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giovedì 18 giugno 2020

Tutto il mondo in quel bistrot di Parigi

Diffidavo di questo libro, diffidavo come mi capita di diffidare dei libri pompati da centinaia di migliaia di copie già vendute altrove, con tanto di premi - in questo caso nientemeno che il Goncourt - accaparrati con incontenibile voracità.

Se ho finito per comprarlo, Il club degli incorreggibili ottimisti di Jean Michel Guenassia, mi sa che è solo per la copertina, bellissima, per questa immagine che evoca tutto un mondo e un'epoca, la Parigi della rive gauche, i bistrot e i pernod, le appartenenze ideologiche e gli sradicamenti del mal di vivere, discussioni tirate fino all'alba, poesia, volute di fumo.

E non sarà un capolavoro, ma questa Parigi c'è tutta, Jean Paul Sartre compreso. E in questa Parigi c'è un bel pezzo di mondo. In particolare il mondo degli esuli, vite sottratte a dittature e offese varie, sospinte verso la Francia come i relitti di un naufragio.

Esilio come rinascita, esilio come incapacità di riannodare i fili dell'esistenza. Esilio ed esili, le molte storie che si intrecciano in uno di quei locali dove la Storia si riduce a una partita di biliardo, a un litigio inconcludente, a un gruppo di uomini che a notte fonda cercano di ritrovare la via di casa, se casa c'è.

giovedì 7 maggio 2020

Il dolore che non mi ricordo di aver scritto

Ho ritrovato questo Diario in due quaderni negli armadi blu... Non ricordo di averlo scritto.

Succede che il passato ci sorprenda così, come un baule in cantina che non è stato più riaperto, come una scoperta archeologica. A volte è qualcosa di scritto, in cui è tanto riconoscere la nostra calligrafia, e solo quella. Non ci si vede proprio nell'atto di scrivere quanto si è scritto. 

Sono stato proprio io? Domanda che in realtà potrebbe valere per tutti, anche per lo scrittore che oggi pubblica il libro che solo ieri ha scritto. Ma da cui talvolta discende assai più di una constatazione. 

Come Marguerite Duras in queste pagine, sconcertata da tanto disordine del pensiero e del sentimento da farle provare una sorta di vergogna della letteratura. Ed è vero, questa non è letteratura, questa è vita. Ma vita restituita in tutta la sua intensità.

Pochi libri come Il dolore (Feltrinelli) raccontano le lacerazioni e le paure della guerra, pochi libri sono così chirurgici nel dissezionare ciò che gli uomini sono e diventano nelle strozzature della storia. 

Parigi, tra il 1944 e il 1945. Marguerite Duras milita nella Resistenza, i tedeschi le hanno strappato il marito. Prigioniero in un campo di concentramento, di lui non si sa più niente. Forse è già morto, forse quel forse non ha più senso, ogni giorno ha meno senso. Cos'è l'attesa di un ritorno? Come è piangere un morto sena tomba? 

Troppo, c'è troppo in queste parole. La sofferenza intima e solitaria nella tragedia collettiva - Accadono più cose nella nostra testa che nelle strade tedesche - e poi il ritorno che non è mai ritorno, il futuro che per alcuni più che per altri è terra straniera, il male che contagia anche chi si schiera dalla parte giusta, il barlume di umanità che a volte si riesce a scorgere persino nel delatore della Gestapo..... Troppo e anche troppo scomodo, persino crudele. 

Eppure è così che la parola si fa memoria, passione, quindi vita. E in quanto tale grande letteratura.


venerdì 6 dicembre 2019

Viaggio nei cimiteri, tra sospiri e piccoli miracoli (più uno grande)

"C'è sempre polvere".
"Nel senso che polvere siamo e polvere ritorneremo?".
"Anche. Non sei mai pronto per partire. Per quanto ti prepari non è mai tutto a posto, alla perfezione. In ordine, come avrebbe detto mio papà. Un po' di polvere la lasci sempre in un angolo della tua vita".

Polvere siamo, polvere torneremo, ma qualcosa dietro di noi lasceremo comunque, non fosse altro che un po' di polvere di cui scusarsi. E forse saremo lapide, lettere incise su una pietra, luogo che i vivi custodiranno: tutto a loro vantaggio, perché forse all'ombra de' cipressi e dentro l'urne confortate di pianto, per dirla con Foscolo, il sonno della morte non sarà meno duro.

Non ho pulsioni buone per un romanzo gotico, però mi piacciono i cimiteri, soprattutto i cimiteri monumentali - si tratti del Pére-Lachaise a Parigi come dell'Acattolico di Roma. Amo i silenzi dei cimiteri di campagna. Trovo congeniale la poesia sepolcrale del romanticismo inglese. Incontro una singolare sensazione di pace nei sacrari di guerra. Tutto questo per dire che mi sono trovato particolarmente a mio agio nella lettura di Scusate la polvere. Cimiteri, sospiri e piccoli miracoli di Paolo Patui, uscito per Bottega Errante.

