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sabato 30 gennaio 2016

Nel cuore dell'America, dove si inventa la storia

Come argomento lo attraeva soprattutto la storia, perché nella storia c'è sempre qualcosa di sbagliato.

E' solo una frase, tra le tante in cui mi sono soffermato in questo libro che è come un fiume in piena di dialoghi incalzanti e frasi taglienti come se fossero state incise con un bisturi nel corpo vivo degli eventi. Solo una frase, ma dice già molto dell'atmosfera che si respira accettando la sfida che Gore Vidal lancia con L'Età dell'oro (Fazi editore).

Romanzo sulla storia degli Stati Uniti tra il 1939 e il 1954, dalla seconda guerra mondiale alla guerra di Corea. Ma soprattutto romanzo sul potere, sulla verità del potere, sulle falsificazioni del potere.

Proprio in questi anni gli Stati Uniti si affermano come assoluta potenza mondiale e lo fanno non solo con gli eserciti, anche con la loro economia, con il loro stile di vita. Ma questo non è un romanzo su una nazione, non mette in scena un popolo. Gore Vidal va al cuore dell'America, entra dentro la Casa Bianca, sembra abbia piazzato microfoni ovunque per registrare e svelare.

Questi sono anche gli anni in cui i mass media diventano decisivi, in cui i grandi eventi della politica rispondono a una attenta regia. La politica è sempre più non ciò che si fa o si pensa ma ciò che si riesce a far credere. Ed è in questo contesto che Gore Vidal si muove a suo agio come un pesce in acqua, per raccontare ciò che si vede e soprattutto il modo con cui si fa vedere. I suoi microfoni nelle stanze del potere fanno il resto: e svelano intrighi, ambizioni, debolezze.

Come un entomologo, alle prese con i suoi insetti, Vidal studia, analizza, classifica. Eppure senza il distacco che attribuiamo all'entomologo. Lui la pensa come Tolstoi: La storia sarebbe una gran bella cosa, se solo fosse vera. Solo che ci si può appassionare, al gioco della verità. E non smettere più.

martedì 7 agosto 2012

Gore Vidal, che se n'è andato così

Se n'è andato anche Gore Vidal, un altro grande della nostra letteratura, un altro americano capace di raccontarci un mondo lontano e vicino, oltre i sogni di celluloide, oltre i miti duri a morire.

Se n'è andato, mi pare si possa dire, in punta di piedi: cosa che in effetti torna davvero poco con il carattere di un uomo che non fu certo uno scrittore appartato, chiuso nella sua torre d'avorio, piuttosto un personaggio che si faceva ben notare sia a Hollywood che a Washington. Personaggio da film lui stesso, detestato e amato in dosi ugualmente generose, connesso in qualche modo con tutto ciò che per noi per lunghi anni è stata l'America.

Che poi chissà che vuol dire, in punta di piedi, per uno come lui. Aveva 86 anni, era malato. Da tempo non usava più le sue parole come frusta contro l'establishment, contro gli affaristi di ogni risma, contro la politica dove alla fine tutti i gatti sono bigi.

Però forse è l'America che l'ha accompagnato fuori in punta di piedi. La stessa America che per decenni l'ha osannato o insultato, a volte anche trascurato, ma trascurato con quell'indifferenza premeditata e ostentata che alla fine fa più rumore di un Pulitzer.

La notizia sul giornale, un coccodrillo già pronto, un critico letterario invitato a scrivere qualche cartella. Ed è finita.

Anch'io me ne sono accorto solo per caso, recuperando un giornale vecchio di qualche giorno per altri motivi. Buffo, poco tempo fa avevo tirato fuori dallo scaffale L'età dell'oro, un libro di Gore Vidal che sono intenzionato a leggere, prima o poi.

Ha detto, Gore Vidal:


Al contrario di quanti molti credono, la fama letteraria non ha nulla a che vedere con l'eccellenza o con la vera gloria. Per qualunque artista, la fama è la misura di quanto l'agorà trovi interessante la sua ultima opera.

Era passato un certo tempo da quando all'agorà non era stata data in pasto un'ultima opera interessante di Gore Vidal, proprio lui, lo scrittore che con i suoi romanzi ci ha raccontato due secoli di storia di America.

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