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mercoledì 8 luglio 2020

Avatar o persone? "Us" interroga tutti noi

Ecco perché noi dobbiamo finire Us, per dimostrare agli adulti che possiamo fare qualcosa di importante, che i videogiochi non sono soltanto una perdita di tempo.

Qualcosa si è spezzato nella vita di Tommaso, 16 anni, che da un giorno all'altro ha abbandonato la scuola, il basket e gli amici. Ora è quello che gli esperti chiamano hikikomori, uno che si è ritirato, che si è messo da parte. Chissà quanti ce ne sono, che come lui si sono sepolti in una camera per incollarsi allo schermo di computer. Presumibile che più o meno sia questa la storia anche di Rin e Hud, i suoi compagni dentro Us, il videogame che è diventato una ragione di vita. Rin e Hud, avatar di persone reali di cui è vietato conoscere persino il nome.

Così comincia Us, l'ultimo libro di Michele Cocchi (Fandango edizioni), di cui ho già avuto modo di apprezzare La casa dei bambini: un'altra storia che parla di noi, del nostro tempo e del significato che a esso possiamo e dobbiamo dare, nel groviglio delle relazioni e delle esperienze. 

Sarà per il suo lavoro di psicoterapeuta dell'infanzia e dell'adolescenza, ma Michele ha una rara capacità di assumere il punto di vista dei ragazzi, mettendolo a disposizione di una scrittura intensa, che non perde colpi. E così è, anche questa volta. 

Ero approdato su queste pagine come genitore che di sicuro non è un nativo digitale e sa solo prendersela con i guasti che produce il computer. Però poi c'è voluto poco per cambiare prospettiva e far saltare diversi luoghi comuni. 

Non sarà che il videogame è ciò che rimane quando la vita ti ha messo da parte? Non sarà che si può cominciare da avatar per ritrovarsi persone? 

E che cosa sono davvero le persone (etimologia interessante, tra l'altro, che discende dall'etrusco per maschera)? Che significa essere eroi in un mondo che abusa di questa parola? E la responsabilità, cos'è la responsabilità? 

Domande pertinenti anche per un videogioco che a ogni missione ti sbalza in un tempo e in un luogo del Novecento martoriato da guerre e crimini di massa, dall'Etiopia del colonialismo italiano al mattatoio dell'ex-Jugoslavia - ogni missione, in effetti, un romanzo nel romanzo, ad altissima tensione narrativa ed etica. 

Un avatar può scegliere? E scegliere per che cosa? 

Chissà che non sia un noi collettivo che si fa finalmente strada. Io mi fermo qui, il resto è un romanzo tutto da leggere.

sabato 11 novembre 2017

Nella casa dei bambini, dove c'è un noi



La fantasia è pericolosa, dicevano nella casa, allontana dalla verità. Invece avevano ragione i bambini, gli incendi c'erano stati, le milizie del governo avevano bruciato le case per frenare la rivolta. Ma loro, chiusi nella Casa, non potevamo saperlo.

Prendete un posto così, che tra queste pagine si chiama Casa dei bambini  ma che verrebbe da chiamare in un altro modo, orfanotrofio e peggio. Sistemateci un gruppo di bambini che per vari motivi di un passato spesso incerto hanno perso i genitori. Pensate ai loro giorni trascorsi con privazioni che diventano abitudine, la fantasia tenuta al guinzaglio e la verità sottratta, perché si reputa pericoloso sapere cosa sta succedendo fuori. E poi provate a riflettere a cosa può significare il mondo oltre quel muro di recinzione, la vita oltre.

E' da questa situazione che parte La casa dei bambini, il romanzo di Michele Cocchi (Fandango Libri), che ho avuto la fortuna di presentare l'altra sera a L'Ora Blu di Firenze e prima ancora di leggere con sorpresa e piacere.

Come succede quando un libro che funziona, c'è buona scrittura senza effetti speciali, c'è buon uso - anzi, cura - della parola. Sarà che Michele Cocchi prima di darsi al romanzo si è misurato con la brevità del racconto e prima ancora con la poesia.

Ma c'è anche complessità che sa farsi semplice. Che è prima di tutto complessità delle emozioni e delle scelte di vita. Perché quella Casa è luogo da cui non si può non voler fuggire, ma anche luogo a cui in qualche maniera i quattro protagonisti della vicenda - Sandro, Nuto, Dino e Giuliano - non riescono e non riusciranno mai davvero a liberarsi. E non lo vorranno, non forse altro che per la forza dei ricordi.

C'è un noi che cresce e dà un senso, dentro quella Casa, nei legami tra quei quattro ragazzi. C'è un noi da cui non si potrà prescinde nemmeno dopo, quando le strade della vita porteranno fuori, verso destini diversi. Magari obbligando a nuove appartenenze, che comunque non avranno mai più la stessa capacità di coinvolgimento:

Avrebbe fatto parte dei ribelli, eppure presagiva che nemmeno questa sarebbe stata una vera famiglia.

E quanto mi viene da pensare a quel noi, quanto ci sarebbe bisogno di ritrovarlo, un noi, nell'epoca che ha sostituito i selfie alle foto di squadra (o di classe). Con la preoccupazione che in realtà possa restare solo una foto, appunto, nell'album dei ricordi.

E per il resto, ecco i dilemmi chiamati in causa dalla fame di verità e di libertà. Ma ecco soprattutto la voglia di narrare - e in certe pagine siamo dalle parti del romanzo di avventure - ecco una narrazione che ha saputo nutrirsi di buone letture - da Romano Bilenchi a Italo Calvino - e dell'odore dei nostri boschi, su in montagna.


lunedì 9 marzo 2015

Se hai per nonno uno che si chiama Pavolini

Non sapevo che mio nonno fosse un gerarca fascista fucilato a Dongo e appeso a testa in giù a piazzale Loreto, fino a quando non mi sono imbattuto in una fotografia sul libro di storia della seconda media.

