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giovedì 22 agosto 2019

Sei stato felice, ora è tempo di partire

Sei stato felice, vecchio, maledettamente bene in certi giorni, anche.

Succede di chiamarsi vecchio quando hai poco più di vent'anni, età complessa, età di sfide come gran premi della montagna. Succede persino di parlare al passato: e come suona strano, quando quei vent'anni sono davvero passati da un pezzo.

Ma ancora più strano è scrivere un romanzo d'esordio come questo, a poco più di vent'anni. Come a voler dare ragione nei fatti a Italo Calvino: in fondo il primo libro è il solo che conta, forse bisognerebbe scrivere quello e basta.

Beh, meno male che Giovanni Arpino non si è fermato, che ha proseguito con molti altri libri che oggi meriterebbe andarsi a rileggere, uno a uno. Però che libro straordinario è Sei stato felice, Giovanni (ripubblicato da Minimum Fax, postfazione di Gianni Mura), così intenso, così grondante di libertà: forte di un'età acerba che sa ancora voltare le spalle, dire addio, ricominciare da zero. 

Prima di queste pagine c'è Giovanni stesso, la sua vita di ragazzo che è già bracconiere di personaggi, incontrati nei bar e nelle osterie: pittori stravaganti, poeti della Resistenza, giocatori di carte per ammazzare le notti. 

Poi un giorno sente il richiamo del mare e della città di porto. E' il 1950 -  proviamo a immaginarci quell'Italia - è maggio - e maggio sembra fatto apposta per le fughe.

Così arriva a Genova, prende alloggio in una pensioncina di via Pré che è una topaia, col suo asse da stirare come scrivania e le voci sbronze che salgono dal vicolo. E' qui che in tre settimane scrive il suo libro e quante cose ci porta dentro, tra bevute e pasti a uova fritte: le sue letture di Hemingway e Steinbeck, ma anche di Pavese e Moravia, il ventre di Genova con le sue puttane e i suoi contrabbandieri, come in una canzone di De Andrè; i volti incontrati per strada, il piacere della precarietà, la smania di altre città.

Si è laureato con una tesi su Esenin, Giovanni, ama - e si intuisce - Dino Campana: ma ciò che ha dentro è grande come l'America dei sogni. Solo che per l'America bisogna partire e la partenza è sempre una separazione, un distacco.

Potevo dirmi con semplicità, con ordine e calma, tutte le voglie diventate nette e precise nel cuore anche se lontane  e difficili nella speranza. Qualcosa era successo ed era successo bene.

E così è ancora dentro questa vita, ma allo stesso tempo è già un passo avanti. E' già tempo di partire, anche per lui. Ho un sacco di cose da mettere a posto, dice. E vai a sapere dove, non importa. Qua e là. Tante cose.

lunedì 22 agosto 2016

Tra fabbrica e pub, così era la vita in Inghilterra

Perché era sabato sera, il momento più felice e festoso della settimana, uno dei cinquantadue giorni di vacanza sulla lenta ruota panoramica dell'anno, un violento preambolo a una domenica di prostrazione.

Per Arthur, giovane operaio inglese, la febbre del sabato sera è un copione che si ripete: il giro dei pub, le sbronze, le risse, il sesso con donne sposate. Tutto quello che non c'è nel resto della settimana, perchè il resto è solo la routine del lavoro nella sua fabbrica di Nottingham.

L'adrenalina di questi fine settimana, il loro concentrato di pulsioni e trasgressioni, non cambieranno il mondo, anzi, non lasceranno niente se non un cerchio alla testa la domenica mattina. Eppure è tutto ciò che Arthur ha a disposizione per gridare il suo rifiuto contro una vita che per lui è già tutta scritta, faticare alla catena di montaggio e mettere su famiglia.

Prima di avventurarvi in queste pagine, osservate la data. Saturday Night e Sunday Morning  (ripubblicato in Italia da Minimun Fax) è del 1958: un'altra Inghilterra, un altro mondo, quello delle grandi fabbriche e del benessere che non esclude più gli operai. Anche loro possono cominciare a sperare in una casa di proprietà, nella televisione, nella settimana al mare.

