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mercoledì 2 novembre 2016

Storia dell'uomo che studiava le nuvole per la rivoluzione

Studiava i cieli, ma non era un uomo con la testa per aria, uno di quei tipi strampalati e sognatori che associo alla più indolente e poetica delle attività, guardare le nuvole che passano. Studiava le nuvole, ma era un uomo con i piedi ben piantati per terra. Lavorava come meteorologo, ma soprattutto serviva la rivoluzione: e se le nuvole hanno certo a che vedere con i sogni e le fantasie, mai si sarebbe immaginato che un giorno sarebbe stato la rivoluzione a ucciderlo.

E' una storia di nuvole e sangue, di sogni e tradimenti, quella che Olivier Rolin racconta in Il meteorologo (Bompiani). Una storia che pesca un nome tra milioni di altri trucidati nelle purghe di Stalin per non dimenticare l'orrore delle esecuzioni di massa e delle fosse comuni.

Aleksej - lo chiamo solo per nome - era il responsabile dei servizi meteo dell'Unione Sovietica, convinto che fare bene il proprio lavoro fosse utile alla rivoluzione: l'uomo nuovo avrebbe avuto più frutti dalla terra grazie a buone previsioni, avrebbe persino imbrigliato il vento per le sue fabbriche.

Vai a sapere che cos'è che lo spinse verso la rovina. Se l'invidia - e la delazione - di qualche collaboratore oppure la necessità di avere un capro espiatorio per le terribili carestie degli anni Trenta. Però anche quando finì in un campo in Siberia non smise di credere nella rivoluzione e nei suoi uomini. Per anni scrisse a Stalin, convinto che ci fosse un errore. Sarebbe bastata qualche informazione in più, giusto per chiarire. Non sbagliava così, una rivoluzione. L'unica risposta fu il suo nome inserito nella lista delle esecuzioni.

E' un libro triste, intenso, commovente. Un libro sulla rivoluzione che divora se stessa divorando i suoi uomini migliori. Sui sogni a cui si rimane attaccati. Sull'umanità preziosa, insostituibile, unica che si nasconde dietro ogni vittima di un crimine di massa.

Aleksej, il meteorologo. Aleksej, l'uomo che forse solo all'ultimo capì, corpo nudo in attesa della pallottola alla nuca. Aleksej, per me soprattutto il padre che alla figlia piccola - che non rivide mai più - non si stancò di inviare lettere colorate, disegni, indovinelli. Fino a che le lettere smisero di arrivare.

Bene che l'editore le abbia pubblicati, in questa edizione. Dicono più di tante altre parole. Misurano tutto lo scempio che è stato fatto. Aizzano la mia coscienza e mi aiutano a non scordare.

giovedì 14 luglio 2016

Tanto tempo fa, le vite che erano

Sono nato tanto tempo fa.

E' questo il primo rigo di Genealogia, l'opera con cui Izrail Metter, ebreo russo che ha attraversato tutto il Novecento, prova a mettere in ordine ciò che gli rimane del tempo.


Quanto potrebbe raccontare. Assai più, in effetti, di quanto ritroviamo in questo libro smilzo uscito per Einaudi. Assai più, se solo questa intendesse essere una autobiografia o un saggio storico.

Figurarsi, con tutto quello che Metter ha visto, fatto, subito, da uomo che arriva da quel mondo ebraico orientale spazzato via da Hitler, che ha conosciuto l'Unione Sovietica di Lenin e dei poeti della Rivoluzione, che ha resistito all'assedio di Leningrado, che è sopravvissuto allo stalinismo....

Eppure più che un filo da seguire, qui c'è bisogno di scavo. Di tornare indietro, di scavare, di oltrepassare il resoconto dell'esperienza, oppure di illuminare la propria esperienza con ciò che c'era prima e da cui in qualche modo discendiamo.

Genealogia, appunto. Genealogia che è mistero, buco nero, lapide che conclude le vite che ci hanno preceduto. Non fosse per qualche bagliore che ancora arriva a noi. Non fosse per il poco che avanza.