Sono bastate queste prime righe per scaraventarmi dentro Accanto alla tigre (Fandango) di Lorenzo Pavolini: e per cercare di andare dietro, con queste pagine, a un mistero che non appartiene solo alla nostra (peggiore) storia. Appartiene, a pieno titolo, anche al mistero dell'uomo, alla sua capacità di commettere il peggio, alle incalcolabili conseguenze che il male può produrre sulla rete delle relazioni e degli affetti.

Perché questa non è una biografia su Alessandro Pavolini, uomo di spicco nell'Italia di Mussolini, ministro, intellettuale raffinato e capace anche di sorprendenti aperture, che però si farà ricordare solo per ciò che commetterà dopo l'8 settembre: gerarca tra i più spietati, capo delle brigate nere, fanatico deciso a cavalcare la tigre fino all'ultimo, in un'escalation di rappresaglie e altri orrori. Proprio lui, il Pavolini che a Firenze aveva difeso anche scrittori e giornalisti che finiranno presto nel partito comunista e che pure a Firenze si lascerà dietro una terribile striscia di sangue, con i suoi franchi tiratori a sparare sui civili.

Ma non è questo, il libro, questo libro che non può essere una biografia. A scriverlo è un nipote che porta il suo stesso cognome e che non ha mai avuto un nonno ad aspettarlo all'uscita di scuola. Che, anzi, a scuola scopre la foto dei gerarchi appesi a piazzale Loreto e scopre così la storia che in famiglia non gli è mai stata raccontata.

Nel frattempo è diventato uno scrittore, Lorenzo, Vive a Roma, la Roma di oggi divisa tra memoria e amnesia, ma anche comunità lacerata rispetto a un passato mai risolto: la Roma della convivenza multietnica ma anche dei centri sociali di estrema destra.

E il libro è soprattutto questo, il libro di un nipote che si interroga sull'ingombrante eredità del suo cognome. E che per questa strada non si nasconde - e non ci nasconde - a questo nostro presente. 

venerdì 21 settembre 2012

I russi ci porto, altro che gli etruschi

 - Signor Gattai, sono Carlo Benelli, presidente dell'Azienda Promozione Turismo. A quanto mi pare di capire, la sua, nel bene e nel male, è un'ottica prettamente imprenditoriale che non rende giustizia del fenomeno termale nel suo complesso. Le terme, oltre che una risorsa economica, sono in primis un antichissimo patrimonio culturale, antico come antichi sono gli insediamenti umani in questa zona. Basti pensare all'uso che delle terme facevano gli etruschi...
 

- Io gli Etruschi me li attacco al cazzo. I russi ci porto, altro che gli Etruschi.
 

E' così che è cominciata.

Originale, curioso, indignato il giusto, a volte divertente, generalmente scritto bene, un po' confuso nella storia e con qualche tassello che sul finire non va al posto giusto, ma tant'è, Come ho perso la guerra (Fandango Libri) di Filippo Bologna, si fa leggere e leggere con piacere.

Storia che arriva dalla Toscana di altri tempi, quando esistevano paesi tagliati fuori da tutto, acque termali senza turisti, fattorie lontani anni luce dall'epoca dell'agriturismo con piscina e massaggi, scodelle di ribollita che si servivano come piatto di contadini, mica come specialità da grand gourmet.

Storia che comincia prima che tutto davvero cominci, con un pezzo di campagna prelevato da un racconto di Fucini e trapianto negli anni della globalizzazione, quando i soldi girano a palate, i russi comprano tutto e la finanza si giustifica con la finanza, mica per come tratta un territorio o un passato.

E poi lo chiamano sviluppo?,domanda che è già un'asserzione, un controcanto, accompagna tutta lo storia raccontata da Bologna. Inventata, ma fino a un certo punto. Inverosimile, ma fino a un certo punto. Forse più digeribile con qualche trovata in meno: ma insomma, si sa, succedono cose dell'altro mondo, ai tempi della globalizzazione. Che ci sia crisi o meno.

lunedì 5 settembre 2011

"Hai ottenuto una frase meravigliosa - tagliala"

Georges Simenon, uno dei grandissimi della letteratura europea, probabilmente non ha mai avuto bisogno di grandi consigli in relazione alla sua scrittura, eppure anche lui di uno fece tesoro. Glielo regalò Colette, allora caporedattrice della sezione letteraria a Le Matin. E il consiglio in realtà era anche una critica a due racconti che Simenon aveva presentato al giornale:


Sono troppo letterari, sono sempre troppo letterari...

Ma come? Esiste il pericolo di fare troppa letteratura?

Cosa significhi davvero questo consiglio Simenon lo spiega in una straordinaria intervista del 1955 a Carvel Collins, oggi ripubblicata da Fandango in The Paris Review. Interviste. Cosa c'è di troppo letterario?, chiede Collins  (e chiederemmo anche noi) Simenon risponde:

Aggettivi, avverbi, e ogni parola che è lì solo per fare effetto. Ogni frase che è lì solo per la frase. Hai ottenuto una frase meravigliosa - tagliala. Ogni volta che trovo una cosa del genere in uno dei miei romanzi la devo tagliare

Credo di aver capito. Letterario è ciò che appartiene solo alla sfera del bello scrivere. Ciò che non racconta davvero.

Simenone era grande perché in ogni rigo doveva pulsare la storia, la vita. Era grande non per quello che scriveva, ma per quello che riusciva a tagliare.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...