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martedì 7 aprile 2020

Le lacrime che fanno davvero grandi gli eroi

Sul promontorio piangeva, seduto, là dove sempre 
con lacrime, gemiti e pene straziandosi il cuore,
al mare mai stanco guardava, lasciando scorrere lacrime.

Ecco, è così che entra in scena. Non mentre abbandona Troia vinta e saccheggiata, non mentre sfida il canto delle Sirene oppure trova il modo di sfuggire a Polifemo. Dopo aver narrato le vicende di Itaca e altri luoghi, Omero gli si avvicina e lo coglie così: un uomo che guarda il mare e piange, sospirando il ritorno per cui è disposto a rinunciare all'immortalità.

E' con questa immagine che si apre Le lacrime degli eroi di Matteo Nucci (Einaudi), libro affascinante, per certi versi spiazzante, a cui sono tornato più volte. Mi sembra una lettura particolarmente adatta in tempi come questi, in cui l'inquietudine morde ma spesso non ci lascia sfogo. 

Comincia con Ulisse, questo libro, ma abbraccia tutto l'antico mondo degli eroi. Di loro conosciamo le imprese, li abbiamo seguiti nei loro combattimenti e nelle loro vendette, non riusciamo a immaginarceli senza le loro armi: sono tali per il coraggio, la fermezza, lo sprezzo del pericolo. Eppure - e di questo riusciamo a essere meno consapevoli - piangono, piangono molto.

Sono inzuppati di lacrime, i versi che gli sono stati dedicati. Lacrime di dolore e rabbia, di amore e nostalgia, ma in ogni caso lacrime.

Persino di Achille, dell'eroe dalla cui ira funesta discende un intero poema, ricordiamo più volentieri le lacrime sul corpo di Patroclo, oppure le lacrime al cospetto di Priamo, il re nemico che ormai è solo un anziano che piange i figli persi.

Lacrime e a volte - incredibile - persino il desiderio del pianto: desiderio nobile, debolezza che non sminuisce ma rende ancora più grandi. Desiderio che Matteo Nucci trasforma in un viaggio attraverso le storie e i sentimenti. Parlando al nostro tempo, alla nostra mortalità, a ciò che siamo e possiamo essere.

sabato 20 settembre 2014

Fermor: forse i viaggi non possono finire mai?

Forse i viaggi, i grandi viaggi, non possono finire mai?

Fermor non rispondeva a domande di questo genere. Aveva quell'atteggiamento di sospensione assolutamente inglese benché fosse ormai così greco e, come il suo amico Katsìmbalis (il poeta  che è il "colosso"  raccontato da Henry Miller in "Il colosso di Maroussi"), fosse invincibile in qualsiasi sfida di ouzo, anche nelle più sorde taverne del Pireo.

La Bbc lo aveva descritto come "un incrocio fra Indiana Jones, Bond e Graham Greene", ma è un quadro che potrebbe andar bene solo per chi non ne ha mai sentito il nome e soprattutto non ha mai letto i suoi libri.

Non era Byron, del resto, e non era Chatwin. Chatwin morendo aveva chiesto che le proprie ceneri fossero sparse accanto a una chiesetta peloponnesiaca a Exochori, poco lontano da Kardamili.

Fermor, malato da tempo e novantaseienne, quando capì che non c'erano più lettere da battere sulla macchina da scrivere e non c'erano più To Be Continued da vergare, lasciò la casa di pietra di Kardamili e prese un aereo per tornare dove era nato.

Il giorno dopo il suo arrivo, in Worcestershire, salutò tutti.

(da Matteo Nucci, Lo scrittore d'avventura, ricordo di Patrick Leigh Fermor sul Venerdì di Repubblica)

sabato 23 novembre 2013

John Williams, strana cosa la gloria letteraria

Di lui, anzi della sua scrittura, Ian McEwan ha scritto parole così:

Sembra aver toccato la verità umana come succede nella grande letteratura. È quel tipo di prosa che non vuole mostrarsi. È quel tipo di scrittura simile a una superficie di vetro, riesci a vedere immediatamente le cose di cui parla. E credo che questo sia entusiasmante di per sé. 

 Parla di John Williams,  autore credo assai poco conosciuto in Italia, benché il suo Stoner venga considerato uno dei capolavori del Novecento e benché a proposito di un altro titolo, Butcher's crossing, qualcuno abbia scomodato persino Moby Dick.

Alla frase di McEwan sono arrivato leggendo una riflessione di Matteo Nucci sul Venerdì di Repubblica, in relazione a un altro libro di Williams, il suo Augustus, la storia dell'ascesa al potere di Ottaviano raccontata col piglio del grande narratore. Allora ho cercato su Internet e questo è quanto ho trovato.

Williams non ha scritto molto di più. Un altro titolo - Nothing but the night - può essere classificato come il suo primo insuccesso. A cui gli altri fecero seguito. Prima di morire stava lavorando a un altro manoscritto - The sleep of reason - titolo che ci sta più che bene visto l'argomento, la guerra.

Non ebbe fortuna in vita, questo figlio di contadini che arrivò a insegnare scrittura creativa nelle università americane. Per quanto mi riguarda mi sono ricordato solo ora di avere a casa un suo libro - mi ricordavo il titolo, Stoner, non l'autore. Augustus intendo comprarlo a breve. Dieci anni dopo la sua morte si comincia a parlare molto di John Williams. Strana cosa la gloria letteraria.

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