Arthur, in fondo, beneficia di ciò che altri hanno conquistato sul terreno dei diritti. Ha soldi in tasca - poco importa se se li sputtana in birre - e un giorno avrà la sua pensione. Eppure, in una vita in cui mancano le speranze, in cui è già assente ogni soggetto collettivo (per dirne uno, il sindacato), Arthur è solo, Arthur non ha futuro.

Alan Sillitoe - lo stesso scrittore di La solitudine del maratoneta, uomo che viene dall'Inghilterra delle industrie e del lavoro proletario - ci ha regalato un romanzo di esordio folgorante, capace di rappresentare tutta un'epoca, ma anche con un personaggio destinato a rimanere.

Poco importa che Arthur non sia assolutamente simpatico. Che molte volte vorresti fermarlo, prenderlo per le spalle, portarlo via dal disastro incombente. Qui c'è tutta una generazione che non è stata raccontata. Con una frattura che la separa dai padri e che non è quella del giovane Holden e tantomeno quella del Sessantotto.

 Leggendolo ho pensato ad Arthur e poi ai ragazzi dei nostri anni con ancora meno futuro - dove è finito il lavoro? - e ancora meno capaci di intravedere una possibilità di protesta. Forse proprio questo libro del 1958 ci può aiutare a capire qualcosa in più. E magari a scorgere una qualche speranza all'orizzonte. Non fosse che per i lampi di tenerezza, improvvisi e disorientanti, che anche uno come Arthur sa manifestare.

mercoledì 8 luglio 2015

I maestri francesi consigliano gli aspiranti scrittori

Avete la stoffa di tre poeti, ma prima di sfondare avrete avuto sei volte il tempo di morire di fame, se per vivere contate sui prodotti della vostra poesia.

In questo modo, con un ammonimento che suona ancora tristemente attuale (sempre che oggi sia davvero concepibile la possibilità di "sfondare" con la poesia), Honorè de Balzac si rivolgeva a un aspirante scrittore. Ed è con questa pagina che comincia Troppe puttane! Troppo canottaggio!, curioso e intrigante libretto proposto da Minimun Fax e curato da Filippo D'Angelo, che raccoglie una serie di "consigli ai giovani scrittori dai maestri della letteratura francese".

E dunque, innanzitutto il titolo: che è il consiglio, piuttosto ruvido, che il grande Flaubert rivolgeva allo scapestrato Guy De Maupassant, troppo incline a disperdere le sue energie in vari esercizi fisici.

E poi c'è solo da tuffarsi in questa antologia di grandi, con pagine non tutte uguali e non tutte capaci di parlarci ancora. Però anche straordinariamente ricche. Dotatevi di quadernetto e penna: e fate incetta di citazioni.

Charles Baudelaire: Sfido gli invidiosi a citarmi dei buoni versi che abbiano rovinato un editore.

Guy de Maupassant: Il talento è una lunga pazienza.

Andrè Gide: Scrivi il meno possibile, scrivi soltanto ciò che è indispensabile.

E molti, molti altri ancora. 

giovedì 11 dicembre 2014

Fate subito una cura di gentilezza

Perciò, ecco un consiglio veloce a chiusura del discorso. Dal momento che, a mio parere, la vostra vita sarà un percorso che vi vedrà diventare sempre più gentili e affettuosi, sbrigatevi.

Fate presto. Cominciate subito. C'è un equivoco, in ciascuno di noi, anzi, una malattia: l'egoismo. Ma esiste anche una cura.

Siate dei pazienti di voi stessi, bravi, propositivi, anche un po' disperati - cercate le medicine antiegoismo più efficaci, cercatele con energia, finché vivrete. Scoprite cosa vi rende più gentili, cosa vi libera e fa emergere la versione più affettuosa, generosa e impavida di voi stessi - e cercatelo come se non ci fosse niente di più importante.

Perché, in effetti, non c'è niente di più importante.