Come quella foto del bisnonno, un altro mondo e due o tre epoche prima. Una foto di metà Ottocento, che vai a sapere come non si sia persa. Un vecchio triste, pensoso, che indossa il soprabito a lunghe falde che era degli ebrei polacchi e galiziani. Siede con una mano poggiata sopra un ginocchio e l'altra su un grosso libro aperto.

Proprio questo libro - scrive Metter - aveva acceso la mia immaginazione.

Quel libro, esibito con orgoglio, è la dimostrazione che da tempo immemorabile nella sua famiglia si sapeva leggere. E si leggeva.

Un bagliore dal passato. La vita che non c'è più ma che ancora lancia un richiamo, come la luce di una stella ormai fredda. Riverberi della memoria, incanti, empatie. Ciò che oggi noi siamo.

venerdì 15 febbraio 2013

Storia di Nadja, la donna che sposò Stalin

Nei rari momenti di quiete familiare, Nadja cercava di parlare a Josif, gli domandava se era davvero necessario che tutti quei compagni venissero espulsi, addirittura arrestati. Si sentiva ogni volta rispondere che non erano questioni che la riguardavano e veniva spedita in cucina ad occuparsi della cena....

Nadja era una che alla Rivoluzione credeva. Nadja per il partito avrebbe fatto tutto, senza cercare un posto in prima fila o sul palco. Nadja chiamava comunismo non solo un mondo nuovo, ma anche un uomo nuovo, solo che intorno a sè vedeva sparire il meglio e avanzare la schiera dei cortigiani e dei pavidi. Nadja amava suo marito, solo che questo non bastò a salvare se stessa. Il problema è che suo marito si chiamava Stalin.

Che grande libro, che è La scelta di Nadja. Io, la moglie di Stalin, ultimo libro di Angela Feo, pubblicato da Sossoscritto. Si legge con un solo balzo, ma poi rimane accucciato tra il cuore e la testa, in un caleidoscopio di emozioni e domande. Un libro che sa essere molte cose: un romanzo sotto forma di biografia, ma anche un saggio che sa conquistare come sa fare solo la grande narrativa. Con quel linguaggio asciutto, senza effetti speciali, che è proprio dei giornalisti che sanno raccontare le storie della Storia.

 E che gran personaggio che è Nadja, così complesso e affascinante che non si capisce perché l'industria culturale non ci abbia messo le mani sopra, magari per uno di quei film di cassetta per cui spesso mancano le buone idee.

Di lei scrisse la figlia Svetlana:

Oggi c'è chi fa di lei un monumento, chi la considera una malata di nervi e chi vittima di un assassinio. Ma lei non fu niente di tutto ciò. Fu semplicemente se stessa.

Per essere se stessa una sera Nadja si vestì meglio di altre volte, con un abito nero lungo e una rosa rossa tra i capelli. Tornò prima dal banchetto che doveva celebrare l'anniversario della Rivoluzione, tornò da sola. E in camera sua si uccise con un colpo di rivoltella.

Per quanto mi riguarda un libro che è stato un terremoto, allo stesso modo di un altro che, tanti anni fa, mi spiazzò e mi commosse in modo non troppo diverso: Una generazione che ha dissipato i suoi poeti di Roman Jacobson, su Majakovskij, Esenin e gli altri.

Un libro con il quale mi interrogherò a lungo sulla possibilità di un altro amore, di un'altra rivoluzione. Su un altro modo di vivere ed essere se stessi.


sabato 30 giugno 2012

Odessa è molte cose, naturalmente. In primo luogo un nome che evoca un fascino lontano, qualcosa di esotico, direi, se poi non fossimo abituati a localizzare i luoghi dell’esotico in qualche altro angolo del pianeta.


Odessa è un crogiuolo di popoli affacciato sull’immensità asiatica, è la culla di un cosmopolitismo per predilezione, prima ancora che per vocazione, è la memoria della vecchia Russia bianca che guardava all’Europa, con i tè all’aperto e le dame con le crinoline, è il porto da cui salpavano le navi cariche di cereali con i suoi rudi lavoratori, avvezzi alla fatica e alla vodka. Le terme frequentate dall’aristocrazia e il sogno del riscatto sociale.


