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venerdì 4 settembre 2020

I pensieri che seguono di soppiatto colui che passeggia


"Ho raccolto fiori solo per deporli sulla mia infelicità?" mi domandai, e il mazzolino mi cadde di mano. M'ero alzato per ritornare a casa: era già tardi, e tutto si era fatto buio

Tutto si è fatto buio, eppure sono frasi come queste che illuminano le pagine di Robert Walser, uno dei più grandi scrittori del Novecento europeo, genio e tormento come un altro grande, Dino Campana, a cui lo accomuna lo spirito del vagabondaggio.

Proprio come Dino anche Robert prendeva e partiva, provava a sciogliere nel cammino le sue ansie, Così stemperava l'inquietudine,  calmierava in qualche modo il male di vivere. Era comunque più forte il suo sguardo sulle cose e sulle persone, la sua capacità di incuriosirsi e sorprendersi. I passi erano cura, possibilità, tregua.

Tutto questo ritrovo dentro La passeggiata (Adelphi), testo breve che lascia emozioni durature, metafora di un nomade nella scrittura e nella vita, allo stesso tempo esperienza reale di un uomo che incamminandosi non volta le spalle al labirinto dei suoi giorni ma sa riconoscerlo come casa da abitare. 

Segretamente - dice Robert - ogni sorta di pensieri e d'idee seguono di soppiatto colui che passeggia.

E anche a me viene di seguirlo di soppiatto, in questa passeggiata nei dintorni di una placida cittadina della Svizzera -  tra le mucche e i tetti spioventi - a cercare la sua compagnia mentre si perde e si ritrova, incontra e si incontra.

giovedì 22 agosto 2019

Sei stato felice, ora è tempo di partire

Sei stato felice, vecchio, maledettamente bene in certi giorni, anche.

Succede di chiamarsi vecchio quando hai poco più di vent'anni, età complessa, età di sfide come gran premi della montagna. Succede persino di parlare al passato: e come suona strano, quando quei vent'anni sono davvero passati da un pezzo.

Ma ancora più strano è scrivere un romanzo d'esordio come questo, a poco più di vent'anni. Come a voler dare ragione nei fatti a Italo Calvino: in fondo il primo libro è il solo che conta, forse bisognerebbe scrivere quello e basta.

Beh, meno male che Giovanni Arpino non si è fermato, che ha proseguito con molti altri libri che oggi meriterebbe andarsi a rileggere, uno a uno. Però che libro straordinario è Sei stato felice, Giovanni (ripubblicato da Minimum Fax, postfazione di Gianni Mura), così intenso, così grondante di libertà: forte di un'età acerba che sa ancora voltare le spalle, dire addio, ricominciare da zero. 

Prima di queste pagine c'è Giovanni stesso, la sua vita di ragazzo che è già bracconiere di personaggi, incontrati nei bar e nelle osterie: pittori stravaganti, poeti della Resistenza, giocatori di carte per ammazzare le notti. 

Poi un giorno sente il richiamo del mare e della città di porto. E' il 1950 -  proviamo a immaginarci quell'Italia - è maggio - e maggio sembra fatto apposta per le fughe.

Così arriva a Genova, prende alloggio in una pensioncina di via Pré che è una topaia, col suo asse da stirare come scrivania e le voci sbronze che salgono dal vicolo. E' qui che in tre settimane scrive il suo libro e quante cose ci porta dentro, tra bevute e pasti a uova fritte: le sue letture di Hemingway e Steinbeck, ma anche di Pavese e Moravia, il ventre di Genova con le sue puttane e i suoi contrabbandieri, come in una canzone di De Andrè; i volti incontrati per strada, il piacere della precarietà, la smania di altre città.

Si è laureato con una tesi su Esenin, Giovanni, ama - e si intuisce - Dino Campana: ma ciò che ha dentro è grande come l'America dei sogni. Solo che per l'America bisogna partire e la partenza è sempre una separazione, un distacco.

Potevo dirmi con semplicità, con ordine e calma, tutte le voglie diventate nette e precise nel cuore anche se lontane  e difficili nella speranza. Qualcosa era successo ed era successo bene.