(George Saunders, L'egoismo è inutile. Elogio della gentilezza, Minimum Fax)

mercoledì 3 dicembre 2014

Pagine di gentilezza per regalo a Natale

Poi penso a come ci si affannerà nelle prossime settimane, per inventarsi qualche regalo di Natale, per sentimento o per dovere. A come si cercherà tra sconti e occasioni, con quel poco che della tredicesima rimane una volta pagati conti e bollette (chi ovviamente la tredicesima ce l'ha). I più come al solito si lasceranno incantare da moda e dispositivi elettronici. E come al solito sarà una delusione, per uno che come me, che da sempre sostiene che acquistare e regalare un libro rappresenta anche una scelta di consumo critico e consapevole; e che un libro regalato è assai di più di un bel regalo, perché quel libro, quel titolo, esprime qualcosa sia su chi lo dà che chi lo riceve.

E ora che ho letto L'egoismo è inutile. Elogio della gentilezza di George Saunders (Minimum Fax) ho anche un argomento in più. E' un libro così piccolo che si può perdere in una tasca. Poco più di settanta paginette, ma quelle che contano in realtà sono ancora meno. Un discorso che Saunders ha tenuto ai laureandi della Syracuse University.

Niente discorsi troppo alti. Niente compiacimenti intellettuali. Niente affermazioni definitive su qualche futuro professionale. Ma una lezione di vita straordinaria questo sì.

Quando mi guardo indietro vedo che ho passato gran parte della vita offuscato da cose che mi spingevano ad accantonare la gentilezza.

Saunders ci invita a non fare lo stesso errore. A coltivare la gentilezza, a farla crescere con tutte le attività che alla gentilezza fanno bene (Studiare serve. Immergersi in un'opera d'arte serve. Pregare serve. Fare meditazione serve...).

Perché farlo? Perché la gentilezza è la miglior medicina per la  nostra vita. Perché è il miglior antidoto a quell'egoismo che quasi sempre ci frega. Perché arriverà un giorno in cui non ci ricorderemo dei successi ma delle volte in cui non siamo stati gentili....

Che lezione, in questo libretto. Non me ne dimenticherò tanto facilmente. A volte può bastare una manciata di pagine per imprimere un senso diverso alla vita. Per provarci anche con chi ci sta vicino. Perché non provare a regalarle, queste parole, più utili di molte altre cose?

ps: L'egosimo è inutile di George Saunders costa 5 euro. Con qualche possibilità di sconto, rispetto al prezzo di copertina....

giovedì 18 settembre 2014

Con Saunders, il mondo ai tempi di Disneyland

Saunders è uno scrittore serio e moralmente appassionato, che esprime perfettamente la follia dei tempi in cui viviamo.

Così afferma Zadie Smith: e l'opinione è senz'altro autorevole. Però non conoscevo George Saunders e forse non avrei mai messo gli occhi su  Pastoralia - tanto meno lo avrei comprato - non fosse stato per l'impegno decisamente ridotto chiesto al mio tempo e alle mie tasche. Aggiungete che di Minimum Fax ho imparato a fidarmi, perché ci sono case editrici che sono assai di più di un marchio sulla copertina. E non ultimo, anche il fatto che d'estate, magari in viaggio, mi viene un po' più facile coltivare il racconto. E perché ignorare un autore che, in quarta, viene proclamato erede dei Mark Twain e Kurt Vonnegut?

E dunque l'ho acquistato e anche letto e non so se George Saunders sia davvero l'erede di cotanti scrittori, non so e non posso giudicare. Però che iniezioni di buona letteratura che sono le sue pagine. Stravaganza e talento che in Europa avrebbero spinto qualche suo collega a guardarsi compiaciuto l'ombelico. E che qui, invece, regalano uno sguardo obliquo e impietoso sul mondo. Il nostro mondo, o forse il mondo che verrà, giusto dietro l'angolo.

Roba da vertigine. Come nel primo racconto, quello del dipendente di un parco a tema costretto a fare il cavernicolo sotto gli sguardi dei (rari) visitatori. Il mondo al tempo di Disneyland.

Leggere per credere. Roba da vertigine, davvero.  Leggere e non precipitare. Fosse solo per qualche piccolo grande gesto di umanità - magari per un singulto di gentilezza. Solo questo, per aggrapparsi e non cadere nel vuoto.

sabato 30 agosto 2014

Ti sembra importante, questa faccenda delle frasi

Perché scrivere?

Per comporre una certa frase, per finire una certa pagina.

