
Dunque, con la canicola di giorni come questi, oggi non ho fatto proprio fatica ad assecondare la mia propensione a rinchiudermi in casa e a fantasticare di viaggi che non farò mai.
Per l'appunto lo sguardo mi è caduto su un articolo - credo di Jean Starobinski - che ricordando la figura di un viaggiatore-fotografo come Nicolas Bouvier si soffermava sull'etimologia dell'inglese to travel, viaggiare.
Forse voi lo sapevate già, io non ho ci avevo mai pensato. To travel ha la stessa radice del francese travail, che sta per lavoro. Esisterebbe un'origine comune, una parola latina di uso non molto frequente, tripalium, che era l'attrezzo con cui si soggiogavano i buoi e gli asini ribelli.
E questo mi ha dato da pensare: perché passando dal francese al latino non c'è solo l'idea di fatica, c'è anche quella di una violenza necessaria (?) per domare, per riportare all'ordine, magari per placare un istinto.
L'articolo non rammentava un'altra parola, questa volta italiana, che aggiunge altri argomenti: travaglio. Parola che associamo alla sofferenza del parto e che almeno si accompagna all'idea di una nascita o di una rinascita.
Scriveva Nicolas Bouvier: "Se non si concede al viaggio il diritto di distruggerci un poco, tanto vale restare a casa".
Allora ho pensato: forse con me tante volte ha prevalso il "tanto vale restare a casa". Leggere di viaggi, immaginarsi viaggi, invece che viaggiare sul serio.
Col tempo, con poche eccezioni, sono diventato un viaggiatore di carta: e mi chiedo se anche voi, di tanto in tanto, non siate caduti in questa tentazione... Perché non si apre una discussione sulle gioie e i dolori dei viaggiatori di carta?