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venerdì 12 aprile 2019

In Patagonia, alla ricerca della lingua che ha perso l'amore

- Ho capito, e che cosa si fa laggiù dove crescono i nomi?
- Niente, c'è il vento e si prendono i nomi e poi crescono.

Su questo libro di Adrian N. Bravi mi è cascato l'occhio solo qualche settimana fa, alla splendida libreria Diari di Bordo di Parma. Ero lì per una mia presentazione, ma pochi giorni più tardi sarebbe stata la volta di questo scrittore, che è nato a Buenos Aires, ma vive a Recanati, e già questo mi piace molto: come se la sua vita fosse un ponte tra Borges e Leopardi. 

Vai sicuro, mi hanno detto Antonello Saiz e Alice Pisu, i due librai. E certo che sì, di loro ci si può sempre fidare. La sera stessa ho attaccato L'idioma di Casilda Morena, anzi, mi ci sono immerso come succede con l'acqua del mare, quando è più tiepida e trasparente delle altre volte. Vi ho sentito il vento della Patagonia, il sentimento del viaggio in cui ci si perde per ritrovarsi, le strade che fanno le parole per imbattersi nella nostra vita, il sorriso di uno scrittore che deve essere stato felice mentre aggiungeva frase a frase.

Exòrma, certo, non sbaglia un colpo, mi sono ripetuto ancora una volta. Per poi scrollarmi di dosso anche questa affermazione e contentarmi di stare dentro questa storia. Adrian racconta di un giovane studente di linguistica che dal suo professore ha saputo di un'antica lingua della Patagonia che si credeva scomparsa e invece pare ancora parlata da due anziane persone. Come fare a impedire che si perda per sempre? Il ragazzo parte, attraverso l'oceano, arriva fino in fondo al continente americano, trova i due anziani che sì, sono gli ultimi depositari di quella lingua, solo che non la parlano: quella è stata la lingua del loro amore, non l'hanno più parlata da quando si sono separati.

E mentre anche il ragazzo trova altre parole per un amore che spunta, a fronte di quell'amore che non c'è più, ecco le parole che per quanto mi riguarda si fanno domanda. Una lingua muore quando non c'è più nessuno che la parla o muore quando non c'è più il sentimento a sostenerla? 

E' la casa dove abitiamo la lingua, la casa che fa di noi quello che siamo. Me n'ero dimenticato e questo libro me ne ha reso di nuovo consapevole. Casa può essere qualche brandello di conversazione in una terra sbattuta dal vento, in fondo a un continente.




 

sabato 30 giugno 2018

Il mio Jack: c'è ancora strada?

Eppure funziona sempre così con Jack. Non lo trovi mai dove lo cerchi. Non ti risponde mai come ti aspetteresti. 

Forse è anche per questo che uno scrittore così intrinsecamente americano, inimmaginabile in un altro paese, ha saputo conquistare generazioni di giovani europei -  soprattutto italiani, francesi e tedeschi – con una presa ininterrotta anche quando negli Stati Uniti la sua parabola era in declino. 


Forse anche per questo ha saputo parlare alla generazione che nella politica ha coltivato le sue speranze di cambiamento, malgrado le sue stesse convinzioni. Parlando anche alla generazione successiva, quella che sulle macerie di quelle speranze se n’è andata per il mondo, poco importa se in Tibet, in Patagonia o in Nicaragua. 


 E oggi? Ora che è considerato uno dei più grandi scrittori americani del Novecento, i ragazzi di vent’anni possono ancora riconoscersi in Jack Kerouac? 


Che poi è una domanda assai meno scomoda rispetto all’altra: ovvero quanto possa riconoscermi ancora io, alla mia età. 


(da Jack Kerouac. The man on the road, Edizioni Clichy)

giovedì 8 giugno 2017

L'esilio dell'uomo che era il suo cane

Non so quando cominciai a divertirmi a collocare nell'aria i nomi delle città, dei paesi, delle regioni, però ricordo bene che mettevo tutto a posto e poi mi facevo i complimenti.

Apri una pagina a caso de L'esilio dei moscerini danzanti giapponesi di Marino Magliani (Exòrma) ed è facile imbattersi in una frase così, che ti entra dentro per muoverti qualcosa. Frasi come: La nostalgia non la senti quando sei lontano, ma quando sei lì, al tuo paese, e sai che fra poco te ne vai. Oppure: Per quanto mi riguarda, non c'è mai stato un momento in cui io non abbia invidiato chi riusciva a risiedere.

Anche solo per questo raccomanderei la lettura, perché è scrittura densa, mai banale, capace di andare a fondo. Però c'è molto di pù, perchè dentro c'è tutta una vita, sospesa tra arrivi e partenze, tra radici ed esilio.

C'è un uomo - un uomo in cui certo c'è molto di Marino - che è ligure di roccia, ligure di vallate da cui non si intravede il mare, che a un certo punto della giovinezza volta le spalle a un paese da cui si è sentito tradito. Ci sono gli anni dell'irrequietezza, tra la Costa Brava dei residenti della notte e un'Argentina che non è Buenos Aires e non è nemmeno l'immensità della Patagonia, ma un luogo sperduto nella pampa. C'è l'Olanda infine - infine? -  che diventa il nuovo posto dove vivere, con i suoi canali, le dune e l'odore del mare, con le finestre senza imposte e la buona educazione.

E c'è una donna, che è stata una possibilità ai tempi della scuola, ma una di quelle possibilità che per qualche ragione non  si concretizzano mai, rimangono sogno, desiderio, pensiero che non si fa passo o domanda. Possibilità ma ora anche riannodarsi di qualcosa, fuori tempo massimo, sia pure uno scriversi a distanza, un impiegarsi come punto di riferimento, come tessuto connettivo di una vita da raccontare in primo luogo a se stessi.

