- Ho capito, e che cosa si fa laggiù dove crescono i nomi?
- Niente, c'è il vento e si prendono i nomi e poi crescono.
Su questo libro di Adrian N. Bravi mi è cascato l'occhio solo qualche settimana fa, alla splendida libreria Diari di Bordo di Parma. Ero lì per una mia presentazione, ma pochi giorni più tardi sarebbe stata la volta di questo scrittore, che è nato a Buenos Aires, ma vive a Recanati, e già questo mi piace molto: come se la sua vita fosse un ponte tra Borges e Leopardi.
Vai sicuro, mi hanno detto Antonello Saiz e Alice Pisu, i due librai. E certo che sì, di loro ci si può sempre fidare. La sera stessa ho attaccato L'idioma di Casilda Morena, anzi, mi ci sono immerso come succede con l'acqua del mare, quando è più tiepida e trasparente delle altre volte. Vi ho sentito il vento della Patagonia, il sentimento del viaggio in cui ci si perde per ritrovarsi, le strade che fanno le parole per imbattersi nella nostra vita, il sorriso di uno scrittore che deve essere stato felice mentre aggiungeva frase a frase.
Exòrma, certo, non sbaglia un colpo, mi sono ripetuto ancora una volta. Per poi scrollarmi di dosso anche questa affermazione e contentarmi di stare dentro questa storia. Adrian racconta di un giovane studente di linguistica che dal suo professore ha saputo di un'antica lingua della Patagonia che si credeva scomparsa e invece pare ancora parlata da due anziane persone. Come fare a impedire che si perda per sempre? Il ragazzo parte, attraverso l'oceano, arriva fino in fondo al continente americano, trova i due anziani che sì, sono gli ultimi depositari di quella lingua, solo che non la parlano: quella è stata la lingua del loro amore, non l'hanno più parlata da quando si sono separati.
E mentre anche il ragazzo trova altre parole per un amore che spunta, a fronte di quell'amore che non c'è più, ecco le parole che per quanto mi riguarda si fanno domanda. Una lingua muore quando non c'è più nessuno che la parla o muore quando non c'è più il sentimento a sostenerla?
E' la casa dove abitiamo la lingua, la casa che fa di noi quello che siamo. Me n'ero dimenticato e questo libro me ne ha reso di nuovo consapevole. Casa può essere qualche brandello di conversazione in una terra sbattuta dal vento, in fondo a un continente.
- Niente, c'è il vento e si prendono i nomi e poi crescono.
Su questo libro di Adrian N. Bravi mi è cascato l'occhio solo qualche settimana fa, alla splendida libreria Diari di Bordo di Parma. Ero lì per una mia presentazione, ma pochi giorni più tardi sarebbe stata la volta di questo scrittore, che è nato a Buenos Aires, ma vive a Recanati, e già questo mi piace molto: come se la sua vita fosse un ponte tra Borges e Leopardi.
Vai sicuro, mi hanno detto Antonello Saiz e Alice Pisu, i due librai. E certo che sì, di loro ci si può sempre fidare. La sera stessa ho attaccato L'idioma di Casilda Morena, anzi, mi ci sono immerso come succede con l'acqua del mare, quando è più tiepida e trasparente delle altre volte. Vi ho sentito il vento della Patagonia, il sentimento del viaggio in cui ci si perde per ritrovarsi, le strade che fanno le parole per imbattersi nella nostra vita, il sorriso di uno scrittore che deve essere stato felice mentre aggiungeva frase a frase.
Exòrma, certo, non sbaglia un colpo, mi sono ripetuto ancora una volta. Per poi scrollarmi di dosso anche questa affermazione e contentarmi di stare dentro questa storia. Adrian racconta di un giovane studente di linguistica che dal suo professore ha saputo di un'antica lingua della Patagonia che si credeva scomparsa e invece pare ancora parlata da due anziane persone. Come fare a impedire che si perda per sempre? Il ragazzo parte, attraverso l'oceano, arriva fino in fondo al continente americano, trova i due anziani che sì, sono gli ultimi depositari di quella lingua, solo che non la parlano: quella è stata la lingua del loro amore, non l'hanno più parlata da quando si sono separati.