E' un libro stralunato, divagante, a suo modo tenero e dissacrante. Romanzo, in primo luogo, ma anche guida sentimentale, che lega insieme tanti luoghi deputati all'ultimo riposo. Dento c'è un io narrante che con le grandi questioni della vita e della morte ha i suoi problemi, ne farebbe anche a meno se un giorno non si smarrisse dentro il cimitero monumentale di Udine. Intorno a lui diversi personaggi assai particolari, a partire da un improbabile custode del camposanto e da una studentessa dark. 

Da Udine comincia il viaggio, a Udine finisce, ma quante tombe ci sono in mezzo, quanti personaggi dimenticati. E quante storie, una tira l'altra come le ciliegie.  Sospiri, certo, ma anche piccoli miracoli. Più un miracolo grande, ma grande davvero: il regalo della leggerezza, la sopresa della semplicità. Cimitero, l'etimologia insegna,  è parola che deriva da un verbo greco, significa mettere a giacere. Questo e nulla più, riposare.

Leggerezza, semplicità:  e un libro che si annunciava impastato di dolore ecco che ci dispone al sorriso.




venerdì 11 gennaio 2019

Shakespeare & Co, a Parigi una libreria come una casa

Era un'altra America, era un'altra Europa. Su questa sponda dell'oceano le intemperanze e le sperimentazioni di inizio secolo avevano lasciato il posto al mattatoio della Grande Guerra, sull'altra erano gli anni del proibizionismo e di una generazione di scrittori che beveva troppo e che ancora non aveva capito il suo posto al mondo.

Parigi però era sempre Parigi ed è in questa città, porto franco di artisti e di sogni, che un giorno sbarcò una giovane americana di Baltimora. Si chiamava Sylvia Beach, era sui trent'anni e non aveva le idee chiare: aveva accarezzato l'idea di aprire una libreria francese a New York, ora voleva provarci con una libreria americana a Parigi. Se non altro a Parigi, chi l'avrebbe detto, tutto costava decisamente meno, era un  posto dove se la cavavano anche i più spiantati degli scrittori.

Così nasceva una libreria che ancora oggi è un mito, la Shakespeare and Company (da non confondere con un'analoga libreria che, nel secondo dopoguerra, diventerà riferimento dei poeti beat e di tante altre inquietudini). Chi non la ha mai sentita nominare?

Shakespeare and Company ora è anche il titolo delle memorie di Sylvia Beach che Neri Pozza propone ai lettori italiani: un libro che si legge di un fiato, tra sguardi su un mondo che non c'è più e un mondo che in qualche modo si vorrebbe ancora trattenere.

Sono i tempi in cui Fitzgerald ha già dissipato buona parte del suo talento e in cui Hemingway deve ancora dimostrarlo. James Joyce ha lasciato Trieste, spende nei ristoranti come un marinaio ubriaco e fatica a tenere a bada i suoi creditori. Ezra Pound pare più pronto a dimostrare la sua abilità con i lavori di falegnameria che con la poesia. Per tutti la libreria è il luogo dove ritovarsi, magari portandosi via sporte di libri che Sylvia Beach presta spesso senza riaverli indietro. 

E la storia più incredibile, certo, è quello dell'unico libro che la libraia deciderà di editare in proprio: pensate, l'Ulisse di Joyce.

Senz'altro una bella storia, per fantasticare su quanto può mettere in moto anche una piccola libreria. Eppure ripensando a quel posto in rue de l'Odeon è un'altra la cosa che mi viene in mente. La Shakespeare and Company non era solo scaffali con tanti libri. Era quella che gli americani dicono home away from home, casa lontano da casa.

Le vere librerie questo sanno essere. Posti dove ci si sente a casa. Questo libro aiuta a crederci.

lunedì 20 agosto 2018

Corpo, fantasia, mondo aperto: storia del camminare

Esplorare il mondo è uno dei modi migliori per indagare la mente, e il cammino percorre entrambi i terreni.

Lo ho inseguito per anni questo libro che molti citavano, senza riuscire a recuperarlo nemmeno in qualche bancarella dell'usato. Però non ho perso tempo quando il Ponte alle Grazie, pochi mesi fa, ne ha proposto una nuova edizione. E non mi ha deluso Storia del camminare di Rebecca Solnit - come a volte succede per ciò che più si è fatto attendere. E' un libro che consiglio, un libro che mi terrò vicino. 