E c'è un mestiere che è quello di traduttore - e tradurre è un po' come viaggiare, un po' come andare e ritornare dalla Liguria all'Olanda, dall'Olanda alla Liguria - un mestiere che ha un significato particolare per un uomo che ha cominciato parlando il dialetto e facendo vivere le cose attraverso le parole del dialetto, siano frutta o interi paesi.

E ci sono molti incontri - persone come Peter, l'olandese che va a pesca e scrive poesie, perfetto esempio di regale marginalità - ma c'è anche immensa solitudine, una solitudine di vento e acqua salmastra, di lunghi pomeriggi senza luce e di passeggiate senza una meta e senza un motivo:

Lei non ha un cane, mi chiede ancora ogni tanto qualcuno.
Glielo spieghi tra quel po' di noia e di mezza contentezza perché in tutto il giorno non hai fatto una parola.
Brav'uomo, io sono il mio cane.

Ecco, cose così. Cose per cui merita leggere L'esilio di Marino. Non fosse altro che per saperne di più sui moscerini danzanti e su un altro piccolo animaletto - il talitro - nomade senza requie su dune che non sono quelle di Olanda, ma della mia Toscana.

Per questo e per provare a capire cos'è che ci mette in movimento, cos'è che ci fa sospirare il ritorno.

venerdì 7 aprile 2017

Mille giorni al Giglio, il lungo viaggio nella piccola isola

Infine, ci sono quelli che finiscono sull'isola dopo un naufragio. La letteratura ne è piena. E anche le cronache di questi ultimi tempi. Io sono tra questi, con una variante. Il naufragio non era il mio.

Così va la vita. Sei persona di terraferma, che magari di abitare un'isola lo hai solo sognato, senza peraltro sapere bene cosa significhi, perché l'isola è il mare d'estate, la vacanza, una settimana o forse due e poi via. Invece così va la vita, appunto, la Costa Concordia naufraga e su quell'isola, per motivi professionali, ti succede di passare una bella fetta della tua vita, qualcosa come tre anni.

Questo quanto è capitato a Michele Taddei, giornalista toscano, questo quanto ci racconta in  Cuore di Giglio (De Ferrari editore). Che non è un reportage, non è un diario o una testimonianza professionale, non è la cronaca dell'evento che ha catapultato il Giglio nella storia, separando di netto il prima e il dopo.Come i libri scritti davvero bene sfugge a tutte le facili definizioni: è molte cose e semmai, essendo molte cose, mi piace considerarlo un bel libro di viaggio.

 Ma come, ci sarà chi obietta, se dentro ci sono tre anni su una piccola isola?

Obiezione respinta. Ci sono grandissimi libri di viaggio che si misurano con una condizione di immobilità o comunque con uno spazio molto limitato. Prendete Prateria, di Least Heat Moon, magnifica cascata di parole per raccontare una sperduta contea in mezzo al nulla del Kansas. Solo per fare un esempio.

E dunque, quante cose ci sono dentro questo libro, quasi la storia della Concordia avesse smosso tutto, scatenando una tempesta di altre storie. Storie di mare e di terra, storie che stringono il cuore e altre che regalano una sorprendente dolcezza. Fari e vigne, chiacchiere e brindisi. Racconti che passano di bocca in bocca, davanti a un tramonto d'estate oppure al riparo in una notte di tramontana. Il passato che affiora ovunque, basta uscire per una passeggiata, basta tendere le orecchie tra una mano di carte e l'altra: e ora è l'ultimo allevatore di capre dell'isola, ora un archeologo originario delle Falkland come una sorta di Monument Man, ora sono i gigliesi di un tempo portati via dai turchi. Buone letture nelle ore più lunghe in inverno, perché ora c'è tempo per leggersi perfino Moby Dick, un altro capitano e un altro disastro del mare. Pirati e naufragi, magari in acque lontane - l'Andrea Doria, la Principessa Mafalda.

E' così con i libri di viaggio che sono davvero libri di viaggio. Non raccontano solo un viaggio, fanno viaggiare il lettore, lo portano lontano sul tappeto volante delle parole. E non c'è solo un altrove, ci sono tanti altrove, quante sono le citazioni, le suggestioni, i rimandi, gli intrecci delle storie.

Puoi accompagnare Michele fino all'estremo lembo dell'isola, respirare forte, guardarti intorno, distrarti per un attimo. E magari sei già in Patagonia, con Coloane, o forse nell'isola dei Feaci, con Ulisse. Poi ti scuoti e ti ritrovi: nella meravigliosa isola del Giglio, dentro la storia. 








giovedì 11 agosto 2016

In viaggio con Tito, a caccia di ombre

Racconta Luis Sepùlveda in Patagonia Express:

Iniziai a camminare nel parco, poi per le strade deserte, e all'improvviso mi accorsi che l'eco dei miei passi si moltiplicava. Non ero solo. Non sarei stato solo mai più. Coloane mi aveva passato i suoi fantasmi, i suoi personaggi, gli indio e gli emigranti di tutte le latitudini che abitano la Patagonia e la Terra del Fuoco, i suoi marinai e i suoi vagabondi di mare.

L'avevo già incontrata, questa frase, però sono contento che Tito Barbini l'abbia scelta come epigrafe de Il cacciatore di ombre, che dopo esser uscito per Vallecchi, viene riproposto ora da Aska.

Soprattutto libro che non ci sarebbe mai stato senza la scoperta dell'autore di non essere più solo. Aveva per compagno di viaggio un uomo che solo per l'anagrafe non c'era più, Don Patagonia, straordinaria figura di missionario ed esploratore.