E mentre anche il ragazzo trova altre parole per un amore che spunta, a fronte di quell'amore che non c'è più, ecco le parole che per quanto mi riguarda si fanno domanda. Una lingua muore quando non c'è più nessuno che la parla o muore quando non c'è più il sentimento a sostenerla?
E' la casa dove abitiamo la lingua, la casa che fa di noi quello che siamo. Me n'ero dimenticato e questo libro me ne ha reso di nuovo consapevole. Casa può essere qualche brandello di conversazione in una terra sbattuta dal vento, in fondo a un continente.
Ci sono libri che nascono da una nota in fondo a una pagina, oppure da uno sguardo distratto a un quadro.
Libri che non hanno alle spalle nient'altro che un moto di curiosità. Pare poca cosa, però è per questo che riescono a procedere lievi. E vanno avanti ad ampie falcate, liberi di scegliersi il loro cammino, senza bagaglio sulle spalle.
Ed è così, Un cacciatore di leoni di Olivier Rolin (Barbès edizioni)
Pensare che l'ho trascurato a lungo, nella pila riservata ai libri da leggere "prima o poi", più poi che prima però, tanto che sarà mai, roba per i patiti di storia dell'arte. Abbandonato lì, per questo pregiudizio e anche per un difetto di memoria. A Olivier Rolin, infatti, dovevo già un'altra bella lettura a sorpresa, Port Soudan. Uno di quei libri di cui a distanza di anni serbi un buon ricordo cassando il nome dell'autore, succede anche questo.
E che sorpresa anche questa volta. Questo è un libro che ti fa girare la testa da quanto racchiude. Come un albero carico di frutta matura che non resta che cogliere a piacimento. Prova provata che davvero può bastare quel moto di curiosità, basta per partire, perché poi tutto il resto si trova per strada. E' nell'ordine delle cose: connessioni che non si vedono solo per scarsa immaginazione.
E dunque c'è Edouard Manet, pittore tra i grandissimi del grandissimo Ottocento francese. C'è la Parigi Secondo Impero, decoro e affari, onorificenze e bordelli, colazioni sull'erba e fumi di assenzio. C'è la guerra con i prussiani e il sogno della Comune, le barricate e le fucilazioni. Ci sono albe livide, risvegli difficili, partenze che sono strappi al cuore. Ci sono le colonie di un mondo disegnato a uso e consumo di poche potenze europee, materie prime e riserve di caccia, missionari e avventurieri di ogni risma, ragion di Stato e richiami del basso ventre. E c'è la Patagonia, prima di Bruce Chatwin, anzi, prima ancora che il genocidio delle popolazioni indigene sia portato a compimento con la più grande disinvoltura.
Poi c'è questo Eugène Pertuiset, il soggetto del ritratto, l'uomo che attraversa tutte le storie. Il sedicente cacciatore di leoni. L'uomo che insegue la fortuna e si appiglia a quello che trova. Il fanfarone. L'uomo che vorrebbe fare la storia e si accontenta di tirare avanti. Come può. Senza troppi scrupoli di coscienza: i conti semmai li farà più tardi, come si fa a fine mese col negoziante sotto casa.
Manet ascolta, divertito, queste inezie gonfiate. Peccato, pensa, che non si possano dipingere i discorsi. Non potendo dipingere le parole, dipingerò un giorno la bocca che le proferisce
Ci riesce benissimo, il pittore. Poi arriverà Rolin e lo dipingerà con le parole, quest'uomo il cui lignaggio non è nobile, ma antico sì, perché mi porta dalle parti del Plauto e del suo miles gloriosus.
Quest'uomo che forse è addirittura un po' migliore di come si presenta, perchè l'arte, almeno l'arte l'ha annusata. Ha incrociato le vite degli artisti come un elefante in un negozio di porcellana, in realtà senza nemmeno sapere cosa sia l'arte, ma ha comunque avuto abbastanza sensibilità da ammirarla, da lontano, come chi contempla un paesaggio.
Insolito balordo a cui mi sento più vicino di quanto vorrei.
Brava la casa editrice Barbès, bravo il curatore e traduttore Tommaso Gurrieri, per il coraggio e l'intelligenza con cui ci hanno proposto queste pagine.