Ecco perché noi dobbiamo finire Us, per dimostrare agli adulti che possiamo fare qualcosa di importante, che i videogiochi non sono soltanto una perdita di tempo.
Qualcosa si è spezzato nella vita di Tommaso, 16 anni, che da un giorno all'altro ha abbandonato la scuola, il basket e gli amici. Ora è quello che gli esperti chiamano hikikomori, uno che si è ritirato, che si è messo da parte. Chissà quanti ce ne sono, che come lui si sono sepolti in una camera per incollarsi allo schermo di computer. Presumibile che più o meno sia questa la storia anche di Rin e Hud, i suoi compagni dentro Us, il videogame che è diventato una ragione di vita. Rin e Hud, avatar di persone reali di cui è vietato conoscere persino il nome.
Così comincia Us, l'ultimo libro di Michele Cocchi (Fandango edizioni), di cui ho già avuto modo di apprezzare La casa dei bambini: un'altra storia che parla di noi, del nostro tempo e del significato che a esso possiamo e dobbiamo dare, nel groviglio delle relazioni e delle esperienze.
Sarà per il suo lavoro di psicoterapeuta dell'infanzia e dell'adolescenza, ma Michele ha una rara capacità di assumere il punto di vista dei ragazzi, mettendolo a disposizione di una scrittura intensa, che non perde colpi. E così è, anche questa volta.
Ero approdato su queste pagine come genitore che di sicuro non è un nativo digitale e sa solo prendersela con i guasti che produce il computer. Però poi c'è voluto poco per cambiare prospettiva e far saltare diversi luoghi comuni.
Non sarà che il videogame è ciò che rimane quando la vita ti ha messo da parte? Non sarà che si può cominciare da avatar per ritrovarsi persone?
E che cosa sono davvero le persone (etimologia interessante, tra l'altro, che discende dall'etrusco per maschera)? Che significa essere eroi in un mondo che abusa di questa parola? E la responsabilità, cos'è la responsabilità?
Domande pertinenti anche per un videogioco che a ogni missione ti sbalza in un tempo e in un luogo del Novecento martoriato da guerre e crimini di massa, dall'Etiopia del colonialismo italiano al mattatoio dell'ex-Jugoslavia - ogni missione, in effetti, un romanzo nel romanzo, ad altissima tensione narrativa ed etica.
Un avatar può scegliere? E scegliere per che cosa?
Chissà che non sia un noi collettivo che si fa finalmente strada. Io mi fermo qui, il resto è un romanzo tutto da leggere.
Qualcosa si è spezzato nella vita di Tommaso, 16 anni, che da un giorno all'altro ha abbandonato la scuola, il basket e gli amici. Ora è quello che gli esperti chiamano hikikomori, uno che si è ritirato, che si è messo da parte. Chissà quanti ce ne sono, che come lui si sono sepolti in una camera per incollarsi allo schermo di computer. Presumibile che più o meno sia questa la storia anche di Rin e Hud, i suoi compagni dentro Us, il videogame che è diventato una ragione di vita. Rin e Hud, avatar di persone reali di cui è vietato conoscere persino il nome.
Così comincia Us, l'ultimo libro di Michele Cocchi (Fandango edizioni), di cui ho già avuto modo di apprezzare La casa dei bambini: un'altra storia che parla di noi, del nostro tempo e del significato che a esso possiamo e dobbiamo dare, nel groviglio delle relazioni e delle esperienze.
Sarà per il suo lavoro di psicoterapeuta dell'infanzia e dell'adolescenza, ma Michele ha una rara capacità di assumere il punto di vista dei ragazzi, mettendolo a disposizione di una scrittura intensa, che non perde colpi. E così è, anche questa volta.
Ero approdato su queste pagine come genitore che di sicuro non è un nativo digitale e sa solo prendersela con i guasti che produce il computer. Però poi c'è voluto poco per cambiare prospettiva e far saltare diversi luoghi comuni.
Non sarà che il videogame è ciò che rimane quando la vita ti ha messo da parte? Non sarà che si può cominciare da avatar per ritrovarsi persone?
E che cosa sono davvero le persone (etimologia interessante, tra l'altro, che discende dall'etrusco per maschera)? Che significa essere eroi in un mondo che abusa di questa parola? E la responsabilità, cos'è la responsabilità?
Domande pertinenti anche per un videogioco che a ogni missione ti sbalza in un tempo e in un luogo del Novecento martoriato da guerre e crimini di massa, dall'Etiopia del colonialismo italiano al mattatoio dell'ex-Jugoslavia - ogni missione, in effetti, un romanzo nel romanzo, ad altissima tensione narrativa ed etica.
Un avatar può scegliere? E scegliere per che cosa?
Chissà che non sia un noi collettivo che si fa finalmente strada. Io mi fermo qui, il resto è un romanzo tutto da leggere.
- Io gli Etruschi me li attacco al cazzo. I russi ci porto, altro che gli Etruschi.
E' così che è cominciata.
Originale, curioso, indignato il giusto, a volte divertente, generalmente scritto bene, un po' confuso nella storia e con qualche tassello che sul finire non va al posto giusto, ma tant'è, Come ho perso la guerra (Fandango Libri) di Filippo Bologna, si fa leggere e leggere con piacere.
Storia che arriva dalla Toscana di altri tempi, quando esistevano paesi tagliati fuori da tutto, acque termali senza turisti, fattorie lontani anni luce dall'epoca dell'agriturismo con piscina e massaggi, scodelle di ribollita che si servivano come piatto di contadini, mica come specialità da grand gourmet.
Storia che comincia prima che tutto davvero cominci, con un pezzo di campagna prelevato da un racconto di Fucini e trapianto negli anni della globalizzazione, quando i soldi girano a palate, i russi comprano tutto e la finanza si giustifica con la finanza, mica per come tratta un territorio o un passato.
E poi lo chiamano sviluppo?,domanda che è già un'asserzione, un controcanto, accompagna tutta lo storia raccontata da Bologna. Inventata, ma fino a un certo punto. Inverosimile, ma fino a un certo punto. Forse più digeribile con qualche trovata in meno: ma insomma, si sa, succedono cose dell'altro mondo, ai tempi della globalizzazione. Che ci sia crisi o meno.