Preoccuparsi delle frasi è un capriccio estetico, l'equivalente culturale del pizzicare la cetra mentre Roma brucia? Questa tesi non l'ho mai capita. Che altro ha a disposizione uno scrittore se non delle frasi? 

Chiedere a uno scrittore di non pensare alle frasi è come dire a un costruttore di non preoccuparsi della qualità dei mattoni.

Perché scrivere?

Perché ti sta a cuore questa faccenda delle frasi: ti sembra importante.

E le vuoi scrivere alla tua velocità da lumaca, con tutta la complicata attenzione che meritano.

Non è solo una cosa degli scrittori: in tutto il mondo la gente sta cominciando a capire la natura rivoluzionaria delle dimensioni ridotte e della lentezza. Del fare le cose con le proprie mani. Del prendersi il tempo che serve. Delle vite su scala umana.

Sono tutti modi di rivendicare le nostre capacità di esseri umani in un mondo che spesso ci vede esclusivamente come produttori o consumatori.

(Zadie Smith, Perché scrivere, Minimum Fax)

sabato 23 agosto 2014

Faccio il poeta, anzi no, l'avvocato

"Quando mi siedo davanti al computer, mi coglie la disperazione!" è una cosa molto letteraria da dire.

"Quando mi siedo davanti al computer mi sento inutile" è, secondo me, un'affermazione un po' più vicina alla verità. Perché ci sono poche cose che possano far sentire più ridicoli, in questo anno del signore 2011, del sedersi a tavolino a scrivere un "romanzo".

No, in realtà eccone una: sedersi a tavolino e scrivere una poesia.

Il ruolo dello scrittore è diventato assurdo. Forse i lettori non se ne sono ancora accorti, ma gli scrittori lo avvertono intensamente. Conosco un poeta che, se gli si chiede cosa fa nella vita, risponde "L'avvocato" anche se non lavora come avvocato da più di dieci anni. 

Gli sembra che starsene in una stanza di Londra, nel 2011, e dire "Faccio il poeta" sia come dire "Accendo i lampioni a gas" o "Sono il banditore del villaggio".

(Zadie Smith, Perché scrivere, Minimum Fax)

giovedì 20 marzo 2014

Se Tolstoj è come McEnroe e Carl Lewis

E' sempre necessario ricordare che McEnroe e Carl Lewis, e persino Maradona, sono una combinazione di talento e allenamento.

In fondo, se ci pensate, l'istinto sarebbe di dire: se io avessi le gambe di Carl Lewis, non perderei tempo ad allenarmi.

Ma se Carl Lewis avesse deciso di svegliarsi ogni quattro anni e andare alle Olimpiadi a correre e saltare, avrebbe fatto fare una magra figura al suo talento. E infatti basta indagare un po' per scoprire che Car Lewis si allenava più di ogni altro, più di quelli che non erano Carl Lewis.

Quindi, non può essere difficile credere che lo stesso concetto (metodo, appunto) sia applicabile anche a Tolstoj e Flaubert, a Gabriel Garcìa Marquez e a Italo Calvino.

(Francesco Piccolo, Scrivere è un tic, Minimum Fax)

sabato 25 gennaio 2014

Imparare a scrivere è un'educazione alla quotidianità

Ci si trasforma, come diceva Rilke, in una persona che gestisce la casa in modo da tenere pronta e lucente la stanza degli ospiti, ogni giorno, in modo che se un giorno un ospite dovesse arrivare all'improvviso la sua stanza è già pronta, sempre pronta.

E si può andare oltre: la costanza e la pratica quotidiana della scrittura rendono la capacità di ospitare talmente elastica e continua, che quasi non ci si accorge più quando l'ospite è venuto e quando no, se è stato per poco o per tanto, se tornerà. 

Si diventa, se si è bravi, come quei padroni di casa che sanno ospitare come senon ospitassero, che hanno superato il limite della gentilezza e la loro casa è sempre aperta, chiunque arrivi, e chiunque arriva non si sente più un ospite. 
Imparare a scrivere è, in pratica, una educazione alla quotidianità.  

(Francesco Piccolo, Scrivere è un tic, Minimum Fax) 

venerdì 29 marzo 2013

Se siamo fortunati, finito l'ultimo paio di righe

Se siamo fortunati, non importa se scrittori o lettori, finiremo l'ultimo paio di righe di un racconto e ce ne resteremo seduti un momento o due in silenzio. 