E così è ancora dentro questa vita, ma allo stesso tempo è già un passo avanti. E' già tempo di partire, anche per lui. Ho un sacco di cose da mettere a posto, dice. E vai a sapere dove, non importa. Qua e là. Tante cose.

martedì 26 marzo 2019

Verso il bianco, orme e parole sulla neve

La neve è come l'acqua, penso, ma con una differenza. Sai già che se ne andrà, ma per un momento ti dà la sensa zione di poter restare. Le parole sono come la neve. 

Si comincia appunto con la neve, in uno dei paesi, la Svizzera, che più richiama i paesaggi e i sentimenti della neve. Si comincia con le orme che sulla neve sono state lasciate, 14 orme per 7 passi, e più avanti il corpo di un uomo che è stato uno dei più grandi e sottovalutati scrittori del Novecento europeo. Si comincia, ancora, con l'illusione che quelle orme rimangano, anzi, sollecitino ancora passi che calpestino il nostro cuore. E che anche le parole - sì, le parole - siano orme che resistono, magari più di una manto di neve.

Comincia così uno dei libri più intensi che mi sia capitato in questi anni tra i molti che hanno provato a intrecciare  il mistero della scrittura e il mistero dei luoghi: Verso il bianco di Paolo Miorandi, sottotitolo Diario di viaggio sulle orme di Robert Walser, recente proposta di una casa editrice, Exòrma, che difficilmente sbaglia un colpo.

Si comincia, appunto, da quel giorno di Natale del 1956 in cui Robert Walser viene trovato senza vita su un sentiero di montagna e consegnato allì'immobilità di una foto in bianco e nero scattata da un poliziotto. Ma da lì comincia un viaggio a ritroso, o meglio, cominciano più viaggi: intorno a Herisau, nella Svizzera tedesca dove Walser ha vissuto, in manicomio, i 23 anni conclusivi della sua vita; nelle profondità della sua anima e della sua scrittura che non traccia piste, ma cancella impronte (a proposito di orme); nella nostra stessa intimità, perché è a questo che ci richiamano le pagine di Miorandi, cacciatore di stupori e di malinconia.

Ogni volta lascio che la strada mi guidi verso il punto che il mio occhio ancora non vede, dove il silenzio copre le voci.

Così scrive Miorandi, in questo libro in cui il viaggio si fa poesia, emozione dell'istante e del ricordo. Sollecitandomi, tra l'altro, ai miei ricordi di Dino Campana, altro poeta trascurato in vita e consegnato al manicomio, ma capace di attingere a una sorprendente leggerezza nel cammino. 

Così simili, in fondo. Così indispensabili, Robert e Dino. 

martedì 6 marzo 2018

L'aria ride nelle parole di Marino Magliani

Sto leggendo questo libro. In realtà ho iniziato a leggerlo lo scorso anno a giugno che mi trovavo a Firenze e ho scoperto, non lontano dal mio albergo e dal Duomo, una biblioteca con caffè e il giardino, e negli scaffali il carteggio tra Sibilla e Dino.

Lettere stupende, telefonavo a una cara persona gliene parlavo, ne discutevamo, e tornavo a leggere. Mi incuriosiva di questo legame di cui sapevo poco il peso che i due amanti dovevano sentire, una specie di senso di colpa perché in comune avevano un buon amico: Giovanni Boine.

Lei l'aveva avuto come amante e ne era uscita abbastanza bruciata, un amore breve ma intenso, una pausa in mezzo all'amore per Cascella. Dino Campana doveva invece a Boine la prima vera e immensa recensione apparsa su La Riviera Ligure, quella stupenda rivista curata allora da Mario Novaro e che esce ancora, grazie a Maria Novaro e dalla Fondazione Mario Novaro Onlus. E in un mondo in cui si perdevano i manoscritti di Campana e lo si prendeva poco sul serio, Boine aveva saputo intuirne il genio.

Ora, nel 1916, Boine era prossimo alla fine, malato a fondo, giovane, disperato. E disperato dovevano esserlo anche loro, Campana e Sibilla. Le ultime lettere di Dino sono dal manicomio, lei non gli risponde più. Ricordo bene che leggendo, non mi sentivo di giudicarla, peraltro non giudico in questi casi, ne ho abbastanza dei miei di casi.

Ma lui non era riuscito a contenere le sue furie e non doveva essere stato facile per lei. La sera, dopo un pomeriggio di letture, raggiunsi Paolo Ciampi alla libreria On the road. Non credo che parlammo di quel carteggio e di quell'amore o forse sì. Ma ora mi ritrovo a leggere L'ARIA RIDE (Aska edizioni), e torno in quel caffè, e passeggio per boschi e attraverso torrenti e tocco il muschio e i licheni che hanno toccato loro, Sibilla e Dino, durante quelle loro passeggiate.

