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mercoledì 2 settembre 2020

Oltre il Danubio e i Carpazi, ciò che ci si lascia dietro


Ecco, pensò, basta andar via da un luogo ed è come se tutto quello che ci si lascia dietro non fosse mai esistito. E fissò i monti lontani dietro i quali spuntava il sole.


Questo è un libro potente, un libro che non finisce più, che fa girare la testa per tutte le vicende che racconta, i personaggi che mette in gioco, i passaggi da una visione di insieme al dettaglio più minuto e viceversa, un libro che è bello portare a termine, dopo essersi immersi in esso giorno dopo giorno, non senza una certa dose di coraggio.

E' storia, è  epica, è destino di un popolo raccontato attraverso le parabole di tanti destini individuali. Migrazioni, così si chiama. Più difficile pronunciare il nome dell'autore, Milos Crnjanski. Quasi scontato l'editore, Adelphi, con la sua storica attenzione alle voci della Mitteleuropa e dei Balcani.

Oltre mille pagine fitte fitte per narrare la storia dei soldati serbi che dopo aver perso la loro terra conquistata dagli ottomani, dopo aver combattuto con l'esercito degli Asburgo, guardarono alla Russia degli zar e dell'ortodossia per ricreare una nuova patria. 

Storia, insomma, di una terra promessa, ricercata, sognata, agognata, inseguita attraverso la valle del Danubio e i Carpazi, da conquistare con interminabili stenti e fatiche, da guadagnare malgrado le miserie umane di ogni genere.

Terra promessa che poi forse non accoglierà a braccia aperte e che forse sarà fonte di delusione, ma questa è già un'altra storia. Intanto bisogna partire da quella primavera del 1744, l'alba in cui Vuk Isakovic partì per la guerra, sentendosi dentro qualcosa di più di una premonizione:

Gli erano venute a noia quelle continue migrazioni e quell'inquietudine che né in lui né negli uomini che conduceva mai si placava. 

lunedì 4 dicembre 2017

Galizia, regione dove vivevano uomini ne libri

Regione in cui vivevano uomini e libri. Così la definva Paul Celan, che da quella regione di uomini e libri proveniva. Diceva della Galizia, terra  per cui è obbligatorio l'impiego del passato. Non la Galizia della penisola iberica, certo, quella affacciata sulle distese dell'Oceano. Ma la Galizia che era al centro dell'Europa, era perchè non c'è più, perché di essa si è perso perfino il nome, che è stato cancellato dalla geografia.

E perché sia qualcosaGalizia di Martin Pollack, uscito per Keller.
di più di un vago ricordo, di un rigo dei manuali di storia su combattimenti che non sapremmo ritrovare sulle mappe, ecco un libro magnifico,

Reportage nella Mitteleuropa scomparsa, diario sentimentale, romanzo di romanzi, resoconto di  letteratura e cronaca, omaggio poetico e filosofico, non so bene dire cosa siano davvero queste pagine - e anche questo a suo modo è un apprezzamento. Non so bene, come non so bene cosa sia stata la Galizia: e anche questo, forse, è un modo di coltivarne la nostalgia.

Un tempo era il regno di Galizia e Lodomiria - e che nome da fiaba, Lodomiria. Un  tempo, dopo la prima spartizione della Polonia, era dominio della corona di Asburgo. Un tempo era provincia e allo stesso tempo cuore dell'impero.

Galizia, terra che a seguirla nelle vicende della storia c'è da perderci la testa. Mosaico di popoli, laboratorio di una convivenza sempre a rischio e sempre ritrovata: ruteni, come ai tempi si chiamavano gli ucraini, polacchi, ebrei, romeni, zingari e tanti altri che forse non avete mai sentito nominare (chi erano gli huzuli? chi erano i lipovani?)

Galizia, terra di città importanti, che hanno lasciato un segno, attraverso nomi che non ci sono più, dopo continue metamorfosi che sono come il gioco delle tre carte: dove è finita Leopoli? E dove Cernowitz?

La Galizia - diceva uno dei suoi figli, il grande Joseph Roth - vive in una solitudine trasognata, eppure non è isolata: vi è più cultura di quanto le sue insufficienti fognature farebbero pensare; il disordine è notevole, le singolarità lo sono ancora di più.