Idealmente, ci metteremo a riflettere su quello che abbiamo appena scritto o letto; magari il nostro cuore e la nostra mente avranno fatto un piccolo passo in avanti rispetto a dove erano prima.

La temperatura del corpo sarà salita, o scesa, di un grado. Poi, dopo aver ripreso a respirare regolarmente, ci ricomporremo, non importa se scrittori o lettori, ci alzeremo e, "creature di sangue caldo e nervi", come dice un personaggio di Cechov, passeremo alla nostra prossima occupazione: la vita. 

Sempre la vita.

(da Raymond Carver, Da Dove sto chiamando, Minimum Fax)

giovedì 28 febbraio 2013

Una mattina vorrei alzarmi presto

Una mattina vorrei alzarmi presto,
prima dell'alba. Perfino prima degli uccelli.
Voglio lavarmi il viso con l'acqua fredda
e mettermi al tavolo da lavoro
appena il cielo schiarisce e il fumo
comincia a salire dai comignoli
delle altre case.
Voglio vedere le onde infrangersi
su questa costa rocciosa, non solo sentirle
come ho fatto tutta la notte nel sonno.
Voglio rivedere le navi
che attraversano lo Stretto, provenienti
da tutte le nazioni marinare del mondo...
vecchi, sporchi bastimenti che appena si muovono
oppure navi da carico nuove e veloci
dipinte di tutti i colori dell'arcobaleno
che tagliano l'acqua quando passano.
Voglio tenerle d'occhio.
Anche la barchetta che fa la spola
tra le navi
e la stazione di piloti vicino al faro.
Voglio vedere quando sbarcano un uomo
e ne prendono un altro a bordo.
Voglio passare la giornata a osservare questi eventi
e arrivare alle mie conclusioni.
Detesto sembrare troppo avido - ho già tanto
per cui essere grato.
Ma vorrei alzarmi presto un'altra mattina, almeno.
E andare al mio posto con un po' di caffé, per mettermi in attesa.
In attesa di vedere quel che accadrà.

(da Raymond Carver,  Orientarsi con le stelle, Minimum Fax)

mercoledì 23 gennaio 2013

Lo scrittore che non aveva tempo di scrivere

Negli Stati Uniti sono già pronti a metterci la mano sul fuoco: sarà lui lo scrittore dell'anno. Affermazione certo che suona un po' acerba, visto che siamo a gennaio. Però non c'è dubbio che Georges Saunders sia sulla cresta dell'onda. Il New York Times si è inchinato al suo talento, autori come Dave Eggers e Thomas Pinchon non hanno risparmiato gli elogi.

In Italia dovremo attendere ancora un po' per leggere il libro per cui tante parole si sono sprecate. Ma di Tenth of December - i cui diritti sono stati acquistati da Minimum Fax - la cosa che risalta è che si tratta di una raccolta di racconti.

I racconti, si sa, fanno gridare meno al capolavoro di quanto capiti ai romanzi. Ma perché Saunders scrive racconti? Mi piace cosa ha risposto ad Antonio Monda, sulle pagine di Repubblica.

Insomma, se scrive racconti è perché si è formato su autori come Isaac Babel o Sherwood Anderson, che il meglio di loro lo hanno dato nei racconti. E poi la brevità è bellezza, senz'altro, ed è affascinante raccontare in poche pagine qualcosa di compiuto.

Tuttavia, nella mia scelta narrativa, c'è un dato puramente pragmatico: quando ho iniziato a scrivere non avevo un dollaro e dovevo barcamenarmi tra mille occupazioni. Non avevo il tempo di concepire e scrivere qualcosa di lungo.

E sapete, trovo la cosa splendidamente americana. Così vera, così semplice, al limite dell'ingenuità. 

venerdì 14 dicembre 2012

Quei racconti che colgono il momento della svolta

Di Kevin Canty non avevo mai sentito nemmeno il nome, prima di acquistare questo libro per un impulso inspiegabile, o forse per la copertina che mi aveva colpito. E per questo titolo: Tenersi la mano nel sonno (Minimum Fax).