E lo raccomando a tutti, è bello, questo libro, pieno di luce e verdura e rumori di frasca e acqua e poesia e baci. E poi, consentitemi, è così bello pensare che non sia stato Dino a raggiungere Sibilla ma dopo averle appunto assicurato che viaggiava lui, ha cambiato idea e ha chiesto a lei di raggiungerlo.

Hai capito, Dino?

Marino Magliani

lunedì 16 novembre 2015

Inseguendo le tracce dei Canti Orfici

E' un libro che insegue un libro straordinario, che ha segnato profondamente la storia della letteratura italiana. E' un libro scritto da uomini che lavorano con i libri e per i libri. Un libro, ancora, realizzato grazie a una scrupolosa ricerca tra archivi e fonti varie, diretto in primo luogo a specialisti e cultori, e che pure sa trasmettere l'amore per la parola stampata sulla carta: anche in quetsi tempi così difficili.

Ma andiamo per ordine. Il titolo dice già molto: L'avventura dei Canti Orfici. Un libro tra storia e mito. E' frutto del lavoro di Roberto Maini e Piero Scapecchi, due bibliotecari di istituzioni quali la Nazionale e la Marucelliana di Firenze. Ma attenzione soprattutto all'editore: è Gonnelli, ovvero la libreria che dal 1875 opera a Firenze, piccolo grande luogo di culto per tutti i bibliofili.

Questo libro, allora, ha radici antiche e nasce, di fatto, il giorno in cui un poeta dal verso sconvolgente e dalle scarpe grosse si presenta all'uscio di un libraio editore che si chiama Ferrante Gonnelli. E' il 1914, il poeta si chiama Dino Campana e pochissimi ne hanno sentito parlare. La Firenze delle riviste futuriste più che altro lo ha sbeffeggiato. E lui ha scritto a Prezzolini: "Ho bisogno di essere stampato: per provarmi che esisto". Ha affidato un manoscritto a Giovanni Papini, che non solo non gli ha fatto avere il suo giudizio: il manoscritto lo ha persino perso.

Per arrivare a stampare i suoi versi ci vuole una sottoscrizione tra gli abitanti di Marradi, il suo paese: in 44 si fanno sotto, quanto basta a un tipografo locale per decidere la pubblicazione, con la carta più povera.

Beh, questo è solo l'inizio. Oggi a distanza di tanti anni i due autori sono andati dietro l'ombra di Dino Campana, cercando le tracce di quella prima incredibile edizione dei Canti Orfici. Chi ancora ne custodisce una copia, le dediche con cui il poetà distribuì i pochi esemplari che certo non lo fecero ricco.

Un lavoro che è un atto di amore. 

 

lunedì 11 febbraio 2013

Quale futuro per il popolo dei poeti

Non c'è più posto, nell'Italia di oggi, per chi voglia scrivere versi? Davvero la poesia è migrata altrove?

Così si interrogò tempo fa un grande poeta come Valerio Magrelli. Per poi snocciolare alcune cifre che, nel bene e nel male, mi hanno decisamente impressionato.

E dunque, si calcola che circa un milione e mezzo di italiani avrebbe composto durante la sua vita almeno una raccolta di versi (tra di essi almeno un giovane su tre nell'età compresa tra i 15 e i 20 anni). Si stima anche che i "poeti praticanti" (non so bene, in effetti, cosa si intenda con questa espressione) siano tra i 15 e i 20 mila. Niente male, no?

E allora, la prima cosa che viene in mente è che è una gran bella cosa, questo esercizio diffuso della poesia. Forse siamo un popolo di poeti, e non solo di santi, eroi e navigatori....  Ma la seconda cosa è una domanda che mette il dito nella piaga: ma insomma, dove finisce questo bisogno di poesia?

Perché la realtà è anche questa: si scrive ma non si legge; le vendite dei libri di poesia restano irrisorie e magari limitate ai grandi che si studiano a scuola e a pochi altri; nella nostra cultura lascia più il segno un testo di una canzone (che può essere poesia, beninteso) che una grande raccolta di versi.