Galizia, terra di scrittori come Bruno Schulz, terra che attraverso i suoi scrittori appartiene al mondo. Non c'è più, o forse c'è più di prima, ora che il mondo a cui apparteneva è stato spazzato via. Terra dell'anima, terra di parole, terra di assenza che ci reclama.


martedì 2 luglio 2013

Inseguendo il Carso di Scipio Slataper

Vorrei dirvi: sono nato nella pianura morava e correvo come una lepre per i lunghi solchi, levando le cornacchie crocidanti. Mi buttavo a pancia a terra, sradicavo una barbabietola e la rosicavo terrosa. Poi son venuto qui, ho tentato di addomesticarmi, ho imparato l'italiano, ho scelto gli amici fra i giovani più colti; ma presto devo tornare in patria perché qui sto molto male.

Ecco come scriveva Scipio Slataper, con la sua lingua antica illuminata da lampi di assoluta modernità, nemmeno fosse uno dei fiumi carsici della sua terra, acque che scorrono sotto, nascoste, raccolte, imprevedibili, e che poi all'improvviso vengono allo scoperto.

Scipio Slataper, di cui tanto tempo dopo, quasi fuori tempo massimo, mi è capitato di leggere Il mio Carso, pubblicato per la prima volta nel 1912 da La Voce di Firenze. E che in effetti non so nemmeno dire cosa sia - autobiografia per frammenti o altro? - così come non riesco a misurare il senso del secolo e passa che mi separa da questa scrittura - figurarsi, prima della Grande Guerra.

Lettura perfino faticosa, impervia, sempre a un passo dalla resa. Eppure con un fascino che resiste, che riesce a non dileguarsi. Sarà l'idea di questo intellettuale che sembra riassumere per intero la mia idea di Mitteleuropa. Sarà per il suo legame con un mondo scomparso, con una terra che è un lembo di geografia e allo stesso tempo un sogno dell'infanzia.

mercoledì 15 maggio 2013

In Brasile, tra futuro e nazismo

Laddove, in questi nostri tempi difficili, scorgiamo una speranza per un futuro migliore in zone semi-sconosciute, è nostro dovere additarle, indicandone le possibilità. E' per questo motivo che ho scritto questo libro.

In questo modo Stefan Zweig, l'autore della Novella degli scacchi e di altri splendidi libri, presentava il suo ultimo libro, così impastato, fin da queste parole, dal senso della fuga e dalla speranza di una nuova vita in un accogliente altrove.

E già questo fa pensare. Stefan Zweig è tra gli scrittori che più di tutti sembrano legati alla cara vecchia Europa sul ciglio della catastrofe. Anzi a quel sogno incastonato dentro un continente, che fu la Mitteleuropa. Un mondo forse già finito con la Grande Guerra ma che poi il nazismo annichilì con la sua barbarie.

Per Stefan Zweig, ebreo di Vienna, rimase appunto solo la possibilità della fuga, l'ipotesi di una nuova vita. Per esempio in Brasile, terra tutto sommato ancora semisconosciuta dagli europei, dove forse avrebbe potuto reinventarsi.

Speranza che vibra ancora nel titolo di un libro che ora la casa editrice Eliot ripropone al lettore italiano: Brasile, terra del futuro.

E in effetti terra del futuro il Brasile lo è stata per tanti. Non per Stefan Zweig, però. Uomo che apparteneva al passato, uomo che così aveva scritto in Il mondo di ieri, titolo quanto mai eloquente.

 Inerme e impotente, dovetti essere testimone della inconcepibile ricaduta dell'umanità in una barbarie che si riteneva da tempo obliata e che risorgeva invece col suo potente e programmatico dogma dell'anti-umanità.

In Brasile, il 23 febbraio 1942, si suicidò, insieme alla sua giovane moglie. 

mercoledì 13 febbraio 2013

Nel lager, tra i turisti di oggi e le ferite di ieri

Lo ammetto, non riesco ad accettare fino in fondo l'idea che questo posto di montagna, cardine del mio mondo interiore, sia visitabile da chiunque; e soffro anche un po' di gelosia: non soltanto perché oggi occhi estranei percorrono uno scenario che fu testimone della nostra anonima prigionia, ma anche perché questi sguardi curiosi (ne sono assolutamente certo) non potranno mai penetrare nell'abisso di abiezione in cui fu gettata la nostra fiducia nella dignità umana e nella libertà personale.