Ambizioso fin dal titolo, ma senza la pesantezza del saggio che intende proporsi come esaustivo e conclusivo. Denso, a volte di lettura non semplice, eppure capace di destare quella curiosità che accomuna il letttore al camminatore.

Tra le sue pagine vien da perdersi, non diversamente dal flâneur di Charles Baudelaire nelle vie della sua Parigi. E sotto i ragionamenti, oltre i ragionamenti, si avverte un intero mondo che si apre, con la sua vita e il suo mistero. Per saperne di più non c'è altro che uscire di casa e mettersi in cammino.

Dai passi nei giardini cinti da mura ai passi nelle campagne finalmente sicure, dalla scoperta del paesaggio alle scalate delle montagne. E ancora, il camminare in città, in solitudine e in compagnia, per diletto e per protesta, di giorno e di notte. E il modo con cui questa azione, che pare così naturale, si è incrociata con la lotta di classe, con le diseguaglianze di genere, con le battaglie per i diritti civili. E i poeti, gli artisti, gli alpinisti.

Quante cose dentro questo libro. Quante cose dentro i cammini: un modo, certo non il peggiore, per raccontare la nostra storia, per immaginare il nostro futuro. 

Camminare - sottolinea la Solnit alla fine della sua fatica - è una delle costellazioni del cielo stellato della cultura umana, una costellazione formata da tre stelle: il corpo, la fantasia e il mondo aperto.

E le costellazioni non sono linee disegnate nel cielo: siamo noi a tracciarle con i nostri occhi.  Finchè avremo sentieri, finchè avremo buone gambe e voglia di guardare. 

domenica 20 maggio 2018

In un'isola greca, perché arenarsi è un'arte

Ci sono libri che ti regalano l'emozione del viaggio anche quando non riguardano posti che solleticano la tua voglia di partire, perché sanno farsi luogo dell'anima a prescindere. E così è per le isole della Grecia che scopro nelle pagine di Paolo Ganz: è dai tempi dell'università che non cerco un volo o un traghetto per raggiungerle, quando qualcuno ne parla provo a esercitare l'arte del distacco, eppure cosa può fare un libro, un bel libro.

E questo è La Grecia di isola in isola di Paolo Ganz (Ediciclo), un libro bello, un libro che sa di Mediterraneo e che del Mediterraneo porta il vento, gli odori, il rumore della risacca, soprattutto la luce. Un libro che va oltre i luoghi comuni, i resoconti da supplemento viaggi di quotidiano, la facile seduzione per adescare gli eserciti di vacanzieri.

Qui c'è molto altro, c'è la Grecia di un viaggiatore vero, c'è la parola meditata su libri importanti, colta sulla linea dell'orizzonte o tra le voce di una caffetteria, filtrata e fermata su un taccuino. Parole che rimandano a letture, a miti, a pensieri. E che dilagano fino a tornare alle sorgenti della nostra civiltà o a interrogarsi su ciò che può essere l'Europa oggi, un'Europa che non necessariamente è quella che si ha per la testa Berlino o Parigi: perché questo è il Mediterraneo, il mare che va in Africa.

Da  Rodi, con la sua storia così intrecciata alla nostra, a Megisti, che non è solo il set di uno dei film più fortunati del cinema italiano. Da Corfù, per alcuni studiosi dell'Odissea la terra dei Feaci, fino a Matala, la spiaggia di Creta che non è più degli hippie ma dove ancora sembra risuoni una canzone di Joni Mitchell.

Paolo Ganz salta di isola in isola e ovunque ci sono storie e oltre le storie c'è una storia che scava dentro e riguarda tutti: perché arrivare e partire, di isola in isola, in fondo riguarda tutti.

Arenarsi è un arte - spiega a un certo punto Paolo - un dono di pochi capaci di lasciarsi andare all'agrodolce piacere di non riuscire più a salpare.

Ecco, in queste pagine vien voglia di essere una di quelle barche, che si arrendono al fondale e al destino. Senza partire più, per un pezzo almeno. Stranieri e cittadini in una di queste isole: con un canto di Omero e un bicchiere di ouzo a tenere compagnia. 

lunedì 25 settembre 2017

Zweig e Roth, in fuga nell'estate dell'amicizia

Adesso sono persone in fuga attorniate da un mondo in vacanza.

Ostenda, Belgio, estate del 1936. In questa località balneare del Mare del Nord - e so che può destare qualche perplessità la definizione di località balneare - ci sono persone che non sono in villeggiatura. Non lasciatevi ingannare dalla risacca del mare e dalle cabine colorate. Malgrado le chiacchiere al bistrot e le passeggiate sul lungomare questa non è una vacanza, ma un esilio. Il punto di arrivo - o la tappa intermedia - di una fuga dalla Germania nazista.