Ed è evidente che non è un problema di ora, che non è solo la concorrenza dei cantautori. Già Dino Campana, rinchiuso in manicomio, scriveva righe così:
 
La mia vita scorre monotona e tranquilla. Leggo qualche giornale. Non ho più voluto occuparmi di cose letterarie stante la nullità dei successi pratici ottenuti. Il mercato librario in Italia è assolutamente nullo per il mio genere

Forse in qualche misura il problema è connaturato alla stessa poesia. Magrelli stesso, per esempio, sottolinea una sorta di paradosso della poesia, che è capace di negarsi alla mercificazione quotidiana della parola, ma proprio per questo poi ha difficoltà a farsi acquistare:

Ma se la poesia rappresenta la negazione dell'oggetto di consumo, come ampliare il consumo di poesia? Come ampliare, cioé il consumo di negazione?

Qui il discorso si fa difficile, però mi sa che si può fare comunque di più, per dare luce e visibilità al "popolo dei poeti".

Oggi abbiamo anche una possibilità in più, la Rete, con il suo esercito di siti, blog, gruppi di discussione. Possiamo permetterci qualche goccia di ottimismo: ai tempi di Campana era perfino peggio.

martedì 16 novembre 2010

L'uomo che camminava tra le ombre

Io sono morto. Cammino tra le ombre, vedo il mondo da una finestra invisibile

Con un incipit così non potete certo ripromettervi una lettura disinvolta e senza pensieri, però, chissà, da parole così - parole dure come pietre e roventi come il fuoco, per dirla come la dice Enzo Bianchi in una sua riflessione conclusiva - potete anche aspettarvi qualcosa che rimane, che continua a scavare anche dopo che avete messo via il libro e provato a pensare ad altro, potete aspettarvi qualcosa che fa male e che allo stesso tempo è salutare come una medicina amara.

Che talento che era Giovanni Cenacchi, scrittore innamorato di Dino Campana e degli spettacoli che la natura offre quando i sentieri si fanno impervi e l'aria più rarefatta, sarà che, come diceva, una passeggiata in montagna è già un discorso sulla bellezza o una riflessione sulla vertigine. Che talento, scippato da una malattia crudele e da una morte troppo precoce.

In Cammino tra le ombre c'è tutta la sua storia, dopo che gli piombò addosso una diagnosi che ammetteva ben poche speranze. Tre anni di vita nella morte che non si traducono in romanzo o in diario, ma piuttosto in pensieri abbandonati sulle sponde dei giorni, in aforismi e spunti poetici, in riflessioni che si contentano di poche righe e anzi galleggiano anche sul silenzio.

Momenti di grande sofferenza e momenti di pace ancora più grandi e inattesi, anche sul letto di un ospedale (Sto quasi bene, qui. E' questo morire?). Lampi di ribellione contro un Dio assente (Quando verrà il momento mi aspetto che ci sia Dio in persona ad accogliermi e a farmi le sue scuse) e la quiete di una accettazione che si fa strada (E ora, devo provare a costringermi di pensare che solo il non essere possa consegnarmi al mondo). Il tentativo di dare un senso alla malattia (Serve a rendere sopportabile - quindi desiderabile - l'idea della morte). L'arretramento delle possibilità di vita (Ogni cosa che vedo, è cosa che perdo) Ma poi, di nuovo, l'impossibilità della rassegnazione (Non si crede mai veramente alla propria morte. Si sente forte il diritto al miracolo. La vita non conosce altro che la vita).

Un libro non per tutti. Un libro che è come una voragine che si apre sotto i piedi. Un libro di straordinaria vitalità, malgrado tutto.

Com'è vitale scrivere del morire, e quanto è noioso e sterile scrivere della morte

giovedì 2 settembre 2010

Leggere e camminare con Dino Campana

Se c'è un'operazione che risulta inutile alla comprensione dei Canti Orfici, - dice Cenacchi - questa è paradossalmente proprio l'esercizio della critica letteraria. Basterebbe forse leggere e camminare, camminare e leggere fino a confondere la prosa dei testi e quella del cammino, fino a non poter più distinguere la linea dei versi da quella dei propri sentieri

Amava le montagne, Giovanni Cenacchi, le amava e sapeva tradurle in parole e immagini che arrivavano al cuore di tutti, anche di coloro che già in collina cominciano a sentirsi fuori posto. Se n'è andato via troppo presto, Giovanni Cenacchi, portato via da una malattia che, tra le altre cose, ci ha privato di nuovi libri da tenere cari.