Da scoperte così, ne sono convinto, devono essere segnati i nostri viaggi. Per dire, come fate a percorrere ciò che rimane del Vallo di Adriano, nel nord dell'Inghilterra, senza avvertire alle vostre spalle i passi dell'imperatore e dei suoi centurioni? Come fate a incamminarvi per la Via Francigena senza lasciarvi accompagnare dalle ombre dei suoi pellegrini?

Non siamo mai soli, nei nostri viaggi. Non lo dobbiamo essere. Coltiviamo la compagnia che ci arriva da altri tempi. Altre profondità regalano ai nostri viaggi.

lunedì 27 giugno 2016

Sognando l'Australia insieme a Bill Bryson

 Solo sei mesi prima questa mi sarebbe sembrata la più deprimente delle punizioni immaginabili: guidare all'infinito attraverso un paesaggio in gran parte caldo, arido e vuoto. Ma adesso lo capivo benissimo. Tutto quel vuoto e quella luce abbagliante hanno una qualità seducente di cui potete non stancarvi mai: un pensiero stupefacente.

Ci sono arrivato in ritardo, ma ci sono arrivato. Con tutti i libri di Bill Bryson che in questi anni ho divorato, sempre con grande godimento, mi mancava proprio questo, In un paese bruciato dal sole. L'Australia. E vai a sapere perché l'avevo lasciato da parte, quasi avessi temuto il passo falso dell'autore che piace sempre o quasi sempre. Meglio seguirlo, il vecchio Bill, mentre è alle prese con i suoi vagabondaggi per la vecchia Europa o l'ancora più vecchia Inghilterra, mentre insegue l'ombra di Shakespeare o mentre si azzarda a riassumere in un solo libro - ancorché voluminoso - la storia del mondo.

E poi, a pensarci bene, che cosa poteva mai importarmi dell'Australia? Così remota, l'Australia, per di più senza esserlo davvero: mica un paese che sembra appartenere a qualcos'altro, come la Patagonia o il Bhutan, un paese che è distante ma dove alla fine si parla inglese e si appartiene al Commonwealth. L'Australia può forse essere un paese da sognare ma non da concepire per un viaggio: qualcosa del genere lo diceva il grande Pessoa.

Ovviamente era una gigantesca cantonata. Forse anche un alibi, di cui lo stesso Bill prende atto fin dall'inizio, quando rammenta che prestiamo un'attenzione scandalosamente scarsa ai nostri cari cugini degli antipodi e che soprattutto gli americani dimostrano un livello di attenzione che non è molto superiore a quello per la Bielorussia o per il Burundi. Solo per dire: chi mai si è accorto che anni fa il primo ministro australiano è stato portato via da un cavallone mentre passeggiava su una spiaggia e di lui non è stato più ritrovato niente?

Terra pericolosa, l'Australia. Terra di serpenti e ragni micidiali, di squali e altri animali assassini. Terra prosciugata da un sole infernale, terra vuota, di distanze inimmaginabili, di deserti che fanno paura. Quanto ad apprensioni non sono molto diverso da Bill. Però mi piace come sta dentro il suo personaggio, di viaggiatore goffo e curioso. In ogni caso sempre pronto alla domanda, all'incontro, alla meraviglia.

Gran paese, l'Australia. E' un pezzetto che me la sto sognando grazie a Bill. 

venerdì 14 agosto 2015

Amsterdam era un brivido di libertà

Era un brivido di libertà, Amsterdam, un sogno che aveva qualcosa a che vedere con altri sogni persi per strada. Anche un risarcimento, in un certo senso. 

Per ottenerlo erano sufficienti un treno nella notte, poche cose infilate in uno zaino e qualche lira in tasca – in tempi in cui l'euro non c'era e un viaggio era tale anche perché toccava cambiare valuta. 

Solo questo ed era un altro mondo che si spalancava. 

Chissà cosa aveva per la testa quel ragazzo che ero io. Chissà su quale futuro almanaccava. Oggi ad Amsterdam, domani in Tibet, o in Nicaragua, o forse anche in Patagonia. E sul serio, cosa avrei scelto nella vita? Il teatro d'avanguardia a New York o una capanna affacciata sul mare dei Tropici? 

Almeno almeno mi aspettava un appartamentino a Kreuzberg, il più  multietnico dei quartieri di Berlino. In ogni caso lontano. Oltre l'orizzonte su cui si allungava lo sguardo di ogni giorno. 

Via dal mio quartiere. Via dall'università da rievocare solo per le chiacchiere in corridoio e qualche morso di apprensione sul futuro, giustappunto. Via dalle cose che si poteva ragionevolmente pretendere dal sottoscritto. Lontano, lontano. 

E Amsterdam, è evidente, sarebbe stato un buon trampolino per staccarsi dalle cose come erano, verso le cose che mi attendevano.

(Paolo Ciampi, L'Olanda è un fiore, Ediciclo)

venerdì 19 giugno 2015

Inseguendo l'ombra dell'ultimo pirata

Di questo sono sempre più convinto: i libri più belli sono quelli che sfuggono alle classificazioni, che non si fanno catturare troppo facilmente dalla nostra smania di ordine.

Ne sono ancora più convinto ora che ho avuto modo di leggere - e di godermi - l'ultimo libro di Tito Barbini, che è un amico, ma soprattutto è un grande scrittore viaggiatore, o piuttosto un viaggiatore scrittore, parole che non è indifferente mettere in una sequenza piuttosto che in un'altra... ma questo è un altro discorso.

E dunque l'ho letto, mi sono emozionato, ho covato il desiderio di saperne di più. Con le parole sono volato via, fino alle terre più lontane e addirittura fino a un altro tempo. Poi sono tornato a casa, mi sono rigirato tra le mani questo piccolo grande libro che arricchisce la collana delle Non Guide di Mauro Pagliai e mi sono domandato quale fosse lo scaffale giusto: romanzo, biografia, letteratura di viaggio? Solo per dire le prime cose...