Quanti personaggi, in questa folla in cui sè facile intrecciare amori e bevute. Ma oltre lo champagne e i capricci della varia umanità ci sono loro, Stefan Zweig e Joseph Roth, scrittori tra i più grandi della prima metà del Novecento. Ebrei entrambi ed entrambi in fuga, ma quanto diversi.

Zweig, ovvero il successo letterario e la capacità di stare al mondo, anzi di stare nel bel mondo. Bestseller, conti in banca, leggerezza delle relazioni, senso della possibilità: la Vienna che balla il valzer sul ciglio del precipizio. 

Roth, un successo che ancora non gli arride, il denaro preso in prestito e scialacquato, l'alcol ingurgitato a farsi male, il cuore che è un magazzino di rimpianti e di rancori: Leopoli e quella terra dell'yddish e dei villaggi ebrei che è già nostalgia, prima che gli assassini di Hitler lo spazzino via.

Persone diverse, parabole diverse, ma ora accomunate dal bando nazista e dalla condizione di esuli: a Ostenda rinnovano la loro amicizia, che per le singolari traiettorie della vita si protrae ormai da una decina di anni.

Eccoli. Stefan che guarda il mare e non trova più le parole per le sue pagine. E Joseph, con la tristezza negli occhi e nessuna voglia di rinfacciare a Stefan che sulla Germania aveva avuto ragione lui, già a suo tempo:  La Germania è morta. È stata solo un sogno, apra gli occhi, la prego. Stefan, che di lì a qualche anno scapperà in Brasile e lì si ammazzerà insieme alla seconda moglie. Joseph, che morirà alcolizzato a Parigi  prima dell'arrivo dei nazisti, santo bevitore che solo l'arte riscatterà.

Cos'è Ostenda? Un respiro, una sbronza, un bivio. L'attimo prima del pronti, attenti, via. L'illusione di un altro copione. E' le pagine di questo libro  - L'estate dell'amicizia di Volker Weidermann (Neri Pozza) - che sono storia, sono letteratura, sono vita e sono la scia che ne rimane.


lunedì 28 novembre 2016

Se uno come Samuel Beckett alleva api a Parigi

C'è qualcosa di inquietante nel frequentare Beckett e nel constatare che è una persona normale.

Ci sono molto modi di leggere e considerare L'apicoltura secondo Samuel Beckett dello scrittore francese Martin Page (Edizioni Clichy), libro di poche pagine e concentrato di umori,spunti, emozioni: romanzo imperniato sul consueto pretesto del manoscritto ritrovato, finto diario con grandi  iniezioni di verità, divertimento letterario, vagabondaggio per Parigi, riflessione sulla fama che la scrittura può dare, riflettore acceso sugli ultimi anni di vita del grande scrittore irlandese.

Insomma, c'è un giovane studente che per qualche tempo viene assunto da Beckett per aiutarlo a sistemare i suoi documenti. Ed è questo giovane - ancora sul ciglio di una vita da costruire dopo la laurea - che racconta lo straordinario tempo trascorso in compagnia dell'autore di Aspettando Godot. Il quale è assai diverso da come ce lo aspettiamo: divertente, bizzoso, irriverente, più desideroso di sfornare dolci che di parlare di letteratura, scrupoloso nell'allevare api capaci di produrre miele a volontà nel centro di Parigi (Questo lo aveva spinto a guardare Parigi con occhi diversi e ad accorgersi che c'erano fiori e piante dappertutto).

Si sorride, si riflette, ci si abbandona, tra le pagine di questo libro. Come quando Beckett e il suo assistente si lanciano negli acquisti di oggetti improbabili da affidare agli archivi dello scrittore, a futura memoria (Bisogna prendere gli archivi come una finzione costruita da uno scrittore e non come la verità. E cosa ci dice questa finzione? Questo è il vero compito dei ricercatori). O come quando in un carcere svedese i detenuti mettono in scena Aspettando Godot, con notevoli conseguenze.

Già si sorride, si riflette, ci si abbandona tra le pagine di questo libro. E io lo consiglio fortemente.

venerdì 5 agosto 2016

Quel circolo al bar nella Parigi di Sartre

Loro erano programmati per odiarsi e distruggersi e invece erano caduti l'uno nelle braccia dell'altro. Era bello sentire il proprio patronimico. In Francia, si aveva soltanto un nome. Di colpo, un poco dell'odore, della musica e della luce del loro Paese tornava, anche se l'uno era un russo bianco, ortodosso praticante, antisemita e misogino, che odiava i comunisti, e l'altro un ex nemico, un rosso fervente, convinto ed entusiasta, che aveva partecipato all'instaurazione del comunismo. Quel tipo di differenze, che vi facevano sbuzzare quando eravate al paesello, lì sparivano. Soprattutto se si trattava di due russi insonni.

