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lunedì 3 novembre 2014

Nel niente più niente d'America, dove sono nato

Con le giuste cartine geografiche e una bacchetta in mano so che potrei convincere anche le teste più esigenti che quando il vasto e insanguinato puzzle che era il quadro dei confini regionali di questo paese si è compattato più o meno nella sua configurazione attuale dopo la Guerra Civile, qualcuno ha lasciato cadere un frammento, che a sua volta ha creato un vuoto, e hanno chiamato quel vuoto "Indiana centrale".

Non sto cercando di dire che lì non c'è niente. Sto cercando di dire che è proprio il "lì" a mancare. 

Pensateci: mettetevi a pensare con criterio. Qual è il niente più niente d'America? Il Midwest, no?

Ma quando arrivate nel Midwest, scoprite che tutti i vari niente hanno pretesa di esser qualcosa. Ci sono le pianure solitarie dell'Iowa. In Michigan c'è una canzone di Gordon Loghtfoot. L'Ohio si aggrappa alla sua mediocrità vagamente comica, al suo essere medio. Tutti hanno qualcosa.

Invece ora vi invito a chiudere gli occhi, e quando dico "Indiana"... schermo vuoto, giusto?

E stiamo parlando dell'Indiana in generale, che comprende il sud dell'Indiana, dove sono cresciuto, e il nord, che tocca  uno dei Grandi Laghi. Non abbiamo ancora ristretto il campo all'Indiana centrale. 

L'Indiana centrale? E' come dire: "Dove sei?". Boh, non c'è niente. "Ecco, sei arrivato". 

(da John Jeremiah Sullivan, Americani, Sellerio)

venerdì 31 ottobre 2014

Che sorpresa, gli Americani di Sullivan

 Io lo adopero ancora il vecchio detto: un buon cronista si vede dalle scarpe. E quelle scarpe devono essere consumate, anzi, logore, a dimostrazione di tutta la strada che si è fatta per vedere, ascoltare, registrare.

E' questa la prima cosa che mi è venuta in mente leggendo Americani di John Jeremiah Sullivan (Sellerio), libro di straordinari reportage attraverso un 'America insolita. Un'America che è, in gran parte, quella del dopo 11 settembre, ma che soprattutto è quale raramente ho trovato nelle pagine dei libri e dei giornali.

Perché questa è la seconda cosa che mi è venuta in mente: c'è bisogno di buone gambe, ma anche di uno sguardo che vaghi irrequieto e si posi su ciò che non è scontato. Di tanta voglia di setacciare la realtà alla ricerca di risposte non date.

Scrittore errante, reporter inquieto, Sullivan dalla curiosità è come divorato. E' fame che non si sazia e che per ogni pasto restituisce una storia.

E quante storie racconta Sullivan. Un grande raduno di "rock cristiano" e i primi passi sul palcoscenico di Michael Jackson. L'uragano Katrina e un week end a Disney World. I protagonisti di un reality show in tour tra discoteche e localini più o meno sordidi e uno scrittore del profondo Sud colto nell'ora del suo inarrestabile declino.

Per la New York Times Book Review è la più importante raccolta di saggi e reportage dall'uscita di Una cosa divertente che non farò mai più di David Foster Wallace. Non sono in grado di giudicare, però vale la pena. 

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