Di questo libro mi piace già il titolo - L'ultimo pirata della Patagonia - capace di evocarmi avventure, distanze, traiettorie di vita che si fanno largo tra armi e burrasche - e mi piace ancora di più il sottotitolo: Viaggi veri e immaginari nei mari e nella terra ai confini del mondo.

Se tutti hanno un loro altrove immaginato, desiderato, a volte raggiunto, l'altrove di Tito non può essere che la Patagonia: quel paese alla fine del mondo sul quale ci ha regalato già molte pagine importanti.

Nemmeno la Patagonia, però, con la sua capacità di evocare ciò che davvero ci è essenziale, potrebbe bastarci, se fosse soltanto la cronaca di un viaggio. Tito sa bene che l'altrove si coltiva con la storia, con le storie. Non muovendoci semplicemente da un posto all'altro, ma andando in profondità, respirando il passato, raccontando le vite.

Ed ecco, dunque, che dopo Don Patagonia, lo straordinario missionario del Cacciatore di ombre, Tito incrocia i suoi passi con un'altra ombra: quella di Pasqualino Rispoli, l'ultimo pirata dei mari a sud dello Stretto di Magellano, pirata ma anche molto altro, direi piuttosto un Corto Maltese: avventuriero la cui storia si mescola a molte altre storie, di anarchici e generali, prostitute ed esploratori, indios e latifondisti.

Di più non vi dico, ma sono convinto che è proprio questo che deve fare lo scrittore viaggiatore (o il viaggiatore scrittore?). Scorgere le ombre, sceglierle, farsi accompagnare. E poi raccontarle. Tito, da grande affabulatore, ci riesce benissimo.

sabato 4 aprile 2015

Era un brivido di libertà, Amsterdam

Era un brivido di libertà, Amsterdam, un sogno che aveva qualcosa a che vedere con altri sogni persi per strada. Anche un risarcimento, in un certo senso. 

Per ottenerlo erano sufficienti un treno nella notte, poche cose infilate in uno zaino e qualche lira in tasca – in tempi in cui l'euro non c'era e un viaggio era tale anche perché toccava cambiare valuta. 

Solo questo ed era un altro mondo che si spalancava. 

Chissà cosa aveva per la testa quel ragazzo che ero io. Chissà su quale futuro almanaccava. Oggi ad Amsterdam, domani in Tibet, o in Nicaragua, o forse anche in Patagonia. E sul serio, cosa avrei scelto nella vita? Il teatro d'avanguardia a New York o una capanna affacciata sul mare dei Tropici? 

Almeno almeno mi aspettava un appartamentino a Kreuzberg, il più  multietnico dei quartieri di Berlino. In ogni caso lontano. Oltre l'orizzonte su cui si allungava lo sguardo di ogni giorno. 

Via dal mio quartiere. Via dall'università da rievocare solo per le chiacchiere in corridoio e qualche morso di apprensione sul futuro, giustappunto. Via dalle cose che si poteva ragionevolmente pretendere dal sottoscritto. Lontano, lontano. 

E Amsterdam, è evidente, sarebbe stato un buon trampolino per staccarsi dalle cose come erano, verso le cose che mi attendevano.

(Paolo Ciampi, L'Olanda è un fiore, Ediciclo)

mercoledì 5 settembre 2012

Quel viaggio aveva il marchio indelebile dei commiati. Ovunque ci dirigessimo, sempre al sud del 42° parallelo, la gente ci diceva che tutto stava cambiando molto in fretta, e non in meglio. Se negli anni Settanta scomparivano le persone ingoiate dalla macchina dell'orrore, in quei giorni scomparivano cose che fino ad allora erano sempre naturalmente esistite, come parte indiscutibile della vita.

E' facile convincersi che in Patagonia niente possa cambiare. E' facile, se guardi il suo cielo stellato, se macini gli infiniti chilometri delle sue distese, se semplicemente ti abbandoni al vento che non cessa un attimo, vento che passa, vento che dura più delle rocce.

E' facile, però succede che un giorno, bevendo mate a Parigi, uno scrittore come Luis Sepulveda e un fotografo come Daniel Mordinski concepiscano un viaggio in Patagonia. Scenderanno l'Argentina fino a Capo Horn, risaliranno il Cile fino all'Isola Grande di Chiloè. Tremilacinquecento chilometri, più o meno, da cui distillare un libro come un atto di amore.

Poi per anni quell'idea - il libro, non il viaggio - rimane lì, come sprofondata in un sonno che è meglio non disturbare. I libri sono davvero bestie molto strane, imprevedibili, non li puoi forzare, devi attendere che si sveglino da soli.

E quando il momento arriva, il libro è già diventata un'altra cosa. La Patagonia è cambiata, non è più quella di Bruce Chatwin o di Francisco Coloane, si respira un'aura di inesorabilmente perduto.

E queste pagine sono allora un inventario delle perdite, un prezzo esoso pagato al tempo, l'ennesima domanda che insegue il verso di Kavafis:

E ora che faremo senza i Barbari?

giovedì 1 settembre 2011

Tito e Don Patagonia, cacciatori di ombre

C'è una frase che ci arriva dall'antica saggezza greca, per diventare un titolo di Antonio Tabucchi ma anche la chiave di lettura dell'ultimo bellissimo libro del mio amico Tito Barbini (Il cacciatore di ombre, Vallecchi, collana Off the Road)

Inseguendo l'ombra il tempo invecchia in fretta

E questo è davvero un libro in cui si insegue un'ombra per trovare molte ombre, popoli di ombre. Un libro che in questo inseguimento si impasta di tempo, si fa tempo, si preoccupa del tempo. Senza che in questo modo, necessariamente, il tempo debba invecchiare in fretta. Anzi, mi sa che è solo così, facendo in modo che il viaggio non sia solo distanza, ma anche profondità (e quindi tempo), che il tempo si rinnova e torna a farci compagnia.