Diffidavo di questo libro, diffidavo come mi capita di diffidare dei libri pompati da centinaia di migliaia di copie già vendute altrove, con tanto di premi - in questo caso nientemeno che il Goncourt - accaparrati con incontenibile voracità.

Se ho finito per comprarlo, Il club degli incorreggibili ottimisti di Jean Michel Guenassia (Salani), mi sa che è solo per la copertina, bellissima, per questa immagine che evoca tutto un mondo e un'epoca, la Parigi della rive gauche, i bistrot e i pernod, le appartenenze ideologiche e gli sradicamenti del mal di vivere, discussioni tirate fino all'alba, poesia, volute di fumo.

E non sarà un capolavoro, ma questa Parigi c'è tutta, Jean Paul Sartre compreso. E in questa Parigi c'è un bel pezzo di mondo. In particolare il mondo degli esuli, vite sottratte a dittature e offese varie, sospinte verso la Francia come i relitti di un naufragio.

Esilio come rinascita, esilio come incapacità di riannodare i fili dell'esistenza. Esilio ed esili, le molte storie che si intrecciano in uno di quei locali dove la Storia si riduce a una partita di biliardo, a un litigio inconcludente, a un gruppo di uomini che a notte fonda cercano di ritrovare la via di casa, se casa c'è.

giovedì 7 aprile 2016

Quelle statuine che raccontano la storia di una famiglia

Le eredità non sono mai banali. Che cosa viene ricordato e cosa dimenticato, nel passaggio? L'oblio può perpetuarsi, i possessori d'un tempo esser via via cancellati, ma può verificarsi l'opposto, una lenta accumulazione di storie. Che cosa mi viene tramandato insieme a questi piccoli oggetti giapponesi?

Può succedere: viene a mancare un parente più o meno lontano, vi ritrovate in casa un oggetto o più oggetti che prima forse non avevate mai visto, o avevate guardato solo con sufficienza e distrazione. Cose che erano mute e che ora cominciano in qualche modo a parlarvi. C'è perlomeno una vita, quella del parente defunto, che in qualche modo viene richiamata. Ma cos'altro c'è dietro?

Figurarsi se non è solo un oggetto che arriva nelle vostre mani, ma un'incredibile collezione di antiche statuine giapponesi, non più grandi di una scatola di fiammiferi, raffiguranti divinità, animali, personaggi di ogni tipo. Figurarsi se attraverso di esse si può ripercorrere la storia non solo di un vecchio eccentrico zio che ha vissuto in un altro paese, ma le vicende di un'intera famiglia.

E' quello che viene splendidamente raccontato in Un'eredità di avorio e ambra di Edmund de Waal (Bollati Boringhieri), libro straordinario, le cui 400 pagine ho divorato nel corso di un viaggio - andata e ritorno - tra Firenze e Bari. Pensare che qualche mio conoscente l'aveva trovato un po' faticoso, forse prolisso....

Niente di tutto questo. Verrebbe da dire che questa è una saga famigliare come solo i grandi romanzi. Generazione dopo generazione, in effetti, si srotola la storia della famiglia Ephrussi, ebrei di Odessa che con il commercio di cereali sono diventati tra i più potenti banchieri d'Europa. Formidabile l'ascesa: favolose residenze a Parigi e Vienna, il titolo di baroni, la migliore arte dell'Ottocento, Degas e Renoir compresi, che entra nei loro salotti. Affari, mecenatisimo e conversazioni con Proust. Formidabile l'ascesa e spaventosa la caduta, con Hitler e le leggi razziali.

Anche solo per questo un libro da raccomandare. Eppure al centro della vicenda, vera spina dorsale della narrazione, non sono le vite degli Ephrussi, ma quelle statuine giapponesi, che passano di mano in mano, cambiano città e collocazione, accumulano ricordi.

Io - dice nelle prime pagine l'autore - voglio scoprire quale rapporto ha legato questo oggetto di legno che mi sto rigirando tra le dita - duro, semplice solo all'apparenza, giapponese - ai luoghi che ha attraversato.

Anche questo un viaggio. E un viaggio, davvero, con occhi nuovi.

venerdì 9 ottobre 2015

A Parigi, una mattina di inverno in libreria

Mettete Parigi una mattina di inverno. Mettete un incontro casuale con un grande poeta che si è scordato i soldi per pagare il barbiere. Mettete una piccola libreria gonfia di libri di ogni età e genere, con un libraio che deve provare una grande sofferenza solo all'idea di separarsi da un titolo.