Ho scoperto un grande autore di racconti, dalla penna affilata, capace di scavare dietro le situazioni più ordinarie e a volte scontate, per riportare a galla emozioni, solitudini, angosce, speranze, cittadino a pieno titolo del grande racconto americano di questi anni, che non è solo Raymond Carver.

Con una diversa intensità e crudezza, probabilmente, ma con la stessa capacità di portarci dentro il momento, quel momento che è una sospensione, un indugio, un possibile punto di svolta prima di qualcosa che deve accadere.

Per non dire dell'ambientazione, in un'America diversa da quella di tanta narrativa.

E tra tutti i racconti, un'emozione particolare per Flipper, per Il vestito rosso ma soprattutto, per quanto mi riguarda, per Carolina Beach, il toccante inizio di una storia tra una malata terminale e un uomo che pare non appartenere più a niente. Davvero bello.

mercoledì 5 dicembre 2012

Capablanca e la rivincita a scacchi che non ci fu

L'incoscienza del cubano un poco la commosse. Per lui la giovinezza era ancora la possibilità di irridere teorie e manuali. Di imporre solo la forza maleducata della sua età. E dissipare il proprio talento

Forse era proprio questo, José Raùl Capablanca, uno dei più grandi campioni di scacchi di tutti i tempi, ma anche un uomo - e un personaggio - assolutamente distante dall'idea che abbiamo del campione di scacchi. Non una sorta di computer con i neuroni al posto dei bit, non una macchina pensante capace solo di calcoli, non di emozioni.

Capablanca era ben altro, lo era già nelle sue origini, nel suo appartenere a un'isola come Cuba che pare non avere niente a che vedere con gli scacchi, perché gli scacchi, uno pensa, stanno bene in una Siberia dello spirito, freddo fuori e silenzio intorno a te, non al caldo dei Tropici, dove la vita scorre per strada, ed è pulsare di sangue, frenesia, passione accesa...

Così si pensa e invece ecco Fabio Stassi che con La rivincita di Capablanca (Minimun Fax) ci racconta una splendida storia di genio e sregolatezza.

Non un libro sugli scacchi, però: nessuna descrizione di partite, nessuna disquisizione su gambetti e arrocchi. Piuttosto una storia sulle passioni che possono annidarsi nel cuore dell'umano e segnarne la vita irrimediabilmente. Una storia di rivalità, di destini incrociati, di traguardi che si allontano all'ultimo istante, di obiettivi che sfumano come miraggi.

Capablanca e il suo avversario di sempre Aleksandr Aljechin, il russo che lo aveva battuto e che poi si rifiutò di accordargli la rivincita.

Una partita che non ci sarà mai - o forse sì, chissà. Perché gli scacchi sono come la vita, in cui non sai mai cosa è sogno, cosa realtà. Perché la vita - e qui mi tornano in mente gli scrittori del sogno mitteleuropeo, come Stefan Zweig e Arthur Schnitzler - è spesso davvero una partita a scacchi. E a volte è la possibilità di una partita, a volte una rivincita che non viene accordata.

lunedì 30 luglio 2012

Quando una torta al limone non è solo una torta

Il cibo è pieno di sentimenti, dissi, spingendo via il mio piatto.
Sentimenti?, domandò papà. Per un attimo mi scrutò attentamente, fisso.
Non sono riuscita a mangiare il mio sandwich, dissi con voce tremante. Non riesco a mangiare la torta.
Ah, una cosa così, disse papà, riappongiandosi allo schienale. Certo. Anch'io sono stato uno difficile con il mangiare. Una volta ho passato un anno intero mangiando solo patatine fritte.
Avevano il sapore delle persone?, domandai. 


Aimee Bender è una di quelle scrittrici che credo abbondino in America. Perlomeno ho già avuto la fortuna di conoscerne diverse. Scrittrici di gran talento, capaci di raccontare la vita quotidiana con l'incanto di unha fiaba, brave ad azzeccare la frase giusta per illuminare un gesto, uno sguardo, un silenzio.