E' una domenica pomeriggio, molto tempo che tutto è successo: lo stesso attacco di un altro grandissimo libro della memoria, Il giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani: sarà che abbiamo bisogno di questo tipo di sguardo, dalla quiete del dopo, per provare a capire cosa significa ricordare.

Boris Pahor, sloveno di Trieste, ripercorre la strada che lo porta al luogo che un tempo fu il suo lager; si mescola, lui sopravvissuto, ai turisti della memoria che scendono dai pullmann e scattano foto; comincia ad avvertire strane sensazioni, al cospetto di quegli estranei, come se di nuovo indossasse la giubba a strisce e gli zoccoli del campo di concentramento; e forse nemmeno lui saprà raccontare fino in fondo l'orrore - lui che la sorte ha voluto tra i "salvati" e non tra i "sommersi", per dirla con Primo Levi - ma intanto ricorda e racconta.

Libro di enorme dolore, libro non facile, Necropoli di Boris Pahor (Fazi editore). Libro sospeso tra diversi tempi, il presente dei turisti e il passato dei deportati. Libro che per noi italiani è quasi doveroso, per non archiviare le responsabilità del fascismo anche nella persecuzione della minoranza slovena.

Racconta Luigi Magris nell'introduzione che anche lui ha scoperto relativamente tardi Pahor, questo critico e appassionato cantore della mia e della sua Trieste. Distrazione e rimozione di uomini e donne che, con un'altra lingua, hanno reso ricca e vitale questa città che è la quintessenza della Mitteleuropa.

Da leggere due volte, Necropoli, non fosse che a dispetto di tutto quanto racconta è un regalo al domani. E nelle parole di Magris:

Perfino in quella necropoli tale resistenza umana è una speranza.

giovedì 27 ottobre 2011

Rossana, la donna del secolo scorso

E dunque, questo è uno dei libri che quando te lo regalano lo sistemi sulla pila dei titoli "in attesa di lettura", non necessariamente in cima, e ti riprometti di leggerlo, come no, prima o poi lo leggerai, però poi passano le settimane, i mesi, perfino gli anni, e il libro rimane sempre lì. Perché poi, di che storia sta parlando, Rossana Rossanda? Il secolo scorso, appunto... cosa mi rappresenta quella storia?

E per l'appunto, la trama dell'impegno politico di Rossana Rossanda è una matassa di vicende e riferimenti che oggi ci dicono poco o niente, sullo sfondo della grande promessa e del grande fallimento. Però che storia, questa donna...

Dalle prime memorie di bambina, in una famiglia istriana con radici ben piantate nella Mitteleuropa asburgica, attraverso le grandi tragedie del Novecento, perché poi questa è una domanda che continua a risuonare dentro di noi:

Che roba è aver quindici anni nel 1939 e ventuno nel 1945? Per questo sono noiosa. E allarmata

E poi via, lungo gli anni Cinquanta e Sessanta, anni di lavoro faticoso, di incerte speranze, di dedizione alla politica che prevale comunque sullo sconfortante grigiore di certi rituali.

E sapete, alla fine questo libro non è la storia di una donna ostinatamente comunista, è la storia di una donna che vuole essere parte di un paese, che vuole cambiare il suo paese, e prima di tutto disegnare un futuro.

Prima ancora del Sessantotto, con la sua esplosione di colori e illusioni. Quando la politica era una cosa così seria che la faccia la si metteva nelle assemblee, mica nei dibattiti televisivi, e le carriere contavano assai meno dei partiti.

Dice a un certo punto Rossana Rossanda:

Nessuno si capacita, oggi, che i deputati fossero compensati così poco e i consiglieri comunali niente. E' da quando la politcia si disprezza che le cariche elettive sono retribuite con cifre mirabolanti

Allora capisci davvero che questa è una storia - e una donna - del secolo scorso. Solo che lo capisci con il morso del rimpianto.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...