Tutto qui. Bastano questi ingredienti - e una manciata di pagine - per regalarci uno straordinario atto di amore. Per la cultura, per i libri, ma anche per la possibilità di costruire ponti con le parole, di riconoscere una comune umanità attraverso le pagine scritte.

E' questo, soprattutto questo, Una mattina in libreria. Incontro con Rilke di Carl Jacob Burckhardt (Bompiani). La storia di un incontro tra una grande poeta, Rainer Maria Rilke, e un grande libraio, Lucien Herr. Due uomini che hanno modo di  trovarsi l'uno di fronte all'altro solo al tramonto delle loro vite, ormai malati. Ma che con uno sguardo e poche parole si riconoscono fratelli nella cultura, prima ancora di presentarsi. A volte non c'è proprio bisogno del nome.

E quelle ore trascorse quasi senza accorgersene, in mezzo ai libri. Quel fastidio per un cliente che è appena entrato e rischia di interrompere la loro conversazione. Quel mondo che è diverso e si fa migliore, grazie al loro riconoscersi.

Da leggere anche per la magnifica introduzione di Antonio Gnoli - in realtà più lunga dello stesso testo di Burckhardt. Con quell'attacco che è già dalle parti della poesia:

Ci sono storie di uomini e di città che si corrispondono. Immerse in una luce che il buio divora, devono dissolversi per essere amate. Ci sono storie in cui la cattiva reputazione del mondo non inquina la delicatezza dell'aria in cui si svolgono.

lunedì 17 agosto 2015

Limonov, poeta e teppista nella Russia di Putin

E' stato poeta e teppista, maggiordomo e delinquente. E' passato dalle peggiori periferie dell'Unione Sovietica alla scena underground di New York, dai salotti francesi alle prigioni russe. Negli anni ha goduto di effimere fortune che ha fatto di tutto per rovinare. Nelle guerre dei Balcani si è schierato con il peggio, con quale consapevolezza non si sa. In Russia ha provato in ogni modo a sovvertire il nuovo che avanzava, inventandosi un partito nazionalbolscevico da far rabbrividire.

Ma si può raccontare davvero un uomo così? Risposta affermativa: sì, se sei Emmanuel Carrère, scrittore che sa cibarsi della verità della vita per tradurla in romanzi che non riesci a mollare.

E si può addirittura innamorarci, di un uomo così? Domanda più complessa, ma risposta ancora affermativa: sì, si può, e non solo grazie alla penna di Emmanuel Carrère, capace di donarci un personaggio da romanzo di altri tempi. Il fatto è che Limonov - questo il suo nome e allo stesso tempo il titolo del romanzo - è così vero che sembra fatto apposta per un romanzo. O al contrario così romanzesco che fa bene scoprire che abbia fatto irruzione nella vita vera e ci sia rimasto. 

 Limonov, concentrato di pensieri sbagliati, azioni deprecabili, eccessi di ogni tipo. Ma anche uomo che si è messo in gioco, con coraggio, pagando sulla sua pelle. Uomo di passioni e, bene o male, di visioni. E' caduto, si è alzato, è caduto di nuovo: grande soprattutto nelle sconfitte. Concentrato di vita, anzi, di vitalità. E anche di possibilità, quasi sempre sprecate.

Ha incrociato la storia, ha provato a non farsi trascinare. Nostalgico di un'Unione Sovietica a cui è sopravvissuto contro ogni pronostico: senza l'aura del dissidente, ma piuttosto con i segni del deliquentello di provincia. Hooligan ai tempi di Breznev, scrittore da scandalo in altri tempi - un suo titolo: Il poeta russo preferisce i grandi negri. Punk - o qualcosa del genere - nella Russia di Vladimir Putin - non a caso ha eletto a suo eroe uno come Johnny Rotten. Mistico - o qualcosa del genere - nelle steppe dell'Asia centrale o negli spazi angusti di una prigione.

Anna Politovskaja di lui aveva capito più degli altri. In fondo se lo era trovato a fianco, prima di essere fatta fuori, nelle battaglie dei pochi per dare diritto di pensiero e di opinione a tutti in una Russia ubriaca di facili ricchezze.

E noi, noi possiamo immergerci nella singolare grandezza di Limonov. Perdonargli ciò che possiamo perdonargli, come faremmo con un poeta di avangua
rdia o con un cantante punk che troppe volte ha camminato rasente alla morte.

Forse farselo addirittura amico.





giovedì 13 agosto 2015

Tutto un mondo in un bistrot di Parigi


Diffidavo di questo libro, diffidavo come mi capita di diffidare dei libri pompati da centinaia di migliaia di copie già vendute altrove, con tanto di premi - in questo caso nientemeno che il Goncourt - accaparrati con incontenibile voracità.