Isaac Babel, figlio di Odessa, quel sogno se lo fece suo per intero e prima ancora che scrittore fu militante bolscevico. Negli anni eroici della rivoluzione prestò servizio nel controspionaggio, lavorò come traduttore per la Cheka – cioè per la polizia politica istituita da Lenin – e si occupò della requisizione dei viveri. Nel 1920, quando ancora infuriava la guerra civile fu assegnato all’armata a cavallo che provò a esportare la rivoluzione fuori dalla Russia e arrivò fin quasi a Varsavia, per essere poi ricacciata indietro.


Da questa esperienza venne fuori il suo capolavoro, L’armata a cavallo, appunto. Oggi è giustamente considerato uno dei libri imprescindibili del Novecento, ma allora la pubblicazione gli costò cara. C’era troppa verità, nella guerra che raccontava, ovvero troppa brutalità.


Altro che romanticismo rivoluzionario, ideali che volano alto: nelle sue pagine c’erano lo sporco e il sudore, i corpi sbudellati e i rivoli di sangue, la ferocia gratuita e la follia dei comandi.


Si fece molti nemici, il povero Babel, ma dopo fu assai peggio. Arrivò Stalin, arrivo il plumbeo terrore degli anni Trenta. Gli orrori della guerra lasciarono il campo agli orrori di una collettivizzazione di un regime che aveva tradito se stesso.


Babel si distaccò ogni giorno di più dalla vita pubblica e dalla speranza che l’aveva animato negli anni precedenti. Ma questo ritrarsi non bastò a procurargli la quiete. Cominciarono a criticarlo per il suo “estetismo”. E’ un’accusa che oggi potremmo prendere per un complimento e in ogni caso accogliere come un legittimo esercizio di critica letteraria. Ma in Unione Sovietica, in quegli anni, essere bollati come “esteti” non era lieve: entravi di diritto nella poco raccomandabile schiera dei borghesi decadenti e irredimibili.


Nel 1934, al primo congresso dell’Unione degli scrittori sovietici Babel si strappò dalla bocca parole pesanti. Stava diventando il “maestro di un nuovo genere letterario”, proclamò: il “genere del silenzio”.


Poi ci volle poco perché tutto precipitasse.


“Ora verranno a cercarmi”, scrisse dopo la morte di Maksim Gorkij, lo scrittore nelle grazie del regime che finora era riuscito a proteggerlo. E così fu. Babel venne arrestato nella sua casa di campagna, portato alla Lubianka, processato, condannato.


Lo fucilarono agli inizi del 1940, anche se ufficialmente lo si disse morto in un campo di prigionia in Siberia: la vedova ci mise 15 anni per scoprire la verità


Dopo la morte di Stalin venne completamente riabilitato: per quanto potesse significare, a quel punto. Quanto ai suoi manoscritti, sequestrati dalla polizia segreta, non vennero mai più restituiti.


Che cosa c’era tra quelle carte? Qualche altro capolavoro?


Nessuno, temo, ci potrà più rispondere. Però una cosa è sicura: è solo un potere criminale, quello che ruba le vite, e con le vite la bellezza della vita, quella bellezza che emerge anche da una pagina scritta.


E pure questi sono crimini contro l’umanità.

(da Caduti dal Muro, scritto con Tito Barbini, Vallecchi editore)

domenica 25 marzo 2012

La terra di Siberia dove si parla ancora la lingua morta

Ho sempre pensato che Hitler avesse perso le sue scommesse: cancellare gli ebrei dalla faccia della Terra e trasformarli in qualcosa di diverso dagli essere umani. Credevo però che su un punto avesse avuto successo: distruggere una civiltà ebraica, la civiltà dello yiddish.

Così scrive Marek Halter, scrittore e anche fondatore del movimento SOS Racisme e anch'io avevo sempre pensato così: che con i villaggi dell'Europa dell'Est spazzati via, con quel popolo sparito nelle camere a gas, fosse svanita una volta per tutte una civiltà, e quindi una lingua, una letteratura che ci aveva reso tutti più ricchi.

Che sorpresa, dunque, leggere il reportage che lo stesso Halter ci ha regalato dopo essersi spinto in una terra dal nome impossibile, Birobidzhan. Non ne avevo mai sentito parlare, ma questo è il nome della repubblica autonoma ebraica istituita nella Siberia sovietica qualcosa come 80 anni fa. La volle Stalin, presumibilmente per liberarsi degli ebrei che aveva intorno e che non poteva tutti rinchiudere nei gulag. E così si inventò questa repubblica ritagliandole alcune terre della sterminata Siberia, là dove scorre il fiume Amur.