Leggi Aimee Bender e credi di capire perché scrivere sia così importante, perché leggere faccia bene alle nostre giornate. E tutto sommato riesci perfino a persuadertene, benché in tanta bravura ci sia anche qualche cosa che suona come una moneta falsa. Non che tutto debba essere vero - e perché poi lo dovrebbe essere in una scrittura che cerca di mescolare alla realtà la spezia di un'insolita magia?

E' che di tanto in tanto la bravura sembra un po' fine a se stessa, come dire, una sorta di virtuosismo.

E' la sensazione che ho provato leggendo L'inconfondibile tristezza della torta al limone (Minimum Fax). Come se a una cena superlativa mancasse l'ultimo tocco, quello che ti attendevi per gridare al capolavoro.

Finisci la cena e non sai se prevale il rimpianto o la soddisfazione per ciò di cui comunque hai goduto. Però una cosa è sicura, comunque la prendiate non rimarrete indifferenti a Rosie, la bambina che può sentire le emozioni di chi ha preparato ciò che sta mangiando.

E mi sa che finirete anche voi come me, la prossima volta che vi metterete a tavola. A soppesare un piatto di spaghetti o anche una mozzarella, senza che vi importi, ovvio, degli ingredienti riportati sulle confezioni, ma delle emozioni sì, delle emozioni nel cibo, come no. 

domenica 8 aprile 2012

Raymond Carver, alzarsi presto almeno una mattina

Una mattina vorrei alzarmi presto,
prima dell'alba. Perfino prima degli uccelli.
Voglio lavarmi il viso con l'acqua fredda
e mettermi al tavolo da lavoro
appena il cielo schiarisce e il fumo
comincia a salire dai comignoli
delle altre case.
Voglio vedere le onde infrangersi
su questa costa rocciosa, non solo sentirle
come ho fatto tutta la notte nel sonno.
Voglio rivedere le navi
che attraversano lo Stretto, provenienti da tutte
le nazioni marinare del mondo...
vecchi, sporchi bastimenti che appena si muovono
oppure navi da carico nuove e veloci
dipinte di tutti i colori dell'arcobaleno
che tagliano l'acqua quando passano.
Voglio tenerle d'occhio.
Anche la barchetta che fa la spola
tra le navi
e la stazione dei piloti vicino al faro.
Voglio vedere quando sbarcano un uomo
e ne prendono un altro a bordo.
Voglio passare la mia giornata a osservare questi eventi
e arrivare alle mie conclusioni.
Detesto essere troppo avido - ho già tanto
per cui essere grato.
Ma vorrei alzarmi presto un'altra mattina, almeno.
E andare al mio posto con un po' di caffè, per mettermi in attesa.
In attesa di vedere quel che accadrà.

(Raymond Carver, Almeno, tratto da Orientarsi con le stelle. Tutte le poesie, Minimum Fax)

lunedì 24 ottobre 2011

La letteratura non nasce da ciò che sappiamo, ma da ciò che non sappiamo. Ciò che ci incuriosisce. Che ci ossessiona. Che vogliamo conoscere

Era un personaggio, Grace Paley, scrittrice e poetessa americana, anzi newyorkese, squisitamente newyorkese, una di quelle scrittrici che c'è il rischio di catalogare come minore e di dimenticare a qualche anno dalla morte - lei che è scomparsa nel 2007 - solo che sarebbe un maledetto peccato.

Era un personaggio, lei che era figlia di immigrati, famiglia di ebrei ucraini tra le cui fila non si contavano rivoluzioni, dissidenti e sognatori. Lei che non scriveva per vivere e non viveva per scrivere, tanto che per 15 anni non scrisse poprio nulla, a dispetto dei suoi successi, perché voleva semplicemente vivere, perché aveva da pensare alla famiglia, alle amiche, a un mondo da cambiare. Lei che poi alla fine ci ha lasciato solo tre raccolte di racconti e una manciata di poesie.

Fedeltà, pubblicata da Minimum Fax, ci offre i versi di Grace nell'ultima stagione della vita, donna ormai di 80 anni, piegata forse nel fisico, ma certamente non nel carattere. E nel titolo di questa raccolta, c'è già tutta questa donna: capace di essere fedele a se stessa, alle persone care, all'idea di un mondo più decente e dignitoso per tutti.

