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sabato 7 luglio 2012

Il reporter di guerra che non raccontava di eroi

Il giornalismo, spiega David Randall nel suo splendido Tredici giornalisti quasi perfetti (Contromano Laterza), è infestato di invidia professionale non meno di qualsiasi altra attività professionale che si svolga all'insegna di un'insicurezza cronica. E certo non dovette essere poca l'invidia che si attirò su di sé Richard Harding Davis, cronista puro e principe dei corripondenti di guerra americani.

Era bravo, Davis, e soprattutto non piegò le sue capacità a interessi di parte o peggio ancora a calcoli personali. Quanto vedeva, raccontava. Anche nel corso di quella guerra con cui gli Stati Uniti, alla fine dell'Ottocento, strapparono Cuba alla Spagna. La stessa in cui William Randolph Hearst, il potente magnate della stampa americana, pare abbia detto a Frederic Remington, il fotografo che accompagnò lo stesso Davis: Tu procura le immagini, io procurerò la guerra.

Davis la guerra la raccontò. Nella sua insensata crudeltà: guerra non di eroi, ma di uomini che subiscono il destino. E valgano per tutti queste parole:

Un certo numero di granate e proiettili è passato in uno spazio e uomini di differente stazza hanno bloccato quello spazio in differenti punti. Se un uomo si trovava nella traiettoria di un proiettile, era ucciso e spedito al creatore, lasciando una moglie e dei figli, forse, a piangerlo. "Papà è morto", diranno questi figli, "facendo il suo dovere". In realtà il papà è morto perché si è alzato nel momento sbagliato, o perché si è girato a chiedere un fiammifero all'uomo alla sua destra, anziché piegarsi alla sua sinistra, e ha proiettato la sua mole di novanta chili là dove un proiettile, sparato da un uomo che non lo conosceva e non aveva puntato contro di lui, si è trovato a pretendere il suo diritto di precedenza. Uno dei due doveva cedere e, poiché il proiettile, non ha voluto saperne, il soldato ha avuto il cuore sfracellato.

giovedì 5 luglio 2012

Il cronista che non dimenticò mai per chi scriveva

Ernie Pyle aveva un nome buono per un film di Hollywood di Billie Wilder o Frank Capra e una storia davvero americana, di uomo che si fa dal niente.

Ernie Pyle entrò nel giornalismo dalla porta di dietro, cominciando a scrivere per riviste di aviazione: si diceva che se un pilota si lanciava col paracadute per un'emergenza, lui riceva una telefonata prima che il pilota toccasse terra.

Ernie Pyle amava girare per l'America e raccontare le persone e i posti che incontrava per strada. Non ho una casa, diceva, la casa è dove si ferma l'automobile, dove di volta in volta ricevo la posta. La mia casa è l'America.

Ernie Pyle, all'apice della sua carriera, inviava articoli che venivano pubblicati in contemporanea su 400 quotidiani e 300 settimanali. La gente attendeva le sue parole, le parole di un uomo che non aveva casa.

Quando l'America entrò in guerra contro Hitler - ci racconta splendidamente David Randall in Tredici giornalisti quasi perfetti - anche Ernie Pyle partì.

Una delle prime cose che raccontò all'America fu un bombardamento su Londra e iniziò così:

Quando la pace sarà ritornata in questo strano mondo, un giorno o l'altro voglio venire di nuovo a Londra, affacciarmi su un certo balcone in una notte rischiarata dalla luna e guardare la pacifica curva argentea del Tamigi con i suoi ponti al buio.

Per anni Ernie Pyle raccontò di uomini comuni come lui, scaraventati nell'inferno della guerra. Fu anche fortunato. La scampò diverse volte, divenne il corrispondente di guerra più letto. Era importante che raccontasse di uomini, non di reparti, battaglioni, divise. Raccontò anche il D-Day:


Era un bel gorno per passeggiare sulla riva del mare. Degli uomini dormivano sulla spiaggia, alcuni di loro per sempre....

Era un uomo, un uomo che come tutti aveva paura. Se avessi sentito un altro sparo o visto un altro uomo morto, scrisse, sarei andato fuori di testa. Sapeva che la sua fortuna non sarebbe durata ancora a lungo. Ma quando, dopo la Normandia, avrebbe potuto rimanersene in America a mietere il frutto del suo lavoro, non se la sentì. Ripartì, per il Pacifico.

Ernie Pyle rimase ucciso poche settimane prima della fine della guerra. In tasca gli trovarono un ultimo pezzo:

Nella gioia dell'euforia è facile per noi dimenticare i nostri morti...

E ha ragione David Randall, per cui Ernie Pyle fu semplicemente, magnificamente, il cronista che non dimenticò mai per chi scriveva.





martedì 3 luglio 2012

La squadra dei 13 reporter quasi perfetti

A beneficio del futuro è possibile che i cronisti redigano, come si suol dire, la prima bozza della storia; ma per il presente, l'hic et nunc, forniscono qualcosa di ancora più prezioso: la materia prima con cui giudichiamo il nostro mondo e coloro che ricercano il potere al suo interno. E la nostra migliore difesa nei confronti di demagoghi, ciarlatani, agitatori e imbonitori, e verso tutte le menzogne e le mezze verità che questi spacciano, sono i cronisti, specie i grandi.

(David Randall, Tredici giornalisti quasi perfetti, Laterza)

Chissà se esistono giornalisti perfetti, o per l'appunto, quasi perfetti. Chissà se non sono proprio le imperfezioni, che sono le imperfezioni di tutti, a farli grandi, qualunque cosa voglia dire grandi. E vai a sapere come è che si selezionano, questi giornalisti quasi perfetti, tra la folla dei tanti che giorno dopo giorno hanno alimentato o alimentano il grande fiume delle notizie, firme luccicanti e cronisti anonimi.

Forse esiste solo un criterio: l'arbitrarietà elevata a giudizio inappellabile. Ed è quanto ha fatto David Randall, immaginandosi di dirigere una redazione con piena libertà di selezionare i migliori reporter di ogni tempo.

E va bene così, non importa che quasi tutti i prescelti siano per noi del tutto sconosciuti. Da William Howard Russel, l'uomo che per la prima volta raccontò alla gente che cos'era una guerra (che poi era la guerra di Crimea), a Edna Buchanan, la ragazza allampanata che le insegnanti rimproveravano perché non avrebbe mai combinato niente di buono e che invece divenne la più grande cronista di nera di tutti i tempi; da Nellie Bly, che si finse pazza per raccontare un manicomio dall'interno, ad Aloysius MacGahan, a cui si deve probabilmente il più grande pezzo di giornalismo di tutti i tempi (e pensare che si trattava di un reportage da una località sperduta della Bulgaria), la galleria dei personaggi è straordinaria.

Tredici reporter, ma soprattutto tredici grandi storie, ciascuna delle quali meriterebbe un romanzo. Un solo grande atto di amore nei confronti del giornalismo,

Libro non solo bello, perfino utile, in tempi in cui pare che dal giornalismo si possa prescindere, a cuor leggero.

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