Da allora c'è stato Hitler e l'yiddish è stato spazzato via. L'Unione Sovietica è morta e sepolta, Israele è nata ed è viva e vegeta. Del Birobidzhan nessuno (o almeno il sottoscritto) ha sentito parlare. Ma sorpresa esiste ancora: esiste ancora un paese dove l'yiddish è addirittura lingua ufficiale.

E che belle le parole di Halter, alla scoperta di questo paese dove si parla ancora la sua lingua madre, la lingua che lui stesso dava per morta. Che bella la sua conclusione, quasi un atto di riparazione della storia:

Seppellire la memoria, e in particolare la memoria di una lingua, è più difficile che seppellire i corpi.

venerdì 12 agosto 2011

Quel Muro che tagliava la carne viva

Era la mattina del 13 agosto, esattamente 50 anni fa, che i berlinesi si svegliarono e rimasero senza parole per quello che era stato eretto nella notte. Non era ancora il Muro come abbiamo imparato a conoscerlo attraverso tante dolorose fotografie, perché per il momento erano riusciti solo a cementare i primi mattoni e a stendere il filo spinato.

Però il Muro era già il Muro: un monumento planetario alla follia, una gigantesca lama per tagliare la carne viva dell'umanità.

Io e Tito Barbini due anni fa abbiamo scritto insieme Caduti dal Muro (Vallecchi), un libro a quattro mani ma soprattutto un viaggio in quella follia. Ne voglio riproporre un pezzettino scritto da Tito, una delle prime pagine.


Ti voglio raccontare di quando misi piede per la prima volta a Berlino, qualcosa come quaranta anni fa. Il Muro era stato tirato su da non troppo tempo.
 

Ancora oggi la cosa che mi ricordo meglio è la stazione di Friedrichstrasse, quella del famoso checkpoint Charlie, il posto di frontiera dal quale entrai nella Repubblica Democratica Tedesca: la DDR, tre lettere di una sigla che già mi pareva richiamasse la potenza delle acciaierie e la solennità delle parate militari.
 

E in realtà quello che avevo davanti agli occhi erano i riflettori da lager che gettavano ovunque i loro coni di luce, le torrette appollaiate sui blocchi di cemento armato, le lugubri fisionomie dei vopos, i guardiani della “cortina di ferro”.
 

Prima ancora di quello che tutto questo poteva e può simboleggiare, a colpirmi furono le caratteristiche della costruzione. Quando vi arrivai non era stata ancora completata quella che sarebbe stata presto ribattezzata la “striscia della morte”, un complesso di recinzioni, trincee anticarro, cavalli di frisia e barriere di filo spinato irrobustito da oltre trecento posti di guardia e da una trentina di bunker, il tutto ben delimitato da una strada per il pattugliamento sempre illuminata a giorno.
 

Però già allora si era dato fondo a enormi riserve di denaro e di ingegno per scongiurare e reprimere qualsiasi tentativo di fuga. Perché questo era il suo scopo, il suo unico scopo, altro che un muro di “protezione antifascista” per proteggersi dall’eventuale aggressione delle potenze occidentali.
 

Si diceva il Muro, ma in realtà si trattava di due muri.
Quello che guardava a ovest era di un colore molto chiaro per mostrare meglio il profilo dei fuggiaschi ed era sormontato da un tubo di cemento per impedire di arrampicarsi.
Dietro si celavano vari fossati e fili spinati con allarmi ottici e sonori. Una pista era destinata allo scorrimento dei guardiani e una a quello dei cani da guardia, con un lungo guinzaglio che scorreva su appositi binari.
 

L’ultima striscia, prima del muro orientale era una sorta di campo con punte di acciaio conficcate nel terreno. I berlinesi chiamavano questo spazio con un nome bizzarro, ma assolutamente evocativo: “erba  di Stalin”. 
 