Come I monti orfici di Dino Campana (Polistampa), un libro che mi è capitato tra le mani quasi per caso (non credo nemmeno che sia di facile reperibilità). L'ho cominciato con l'idea di leggiucchiarlo e magari lasciarlo lì. Invece mi ha catturato, spiazzato, inchiodato a diverse riflessioni.

Beh, non capita tutti i giorni di imbattersi in un saggio letterario che è anche una singolare guida per avventurarsi in passeggiate per i monti. O se preferite, in un libro sulle meraviglie dell'Appennino meno conosciuto che è anche una formidabile biografia poetica.

Perché è questo che fa Giovanni Cenacchi, uomo innamorato della montagna che sceglie di camminare a fianco di un altro uomo, Dino Campana, per cui la montagna è stata maledizione (lui montanaro, come sperava di conquistare il mondo della cultura, lontano giù in città?), ma anche rifugio e consolazione.
Con un Dino Campana che conosciamo meno perché ha prevalso il mito del poeta maledetto e pazzo, relegato in manicomio: mito che poi è doppiamente fuorviante, perché il Campana del manicomio non è più il Campana poeta, è già un altro uomo.

Come parlare allora della sua poesia, senza le sue montagne? Forse c'è un altro modo: e si può cominciare lasciandoci dietro le biblioteche e i computer, mettendoci uno zaino in spalla, avventurandosi per gli stessi sentieri che lui stesso un tempo calpestò.


Leggere e camminare, camminare fino a riconoscersi nelle parole di Dino Campana:
E' così dolce sentirsi una goccia d’acqua una sola goccia ma che ha riflesso per un momento i raggi del sole

Camminare e leggere, appunto. Camminare e ascoltare la poesia.

lunedì 16 agosto 2010

Che fine ha fatto il popolo dei poeti?

Non c'è più posto, nell'Italia di oggi, per chi voglia scrivere versi? Davvero la poesia è migrata altrove?

Così si interroga un grande poeta come Valerio Magrelli sulle pagine di Repubblica di qualche giorno fa. Per poi snocciolare alcune cifre che, nel bene e nel male, mi hanno decisamente impressionato.

E dunque, si calcola che circa un milione e mezzo di italiani avrebbe composto durante la sua vita almeno una raccolta di versi (tra di essi almeno un giovane su tre nell'età compresa tra i 15 e i 20 anni). Si stima anche che i "poeti praticanti" (non so bene, in effetti, cosa si intenda con questa espressione) siano tra i 15 e i 20 mila. Niente male, no?

E allora, la prima cosa che viene in mente è che è una gran bella cosa, questo esercizio diffuso della poesia (non a caso l'intervento di Magrelli ha per titolo Un popolo di poeti). Ma la seconda è una domanda che mette il dito nella piaga: ma insomma, dove finisce questo bisogno di poesia?

Perché la realtà è anche questa: si scrive ma non si legge; le vendite dei libri di poesia restano irrisorie e magari limitate ai grandi che si studiano a scuola e a pochi altri; nella nostra cultura lascia più il segno un testo di una canzone (che può essere poesia, beninteso) che una grande raccolta di versi.

Ed è evidente che non è un problema di ora, che non è solo la concorrenza dei cantautori. Già Dino Campana, rinchiuso in manicomio, scriveva righe così:
 
La mia vita scorre monotona e tranquilla. Leggo qualche giornale. Non ho più voluto occuparmi di cose letterarie stante la nullità dei successi pratici ottenuti. Il mercato librario in Italia è assolutamente nullo per il mio genere

Forse in qualche misura il problema è connaturato alla stessa poesia. Magrelli stesso, per esempio, sottolinea una sorta di paradosso della poesia, che è capace di negarsi alla mercificazione quotidiana della parola, ma proprio per questo poi ha difficoltà a farsi acquistare:

Ma se la poesia rappresenta la negazione dell'oggetto di consumo, come ampliare il consumo di poesia? Come ampliare, cioé il consumo di negazione?

Qui il discorso si fa difficile, però mi sa che si può fare comunque di più, per dare luce e visibilità al "popolo dei poeti".

Oggi abbiamo anche una possibilità in più, la Rete, con il suo esercito di siti, blog, gruppi di discussione. Possiamo permetterci qualche goccia di ottimismo: ai tempi di Campana era perfino peggio.

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