Ho cominciato, in questo modo. Ma forse avrei dovuto dire subito che Tito questa volta ha spiazzato anche me. Spiazzerà anche voi, se grazie alle sue pagine vi siete fatti portare tra i ghiacciai della Terra del Fuoco o se con lui avete attraversato le distese dell'Antardide o risalito le correnti del Mekong.

Mi ha spiazzato, perché nel momento stesso in cui ci racconta un viaggio autentico -  e si respira la sua stessa aria, si sente la sua stessa fatica  - Tito riesce a sovvertire convenzioni, luoghi comuni, dati di fatto troppo scontati per non diventare prigione.

Insegue un'ombra, Tito, l'ombra di un uomo straordinario, Alberto Maria De Agostini (per inciso, il fratello del De Agostini sulle cui carte abbiamo tutti studiato e sognato), geografo, alpinista, fotografo, esploratore (uno degli ultimi grandi esploratori della nostra storia), missionario controcorrente, testimone del genocidio degli ultimi indios dell'America australe (altre ombre...). Un uomo che in Italia ci siamo troppo facilmente dimenticati, sarà perché pone qualche domanda imbarazzante, sarà che troppo spesso ci fa fatica guardare oltre il risaputo. In Argentina e in Cile, no, De Agostini è Don Patagonia, un mito, un monumento, un chiaro ricordo.

Ma non è questo, ovviamente, a spiazzare. Tito non cerca la biografia, ma il viaggio. E non il viaggio sulle orme di chi è già passato. Il viaggio in compagnia.


Non ho mai provato a definire in modo preciso le ragioni per cui mi sono messo a viaggiare con De Agostini, anche perché mi sembrava che fosse naturale. Succede che quando incontri per la prima volta alcune persone ti sembra di conoscerle da sempre.
Comunque uno dei motivi è di sicuro che con lui potevo andarmene via, puntare altrove

Viaggiano insieme, Tito e Don Alberto. L'ex militante comunista e il missionario cattolico. L'uomo che ci è contemporaneo e l'uomo a cavallo dell'Otto e del Novecento. Il vivo e il morto. I due vivi, anzi. I due cacciatori di ombre.

domenica 14 agosto 2011

Che ci faccio qui? La domanda delle domande

Ancora mi sembra di vedermelo davanti, con i suoi pantaloni corti da ufficiale britannico in missione nel deserto, la sahariana, lo zaino sulle spalle. Bruce Chatwin: giramondo avventuroso, curioso, persona a suo modo fortunata ma soprattutto inappagata.

Un uomo che sembra fatto apposta per regalare sogni da tenersi stretti, per riscaldare il cuore.

Dalla Patagonia che ha contribuito a trasformare in un mito letterario ai deserti dell’Australia dietro le vie dei canti immaginate dagli aborigeni e all’Afghanistan prima delle follie della guerra e del fanatismo. Dalla Toscana dove a lungo è stato ospite, in un castello del Valdarno, alla leggendaria Timbuctù.

Chatwin ha viaggiato per molti buoni motivi, ma soprattutto sospinto da un’irrequietezza esistenziale che a un certo punto gli ha fatto lasciare tutto per non fermarsi più. E proprie nelle pagine di questo libro, raccolte prima di una morte che è arrivata troppo presto, l’uomo con lo zaino sulle spalle ci racconta la sua straordinaria esperienza.

Ovunque nel mondo e ovunque accompagnato dalla solita domanda.

Che ci faccio qui?

Ieri l'occhio mi è cascato sullo scaffale dove custodisco tutti i miei libri dell'Adelphi. Mi è venuto naturale prendere in mano il volume che per titolo porta proprio questa domanda. Sfogliarlo e indugiarvi sopra.

Domanda che non è solo di Chatwin. Che è di tutti noi che camminiamo su questa terra. Fa bene, una domanda così.

sabato 18 settembre 2010

La Patagonia e il nostro deserto dei Tartari

Alle volte mi viene da chiedermi cosa sia stato il viaggio per Chatwin.  Da ragazzo amavo passare ore intere davanti al mio mappamondo. Tracciavo itinerari di viaggi immaginari. Erano sempre le terre estreme a imprigionare la mia fantasia. La Patagonia, assieme alla Terra del Fuoco era sempre in mezzo. Giochi di un ragazzo che, tuttavia, nascevano dal bisogno di scoprire il mondo là dove il mondo sembrava finire.


Tito Barbini è uno scrittore-viaggiatore (o un viaggiatore-scrittore?) che spero tutti abbiamo modo di conoscere, perché è un piacere usare i suoi libri come tappeti volanti per arrivare lontano. È anche un amico, con cui spesso ho parlato di libri e di viaggi. Per esempio della Patagonia che lui conosce come le sue tasche (giusto così, è un posto che si portava nel cuore fin dall'infanzia) e che io ho annusato solo attraverso le pagine scritte. Oppure di Bruce Chatwin, che a entrambi piace, e che pure a entrambi desta qualche perplessità.

Ora, sul suo bel blog, Tito mi lancia un altro spunto, che non posso non raccogliere, perché non solo parla di Chatwin, ma lo incrocia con uno dei libri che  da sempre porto con me (pensate, letto per la prima volta per l'esame di terza media, velo pietoso sugli anni passati): ovvero Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati.

