che vi facevano sbuzzare quando eravate al paesello, lì sparivano. Soprattutto se si trattava di due russi insonni

Diffidavo di questo libro, diffidavo come mi capita di diffidare dei libri pompati da centinaia di migliaia di copie già vendute altrove, con tanto di premi - in questo caso nientemeno che il Goncourt - accaparrati con incontenibile voracità.

Se ho finito per comprarlo, Il club degli incorreggibili ottimisti di Jean Michel Guenassia, mi sa che è solo per la copertina, bellissima, per questa immagine che evoca tutto un mondo e un'epoca, la Parigi della rive gauche, i bistrot e i pernod, le appartenenze ideologiche e gli sradicamenti del mal di vivere, discussioni tirate fino all'alba, poesia, volute di fumo.

E non sarà un capolavoro, ma questa Parigi c'è tutta, Jean Paul Sartre compreso. E in questa Parigi c'è un bel pezzo di mondo. In particolare il mondo degli esuli, vite sottratte a dittature e offese varie, sospinte verso la Francia come i relitti di un naufragio.

Esilio come rinascita, esilio come incapacità di riannodare i fili dell'esistenza. Esilio ed esili, le molte storie che si intrecciano in uno di quei locali dove la Storia si riduce a una partita di biliardo, a un litigio inconcludente, a un gruppo di uomini che a notte fonda cercano di ritrovare la via di casa, se casa c'è.

mercoledì 13 giugno 2012

Il giornalista di Marsiglia che scriveva della miseria

Scrivo della miseria che è davanti ai nostri occhi e che facciamo finta di non vedere. Scrivo perché il lettore si ribelli, e non c'è altro modo che emozionarlo, che farlo innamorare con la verità

Che belle queste parole di Jean-Claude Izzo, scrittore che abbiamo perso troppo presto, autore di grandissimi noir ma prima di tutto cantore di un'umanità dolente. Uomo che sapeva guardare e che non nascondeva il suo sguardo. Gran solitario che aveva un maledetto bisogno degli altri. Allergico a ogni liturgia mondana che si trovò a gestire un successo inaspettato. Legato in modo indissolubile a un solo posto, Marsiglia, ma a un posto che da sempre ha nel suo Dna le lontananze e le mescolanze, porto che è come dire tutto il Mediterraneo, traffici e meticciato, scontri e incontri.

E' un mondo che ho imparato a conoscere anche attraverso i suoi libri, a partire dalla trilogia di Fabio Montale. Calli alle mani e bistrot, zuppe di pesce e casse da scaricare ai moli, mazzi di carte e parole arabe mescolate al francese.

Non sapevo che Jean-Claude Izzo era stato anche un bravo giornalista. Uno di quei giornalisti che non finiscono in televisione a ogni momento o che non sgomitano con il titolo più gridato. Un giornalista che lavorava con pazienza alle sue inchieste e non scriveva delle celebrità della Costa Azzurra, ma di vita in fabbrica e di quartieri dormitorio. Consumava scarpe, Jean-Claude Izzo, perché un buon cronista fa così, prende e va a vedere. Un giornalista militante, si direbbe oggi, o meglio, si diceva allora.

Non so se ci vedete il nesso, ma per me tutto torna, gli articoli sul lavoro degli operai siderurgici e i personaggi come Lole la zingara. Verità e poesia. Poesia e verità.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...