Un gigantesco monumento alla follia e alla crudeltà, disteso per oltre 150 chilometri, ma in realtà ancora più lungo, tanto lungo e tanto massiccio da spaccare in due l’Europa, da dividere il mondo.  Da isolare e sigillare sotto vuoto il “blocco comunista”.
 

Se mi capita di inciampare ancora su questa espressione –  con quello di metallico, di spietato che mi richiama la parola “blocco”, una sorta di tagliola della voce – in realtà mi viene da pensare proprio al Muro.

Vedi, Paolo, la frontiera fa sempre un certo effetto.
 

La frontiera è tante cose insieme: paura e speranza, inquietudine e stupore, prigione e libertà. La frontiera non separa solo due lembi di terra, divide anche te a metà. Chiude una porta e ne apre un’altra.
Ma le emozioni più forti me le desta ancora oggi proprio questa frontiera che non c’è più e che un tempo tagliava il cielo di Berlino.
 

 Pensare che oltre il Muro c’era solo un tavolo piazzato in mezzo a una stanzone grigio. Grigio come le uniformi delle guardie che ti scrutavano, grigio come le nuvole che per molti giorni all’anno sostano sopra Berlino, grigio come i tristi caseggiati di tanta edilizia socialista. 
 

L’unica macchia di rosso era lo striscione che ti dava il benvenuto.
 

Ti prendeva il cuore e lo stomaco, per forza.

lunedì 16 maggio 2011

Babel, gli occhiali sul naso e l'autunno nell'anima

Era l'ebreo con gli occhiali sul naso e l'autunno nell'anima. Così si definiva lui stesso e pare di vederlo ancora, con i suoi occhialini tondi da intellettuale rivoluzionario e l'autunno che prima ancora che nella sua anima è sceso sul suo sogno di rivoluzione.

Si torna finalmente a parlare di Isaak Babel , anche grazie a un libro di Giovanni Maccari pubblicato recentemente da Sellerio. E io sono più che contento, perché con l'autore dei Racconti di Odessa e de L'armata a cavallo mi trovo decisamente bene.

Isaac Babel quel sogno se lo fece suo per intero e prima ancora che scrittore fu militante bolscevico, negli anni eroici della rivoluzione sovietica.

E racconto anche la guerra, solo che si compromise con eccessi di verità. Altro che romanticismo rivoluzionario, ideali che volano alto: nelle sue pagine c’erano lo sporco e il sudore, i corpi sbudellati e i rivoli di sangue, la ferocia gratuita e la follia dei comandi.

Si fece molti nemici, il povero Babel, e dopo fu assai peggio. Arrivò Stalin, arrivo il plumbeo terrore degli anni Trenta. Gli orrori della guerra lasciarono il campo agli orrori di una collettivizzazione di un regime che aveva tradito se stesso.
 
Babel  si distaccò ogni giorno di più dalla vita pubblica e dalla speranza che l’aveva animato negli anni precedenti. Ma questo ritrarsi non bastò a procurargli la quiete. Cominciarono a criticarlo per il suo estetismo.  E in quegli anni, essere bollati come esteti non era cosa lieve: entravi di diritto nella poco raccomandabile schiera dei borghesi decadenti e irredimibili. 

Nel 1934, al primo congresso dell’Unione degli scrittori sovietici Babel si strappò dalla bocca parole pesanti. Stava diventando il maestro di un nuovo genere letterario, proclamò:  il genere del silenzio.
 
Poi ci volle poco perché tutto precipitasse.

Ora verranno a cercarmi, scrisse dopo la morte di Maksim Gorkij, lo scrittore nelle grazie del regime che finora era riuscito a proteggerlo. E così fu. Babel venne arrestato nella sua casa di campagna, portato alla Lubianka, processato, condannato.

Lo fucilarono agli inizi del 1940, anche se ufficialmente lo si disse morto in un campo di prigionia in Siberia: anche la vedova ci mise 15 anni per scoprire la verità

Dopo la morte di Stalin venne completamente riabilitato: per quanto potesse significare, a quel punto. Quanto ai suoi manoscritti, sequestrati dalla polizia segreta, non vennero mai più restituiti.

Che cosa c’era tra quelle carte? Qualche altro capolavoro? Più volte ci ho pensato, a quel capolavoro che forse c'era e che è stato sottratto a tutti noi.

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