Non ci avevo mai pensato, ma la suggestione funziona e la Patagonia si arricchisce di incanto di nuovi nomi: il tenente Giovanni Drogo, la fortezza Bastiani... pensare che il film che Valerio Zurlini ha tratto dalle pagine di Dino Buzzati regala le sabbie e il vento dell'Iran...

Scrive Tito, raccontando anche la sua Patagonia:

Come Chatwin il tenente Giovanni Drogo arriva in una terra estrema. Un’esplorazione fatta di lucide visioni, di ombre, di sussulti e misteri, di miti avulsi strappati a qualsiasi riferimento storico, universali perché fuori da ogni tempo. La Patagonia come la fortezza Bastiani. La fortezza è un avamposto al confine con il deserto. La Patagonia è il deserto. E come Drogo, Chatwin arriva in quella solitudine convinto di ripartirne presto. È sicuro di sé, di avere tutta la vita davanti. Trascorreranno molti anni prima di rendersi conto che il tempo è fuggito e con esso la sua idea iniziale di Patagonia. Ho pensato spesso al bellissimo racconto di Buzzati. Vale la pena rileggerlo in queste terre, per riflettere e guardarsi dentro.

Non avevo mai pensato che le sconfinate distese della Patagonia potessero essere l'equivalente dell'avamposto che guarda altre distese, quelle che non attraversi, ma da cui un giorno potrà arrivare qualcosa (o qualcuno) che ti cambierà la vita.

Non ci avevo pensato, ma fa bene pensarci, fa bene capire che anche il viaggio può essere attesa, che dietro tanto movimento si può nascondere una strana vertiginosa inquietante immobilità.

mercoledì 15 settembre 2010

Il pittore e quel balordo del cacciatore

Com'è accaduto che Manet, così spirituale, sia giunto a fare il ritratto di questo zotico dallo sguardo spento?

Ci sono libri che nascono da una nota in fondo a una pagina, oppure da uno sguardo distratto a un quadro.

Libri che non hanno alle spalle nient'altro che un moto di curiosità. Pare poca cosa, però è per questo che riescono a procedere lievi. E vanno avanti ad ampie falcate, liberi di scegliersi il loro cammino, senza bagaglio sulle spalle.

Ed è così, Un cacciatore di leoni di Olivier Rolin (Barbès edizioni)

Pensare che l'ho trascurato a lungo, nella pila riservata ai libri da leggere "prima o poi", più poi che prima però, tanto che sarà mai, roba per i patiti di storia dell'arte. Abbandonato lì, per questo pregiudizio e anche per un difetto di memoria. A Olivier Rolin, infatti, dovevo già un'altra bella lettura a sorpresa, Port Soudan. Uno di quei libri di cui a distanza di anni serbi un buon ricordo cassando il nome dell'autore, succede anche questo.

E che sorpresa anche questa volta. Questo è un libro che ti fa girare la testa da quanto racchiude. Come un albero carico di frutta matura che non resta che cogliere a piacimento. Prova provata che davvero può bastare quel moto di curiosità, basta per partire, perché poi tutto il resto si trova per strada. E' nell'ordine delle cose: connessioni che non si vedono solo per scarsa immaginazione.

E dunque c'è Edouard Manet, pittore  tra i grandissimi del grandissimo Ottocento francese. C'è la Parigi Secondo Impero, decoro e affari, onorificenze e bordelli, colazioni sull'erba e fumi di assenzio. C'è la guerra con i prussiani e il sogno della Comune, le barricate e le fucilazioni. Ci sono albe livide, risvegli difficili, partenze che sono strappi al cuore. Ci sono le colonie di un mondo disegnato a uso e consumo di poche potenze europee, materie prime e riserve di caccia, missionari e avventurieri di ogni risma, ragion di Stato e richiami del basso ventre. E c'è la Patagonia, prima di Bruce Chatwin, anzi, prima ancora che il genocidio delle popolazioni indigene sia portato a compimento con la più grande disinvoltura.

Poi c'è questo Eugène Pertuiset, il soggetto del ritratto, l'uomo che attraversa tutte le storie. Il sedicente cacciatore di leoni. L'uomo che insegue la fortuna e si appiglia a quello che trova. Il fanfarone. L'uomo che vorrebbe fare la storia e si accontenta di tirare avanti. Come può. Senza troppi scrupoli di coscienza: i conti semmai li farà più tardi, come si fa a fine mese col negoziante sotto casa.

Manet ascolta, divertito, queste inezie gonfiate. Peccato, pensa, che non si possano dipingere i discorsi. Non potendo dipingere le parole, dipingerò un giorno la bocca che le proferisce

Ci riesce benissimo, il pittore. Poi arriverà Rolin e lo dipingerà con le parole, quest'uomo il cui lignaggio non è nobile, ma antico sì, perché mi porta dalle parti del Plauto e del suo miles gloriosus.

Quest'uomo che forse è addirittura un po' migliore di come si presenta, perchè l'arte, almeno l'arte l'ha annusata. Ha incrociato le vite degli artisti come un elefante in un negozio di porcellana, in realtà senza nemmeno sapere cosa sia l'arte, ma ha comunque avuto abbastanza sensibilità da ammirarla, da lontano, come chi contempla un paesaggio.

Insolito balordo a cui mi sento più vicino di quanto vorrei.

Brava la casa editrice Barbès, bravo il curatore e traduttore Tommaso Gurrieri, per il coraggio e l'intelligenza con cui ci hanno proposto queste pagine.

lunedì 5 luglio 2010

Quel luogo a cui a un giorno arriviamo

Ha detto una volta Antonio Tabucchi: 

Un luogo non è mai solo “quel” luogo: quel luogo siamo un po’ anche noi. In qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro e un giorno, per caso, ci siamo arrivati

Sono d'accordo: quel luogo non è mai solo quel luogo. Quel luogo è quello che ci portiamo dentro. E' l'altrove che sta dentro il nostro immaginario, l'approdo di ciascuno di noi, la terra che ci appartiene o a cui apparteniamo.