Se ho finito per comprarlo, Il club degli incorreggibili ottimisti di Jean Michel Guenassia, mi sa che è solo per la copertina, bellissima, per questa immagine che evoca tutto un mondo e un'epoca, la Parigi della rive gauche, i bistrot e i pernod, le appartenenze ideologiche e gli sradicamenti del mal di vivere, discussioni tirate fino all'alba, poesia, volute di fumo.

E non sarà un capolavoro, ma questa Parigi c'è tutta, Jean Paul Sartre compreso. E in questa Parigi c'è un bel pezzo di mondo. In particolare il mondo degli esuli, vite sottratte a dittature e offese varie, sospinte verso la Francia come i relitti di un naufragio.

Esilio come rinascita, esilio come incapacità di riannodare i fili dell'esistenza. Esilio ed esili, le molte storie che si intrecciano in uno di quei locali dove la Storia si riduce a una partita di biliardo, a un litigio inconcludente, a un gruppo di uomini che a notte fonda cercano di ritrovare la via di casa, se casa c'è.

lunedì 20 luglio 2015

Nell'enigma di Charles Baudelaire

Qualunque sia il luogo, qualunque sia la condizione, c'è sempre un "altro" luogo, c'è sempre un'"altra" condizione che si sono perduti per sempre. Nessuna infelicità può misurarsi con questa, che è la pura constatazione di un'assenza.

Ecco, sono parole come queste che forse colgono il cuore stesso di ciò che è stato Charles Baudelaire.  Un uomo che è un sogno, un enigma, una tentazione. Una possibilità di riscatto della bellezza e un destino segnato.

Non so se ne ho capito di più, dopo aver letto La Folie Baudelaire di Roberto Calasso (Adelphi): libro impervio, ostico, affascinante. Libro che mille volte vorresti mollare e altrettante volte ti entra dentro con la sciabolata di un'emozione.

C'è dentro un sogno raccontato da Baudelaire. C'è la vita di un uomo che fu impavido sostenitore del diritto irrinunciabile di contraddirsi, che si teneva stretta l'arte per non arrendersi alla verità, che si rivolgeva alla madre come a un amante e che dedicava le sue poesie a una puttana da cinque franchi, che aborriva coloro che intendevano spiegare....

E ci sono molti quadri. C'è una città come Parigi che non è solo una capitale. C'è un tempo, che è la modernità, e che ci interroga su cosa sia il nostro, di tempo..... C'è troppo, forse. 

venerdì 19 dicembre 2014

Il povero e prezioso segreto di Dora


Da quel giorno la Parigi in cui ho tentato di ritrovare le sue tracce è rimasta deserta e silenziosa come allora.

Cammino per strade vuote. Per me restano tali anche la sera, nell'ora di punta, quando la gente si accalca agli ingressi del metro. 

Non posso fare a meno di pensare a lei e di sentire un'eco della sua presenza in certi quartieri. L'altra sera, mi è successo vicino alla gare du Nord.

Ignorerò per sempre come passava le giornate, dove si nascondeva, in compagnia di chi si trovava durante l'inverno della sua prima fuga e nelle poche settimane di quella primavera in cui scappò di nuovo. E' il suo segreto.

Povero e prezioso segreto che i carnefici, le ordinanze, le autorità cosiddette d'occupazione, il Deposito, le caserme, i campi, la Storia, il tempo - tutto ciò che insozza e distrugge - non sono riuscite a rubarle.

(Patrick Modiano, Dora Bruder, Guanda)

sabato 11 ottobre 2014

Modiano, dalle vecchie foto le possibilità della memoria

Patrick Modiano è uno scrittore della memoria come dicono i giudici del Nobel, ma di una memoria che non è la sua.

Da mezzo secolo si aggira nella sua Parigi alla ricerca di ricordi che non gli appartengono, servendosi di vecchie fotografie sfuocate, troppo bianche o troppo nere, di numeri civici in apparenza senza storia, di elenchi del telefono in disuso, di facce di uomini e donne sospette, di una toponomastica municipale superata, per tratteggiare più che ricostruire un passato precedente alla sua nascita.

Precedente di poco perché Modiano è stato concepito nel '44, in un appartamento del numero 15, Quai de Conti, sulla Riva sinistra della Senna, e nel '45, quando è nato, era appena finito il periodo che l'ossessiona ancora a quasi settant'anni, quello dell'occupazione e del collaborazionismo con gli invasori nazisti.

Quel periodo è come un labirinto di nome Parigi in cui Modiano si addentra per afferrare i fili di esistenze legate alla sua e sempre rimaste nebbiose.