Diceva, Grace:


Credo nella fedeltà alle mie idde originali, è il modo che ho per oppormi alle mode imperanti

E non so se la fedeltà sia davvero una virtù degli anziani, come si dice. Però mi sembra ancora di vedermela la cara vecchia Grace, la vecchietta ebrea di New York che, scarpe da ginnastica e gomma da masticare in bocca, non si stancava di distribuire i suoi volantini di protesta, all'angolo di quella Sesta Avenue che ispirava anche le sue poesie.


mercoledì 7 settembre 2011

Il sabato sera del ragazzo inglese

Perché era sabato sera, il momento più felice e festoso della settimana, uno dei cinquantadue giorni di vacanza sulla lenta ruota panoramica dell'anno, un violento preambolo a una domenica di prostrazione

Per Arthur, giovane operaio inglese, la febbre del sabato sera è un copione che si ripete: il giro dei pub, le sbronze, le risse, il sesso con donne sposate. Tutto quello che non c'è nel resto della settimana, perchè il resto è solo la routine del lavoro nella sua fabbrica di Nottingham.

L'adrenalina di questi fine settimana, il loro concentrato di pulsioni e trasgressioni, non cambieranno il mondo, anzi, non lasceranno niente se non un cerchio alla testa la domenica mattina. Eppure è tutto ciò che Arthur ha disposizione per gridare il suo rifiuto contro una vita che per lui è già tutta scritta, faticare alla catena di montaggio e mettere su famiglia.

Prima di avventurarvi in queste pagine, osservate la data. Saturday Night e Sunday Morning  (ripubblicato oggi in Italia da Minimun Fax) è del 1958: un'altra Inghilterra, un altro mondo, quello delle grandi fabbriche e del benessere che non esclude più gli operai, perché anche loro possono cominciare a sperare in una casa di proprietà, nella televisione, nella settimana al mare.

Arthur, in fondo, beneficia di ciò che altri hanno conquistato sul terreno dei diritti. Ha soldi in tasca - poco importa se se li sputtana in birre - e un giorno avrà la sua pensione. Eppure, in una vita in cui mancano le speranze, in cui è già assente ogni soggetto collettivo (per dirne uno, il sindacato), Arthur è solo, Arthur non ha futuro.

Alan Sillitoe - lo stesso scrittore di La solitudine del maratoneta, uomo che viene dall'Inghilterra delle industrie e del lavoro proletario - ci ha regalato un romanzo di esordio folgorante, capace di regalarci tutta un'epoca, ma anche un personaggio destinato a rimanere.

Poco importa che Arthur non sia assolutamente simpatico. Che molte volte vorresti fermarlo, prenderlo per le spalle, portarlo via dal disastro incombente. Qui c'è tutta una generazione che non è stata raccontata. Con una frattura che la separa dai padri e che non è quella del giovane Holden e tantomeno quella del Sessantotto.

Questo libro l'ho letto negli stessi giorni delle rivolte a Londra e nelle altre città inglesi. Ho pensato ad Arthur e poi a questi ragazzi dei nostri anni con ancora meno futuro - dove è finito il lavoro? - e ancora meno capaci di intravedere una possibilità di protesta che vada oltre il saccheggio.

E ho pensato che questo libro del 1958 forse ci può aiutare a capire un po' di più. E magari a scorgere anche qualcosa che sa di speranza, con i lampi di tenerezza, improvvisi e disorientanti, che anche uno come Arthur sa regalare.

martedì 30 agosto 2011

Se il pedone sogna di diventare regina



Gli era tornata in mente una domanda che si erano fatti una sera, per gioco, a Pietroburgo.

Cosa sogna un pedone?, gli aveva chiesto il russo, e allora era parsa a entrambi una questione divertente. 

Adesso, a tanti anni di distanza, la faccenda gli suonava più misteriosa, e ostile. E per poco, in questa camera arredata con umiltà, ebbe l'impressione di aver capito. 


Cambiare natura. Raggiungere l'ottava traversa. Non rassegnarsi all'infelicità del proprio stato. 


La chiave di tutto era nell'ansia di una metamorfosi, nel sogno dei pedoni di diventare regine. 


(da Fabio Stassi, La rivincita di Capablanca, Minimum Fax)

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...