Per Antonio Tabucchi è facile che quel luogo siano le Azzorre. Per altri sarà la Patagonia - mi viene in mente Tito Barbini - oppure la Mongolia - ricordo ciò che di questa terra ha scritto Giovanni Lindo Ferretti. Altri ancora coltiveranno il loro altrove in una baitina di montagna o nella pineta al mare di sempre. E ci sarà pure anche chi - forse il sottoscritto? - guarderà a Mompracem o piuttosto a qualche altra isola che non c'è.

L'importante è tenerne di conto, di quel luogo. Di non smarrirlo. Di non consentire che il tempo lo spazzi via con la sua terrificante capacità di amnesia.

domenica 13 dicembre 2009

Tito e le sue storie dalla fine del mondo


Da qualche settimana Tito Barbini è ripartito per la Patagonia, inseguendo le tracce di vite che certamente daranno sostanza a un suo nuovo libro. E' lontano, ma la posta elettronica è un gran bel modo per rimanere in contatto e, in questo caso, anche per ricevere ogni settimana le sue lettere. Qui sotto vi riporto una delle sue storie, pubblicata ieri anche dal Corriere di Arezzo


Storie dalla fine del mondo

Ci sono altre storie che devono essere narrate. Prima di tutto quelle delle donne e degli uomini che hanno abitato, per primi, quel mondo alla fine del mondo. E poi di altri, poeti, navigatori e santi, che hanno vissuto in quegli anni il più straordinario dei “passaggi a sud”, quello nella terra australe. Vanno raccontate, perché ci servono, servono comunque, anche se sono storie che davvero arrivano da lontano.
A volte rifletto su tutte le storie di questo mondo alla fine del mondo e poi provo a incrociarle con le storie di Arezzo, le confronto con le mie radici, con i volti delle persone, con le vicende della mia città e della politica. E non so come dire, ma da questo confronto mi sento arricchito, più forte, più attento, più consapevole. Sicuramente non fa male, come non fa male seguire a distanza le storie di Arezzo. Per certi versi è un modo per ridefinire la scala delle priorità, per capire ciò che è davvero importante.
E allora vi racconto della sparizione degli indios e soprattutto di Enriqueta Gastelumendi. Nome quasi impossibile per una piccola storia che mi va di condividere con tutti voi.
E’ morta a 91 anni, nell’agosto del 2004, l’ultima rappresentante degli indios Ona. Era nata il 15 luglio del 1913, era la più piccola di cinque figli di Ramon Guastalumendi, morto nel 1918, e di una Selk’nam, una Ona battezzata come Maria Felisa che morì nel 1949, senza aver imparato “nient’altro che quattro o cinque parole di spagnolo”. Oggi non sembra quasi possibile.
Era nata nella fattoria di un missionario bianco, un tale che si chiamava Thomas Bridge, uno dei primi europei a stabilirsi nella terra degli Ona. Forse a metterla al mondo era stato un fuggente attimo d’amore, dopo che la madre era stata rapita da uno spagnolo cacciatore di foche. Per questo lei era considerata impura dalla sua gente. Non aveva sangue intero, Enriqueta, ma non si considerò mai di razza meticcia. Volle essere e rimanere, dall’inizio alla fine, una donna della tribù degli Onas. L’ultima.
Io in tutto questo ci trova una coerenza e anche una schiettezza che sono valori da tenere sempre bene stretti.
Enriqueta portava con se il dolore infinito di uno degli eccidi più terribili, e meno conosciuti, tra i tanti consumati ai danni degli indios del Sudamerica. Un genocidio come quello che abbiamo conosciuto in altre vicende della storia recente, uno sterminio totale fatto da coloni e colonizzatori che venivano dall’Europa, soprattutto inglesi e olandesi.
Le isole dell’arcipelago fuegino erano abitate da non meno di seimila anni dagli Akaluf e dagli Yamanas: popoli che si scoprirono impotenti e terrorizzati all’arrivo dei primi coloni verso il 1880. Pensare che già avevano conosciuto l’uomo bianco, e la sua ferocia. Da tempo, infatti, i navigatori europei che passavano sulle navi lo stretto di Magellano si divertivano a ucciderli, cosi per esercitarsi al tiro.
Non andò certo meglio agli Onas che popolavano un poco più a Nord le radure dell’Isla Grande. A metà dell’800 arrivarono i cercatori d’oro dall’Italia, dalla Croazia, dalla Spagna e dalla Francia e gli allevatori di pecore dall’Inghilterra. Quando gli indios videro le pecore fu come andare a nozze. Erano più facili, molto più facili da prendere dei guanachi e la carne era più buona e la lana più calda.
Non l’avessero mai fatto, i coloni inglesi decisero di sterminarli. Misero una taglia di una sterlina per ogni paio di orecchie, testicoli o seni che provassero la morte di un aborigeno. E i cercatori d’oro non si fecero pregare due volte per partecipare alla caccia e battere cassa per le ricompense. Insomma ogni mezzo era lecito: lasciarono una balena adulterata in una spiaggia e 500 Onas morirono per averne mangiato le carni, altri 300 furono avvelenati a tradimento in un convivio che avrebbe dovuto sancire la pace. E chi non lasciò il mondo per una sterlina fu colpito dalle malattie oppure venne deportato in Europa ed esibito nei circhi equestri.
Si racconta di un certo Maurice Matre che si arricchì grazie a un gruppo di bambini Onas Faceva pagare il biglietto all’Esposizione di Parigi del 1889, per vedere i bambini in gabbia, costringendoli a mangiare carne cruda e presentandoli come cannibali.
Tra i cacciatori di teste si è distinto un inglese soprannominato Mister Bond, che portato in fondo il genocidio degli indios in Terra Del Fuoco, si spostò in Patagonia. Lì continuò a lavorare per l’industria laniera e nel 1921 partecipò ai massacri degli operai e dei sindacalisti durante il grande sciopero di quegli anni. In un solo giorno partecipò alla fucilazione di 17 lavoratori.
Tornando ai nostri Onas: nel 1905 erano rimasti meno di 500, nel 1945 erano 25. L’ultima discendente diretta, da parte di madre, è la nostra Enriquetta. E’ sepolta nel piccolo cimitero di Ushuaia.
Quando mi sono incamminato nel vialetto che porta alla sua tomba ho pensato che quelle lastre di granito fossero come dei libri di pietra. Archivi di umanità dove le pagine sanno di vita e non di morte. Sbuco dal vialetto e mi ritrovo davanti a una lastra con la foto di una donna dal sorriso ironico. Enriqueta, appunto.
Nessuno si prese la briga di insegnargli a leggere e a scrivere. A quindici anni sposò un uomo che non conosceva e per il resto della sua vita ha tirato avanti lavorando come un animale. “Ho imparato da sola”, raccontò prima di morire a un giornale argentino parlando delle sue sculture.
Già, perché Enriqueta ha dedicato quasi tutta la sua vita a disegnare e a scolpire. E’ bello ricordarsela così, anche questo serve, non fosse altro che perché aiuta la consapevolezza di quanti talenti e di quanta arte abbiamo intorno a noi, a prescindere dai riconoscimenti, dai titoli accademici, a prescindere dai nostri pregiudizi.
Enriqueta intarsiava la “lenga”, il legno della Terra del Fuoco riproducendo volti e animali che, come per magia, rievocavano un’epopea di diecimila anni. Già perché tanti furono gli anni vissero indisturbati gli Onas. Credo che anche questo faccia bene sapere, quante possono essere profonde le radici della storia degli uomini. E quanto basti poco per distruggerle, quelle radici.