(Bernardo Valli, Il Nobel che cerca i ricordi degli altri, da Repubblica)

lunedì 18 novembre 2013

Se la narrativa ha traslocato dalle grandi città

La verità è che negli ultimi anni le metropoli sono state sempre meno dei luoghi d'esperienza. Ridotte a centri amministrativi o di potere, a mete di shopping o residenze per ricchi (per non parlare dei musei a cielo aperto cui si vorrebbero ridotte tante nostre città), costose e poco inclusive, nei propri luoghi simbolo offrono assai di meno quelle occasioni d'avventura e di incontro (tra diversi) che davano sale alle grandi narrazioni.

Questa è la risposta che si dà Nicola Lagioia, in un bel paginone centrale di Repubblica, a sua firma, di qualche tempo fa (La caduta di Metropolis), in cui  si pone la questione della perdita di centralità della grande città nella letteratura contemporanea.

Bella questione e mutamento di scenari che non avevo colto completamente, anche se la realtà come sempre è più articolata: il fascino della provincia non è solo di oggi (non scrive da oggi Philip Roth, con la sua Newark che è un altro mondo rispetto a New York) e comunque c'è ancora tanta narrativa che vive grazie alla linfa vitale di metropoli come Berlino, Londra, Parigi, Barcellona.

Eppure è vero - come è vero che anche in Italia da anni c'è più provincia che Milano o Roma - è vero che Londra non più la Londra di Dickens, che Parigi non è più la Parigi di Proust e Balzac.

E sarà che la grande città ha perso diverse delle sue attrattive, sarà che sono altri i luoghi di vita e di lavoro cui si aspira nel nostro immaginario. Però mi piace, mi piace pensare che in questo modo il mondo si sia fatto più largo e che la letteratura sia stata brava ad abitarlo.


venerdì 18 ottobre 2013

I libri che Antonio Tabucchi cercava

Accadeva spesso che lo scrittore si alzasse all'improvviso per pescare un libro dagli scaffali, aprirlo e leggere a voce alta dieci versi.

A volte cercava, o mi chiedeva di cercare, un volume che non c'era, gli dicevo: non c'è, e lui: cerca bene; ma non c'era davvero, perché l'officina di Tabucchi era un'officina mobile, divisa fra Vecchiano, Parigi, Lisbona. I libri si muovevano insieme a lui, lo precedevano o seguivano negli spostamenti, e così poteva capitare che se ne perdessero le tracce.

Una mattina, sul tavolo della cucina a Vecchiano, ho trovato un post-it con la domanda "Dov'è Cèline?". Doveva ricordarsi di chiedere alla moglie, la Zè, in quale biblioteca fosse. 

Lì per lì, mi era sembrata una domanda più astratta, quasi un'invocazione. Simile a quella che anch'io, e con me molti suoi amici e i suoi lettori, mi ripeto spesso: "Dov'è Tabucchi?".

Domattina la segnerò su un post-it giallo, e aspetterò la risposta.

(Paolo di Paolo, da Nell'officina della malinconia, Il Sole 24 Ore)

martedì 15 ottobre 2013

Quando Proust e Joyce confessarono di non essersi letti

Pare che almeno una volta i due mostri sacri della letteratura del Novecento - Marcel Proust e James Joyce - si siano incontrati. Accadde a Parigi, all'Hotel Majestic, il 19 maggio 1922. Dai due non c'era da aspettarsi molto, visto l'allergia di Proust alle uscite in società e la riluttanza di Joyce alle buone maniere.

Niente mi diverte meno di ciò che, vent'anni fa, veniva chiamnato esclusivo, affermava Proust. Non riesco a trovare il mio posto nell'ordine sociale se non come vagabondo, proclamava Joyce.

E l'incontro? Se possiamo prestare fede a un terzo scrittore, Ford Madox Ford, è così che andò:

Proust: Come dico, monsieur, in Dalla parte di Swann, che senza dubbio avrete...
Joyce: No, monsieur.
(pausa)
Joyce: Come il signor Bloom dice nel mio Ulisse, che voi, monsieur, avrete senza dubbio letto....
Proust: A die il vero, no, monsieur.
(pausa)

E per ulteriori informazioni, sul contesto e sull'epilogo, c'è un libro che vi raccomando davvero, un regalo di 101 incontri straordinari: One on One di Craig Brown (edizioni Clichy). Consigliato, davvero. 

mercoledì 12 giugno 2013

E io, oscuro viaggiatore, percorrendo le rotte dimenticare delle navi che portavano i grandi della Grecia e dell'Italia, andavo in cerca delle muse nel loro paese, ma io non sono Virgilio, e gli dèi non abitano più l'Olimpo.

(Francois-Auguste de Chateaubriand, Itinerario da Parigi a Gerusalemme, 1811)

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...