mercoledì 12 agosto 2009

La Patagonia di Chatwin e quella di Tito

L'altra sera io e Tito Barbini siamo tornati insieme da una presentazione di Caduti dal muro a Pietrasanta. Sarà stato per ingannare il tempo in autostrada, sarà stato per l'ora e il giorno in qualche modo ideali per alimentare l'idea di partenze e distanze: ci siamo avventurati in uno dei più spinosi argomenti che può sollevare la letteratura di viaggio.
Quanto dei paesi reali c'è nelle pagine di uno scrittore? Intendendo: anche dello scrittore più autentico, più sincero con se stesso...
Discussione difficile. Tito a un certo punto mi ha spiegato che la letteratura di viaggio è appunto letteratura, qualcosa di più e di diverso dai diari. Io mi sono avventurato in qualche spericolata affermazione sul senso della realtà: perché il problema non è l'invenzione dello scrittore, la sua possibilità di immaginare e creare; il problema è capire se esiste un paese reale, o se in effetti ogni paese non vada declinato al plurale: tanti paesi quanti gli sguardi delle persone che lo attraversano.
Ogni viaggiatore parte e arriva con il bagaglio delle sue esperienze, delle sue letture, delle sue conversazioni. Anch'io qualche settimana fa ho scrutato gli orizzonti del Baltico aspettandomi le navi vichinghe di mille sogni di ragazzo...
Poi Tito mi ha raccontato della sua Patagonia, che non è affatto la Patagonia dell'uomo che la Patagonia ce l'ha piantata nel nostro immaginario, Bruce Chatwin. Più tardi, tornato a casa, mi ha spedito la pagina di un nuovo libro a cui sta lavorando. Eccola.


Ho sempre presente una foto di Bruce Chatwin, una foto di quelle che descrivono cose che hai già saputo: giovane, single, omosessuale, con le scarpe intorno al collo. Un sorriso dolce ma uno sguardo irraggiungibile, perso verso orizzonti che non ti comprendono.
Bisogna leggere “Anatomia dell’irrequietezza” per viaggiare con Chatwin alla scoperta di Chatwin. Forse in nessun altro libro o articolo è stato cosi vicino a rivelare che cosa stava al fondo del suo essere e della sua inquietudine di camminatore instancabile. Forse, come un uccello migratore, è passato volando sopra le terre immense della Patagonia, forse si è fermato a guardare e descrivere la gente e i posti. I suoi racconti, le sue storie o i suoi schizzi di viaggio sono belli e avvincenti. Eppure io sento, ho dentro di me un’altra Patagonia.
Sono anch’io convinto che “In Patagonia” cambiò radicalmente la concezione del racconto di viaggi. Dopo di lui i viaggi in America del sud, in Africa o in Australia sono stati compiuti dagli scrittori di viaggi con lo stesso orrore del domicilio, la stessa irrequieta erranza e la sua disperata volontà di rompere gli schemi dell’incontro con l’altro, il diverso da te.
Tutto vero e non mi passa nemmeno lontanamente per la testa di muovere un rimprovero a Chatwin, sarebbe da parte mia una presunzione smisurata. Voglio solo dire che la Patagonia che si è incollata al mio animo è diversa da quella descritta da Chatwin. D’altronde Bruce prima di essere un viaggiatore è uno scrittore.
Uno scrittore che in un’intervista azzardò questa dichiarazione: “nessuna pretesa onestà descrittiva vale al punto da sacrificare un dettaglio inventato che migliori la storia”.


 

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