L'estate ha anche questo di bello, che vi sentite più liberi nelle letture e più disposti a inseguire l'istinto o l'intuito piuttosto che le recensioni. In queste giornate indolenti e calde si dissodano meglio i terreni dell'immaginario. Per me vien più facile anche cedere alla nostalgia non dico di libri, ma di atmosfere di quando ero ragazzo: quei pomeriggi di agosto su una sedia a sdraio, un romanzo cappa e spada o un giallo davanti agli occhi, la caraffa di tè freddo a portata di mano.
Ecco l'estate è il tempo in cui è bello abbandonarsi ai libri di genere: e figurarsi quando il libro di genere non solo funziona e fa di tutto per non mollarti più, ma dimostra di essere molto di più di un libro di genere.
Ecco, è questo che è mi è successo con Bull Mountain di Brian Panowich, vincitore di premi nella categoria dei thriller. Beh, lo so bene che c'è thriller e thriller e che è ampio il numero di titoli da classificare semplicemente come ottima letteratura. In questo caso valga come indizio chi lo pubblica in Italia - NNE, la stessa di Kent Haruf e Tom Drury, piccola grande casa editrice che difficilmente sbaglia un colpo. E occhio anche alla biografia dell'autore, che per quanto possa significare non manca di suggestioni. Brian Panowich: musicista e pompiere stelle strisce dai molti talenti, uno di quei tipi che vi aspettate vada in giro con la camicia a quadri e il cappello da cow boy.
Come lui anche Bull Mountain è un libro che richiama l'America profonda, quella di Fargo ma anche di molte pagine di Cormac McCarthy. Qui ci sono meno nevicate e più piantagioni di marijuana, meno orsi e più passioni nere. E' la saga di una famiglia attraverso tre generazioni, all'ombra di una montagna che sembra una Tortuga americana, territorio senza ordine nè legge, repubblica indipente del crimine. Ma è anche un romanzo sulle ragioni e i torti del sangue, sulla voglia di riscattare il passato e sul passato che ostinatamente ritorna, su un presente che non è mai davvero ciò che che si presume sia.
Armi, droga, tradimenti, come in tanti altri libri. Però Bull Mountain non è come tanti altri libri. Da leggere, in questa estate rovente. Per tuffarsi nell'America che anche quando è così nera non smette di tentarci.

Ecco, è questo che è mi è successo con Bull Mountain di Brian Panowich, vincitore di premi nella categoria dei thriller. Beh, lo so bene che c'è thriller e thriller e che è ampio il numero di titoli da classificare semplicemente come ottima letteratura. In questo caso valga come indizio chi lo pubblica in Italia - NNE, la stessa di Kent Haruf e Tom Drury, piccola grande casa editrice che difficilmente sbaglia un colpo. E occhio anche alla biografia dell'autore, che per quanto possa significare non manca di suggestioni. Brian Panowich: musicista e pompiere stelle strisce dai molti talenti, uno di quei tipi che vi aspettate vada in giro con la camicia a quadri e il cappello da cow boy.
Come lui anche Bull Mountain è un libro che richiama l'America profonda, quella di Fargo ma anche di molte pagine di Cormac McCarthy. Qui ci sono meno nevicate e più piantagioni di marijuana, meno orsi e più passioni nere. E' la saga di una famiglia attraverso tre generazioni, all'ombra di una montagna che sembra una Tortuga americana, territorio senza ordine nè legge, repubblica indipente del crimine. Ma è anche un romanzo sulle ragioni e i torti del sangue, sulla voglia di riscattare il passato e sul passato che ostinatamente ritorna, su un presente che non è mai davvero ciò che che si presume sia.
Armi, droga, tradimenti, come in tanti altri libri. Però Bull Mountain non è come tanti altri libri. Da leggere, in questa estate rovente. Per tuffarsi nell'America che anche quando è così nera non smette di tentarci.
Dopo una notte piuttosto agitata, come può capitare a normali adolescenti di normali famiglie che abitano in normali quartieri, Cinthya si sveglia in una casa dove il silenzio fa più rumore di qualsiasi trambusto: tutta la sua famiglia - genitori e fratello - è svanita nel nulla.
Da allora sono trascorsi 25 anni e le indagini sono rimaste ferme al palo: una di quelle vicende che in America archiviano come cold cases, casi per cui non vale più spendere energie, a meno di improbabili sorprese di essi rimarrà solo qualche faldone in magazzino, un certo numero di file nel computer e un ricordo che sbiadisce.
Un quarto di secolo e tutto comincia ora, e prosegue per 370 pagine tese come corde di violino. Senza dirsi addio di Linwood Barclay (Piemme edizioni) è assai più di un thriller - e peraltro rispetto a parecchi thriller manca di diversi luoghi comuni, tipo investigatori tutti di un pezzo, bionde micidiali, storie di letto e simili.
Ma quante cose che ci sono in questo libro, che racconta di ferite nel cuore che non è possibile rimarginare, di persone come fantasmi che sbucano dal passato, di incubi che non si scacciano con una dose doppia di tranquillanti.
Non sarà grande letteratura - o forse sì, chi può giudicare - ma che bello tuffarsi in un libro che non avrei mai richiuso fino alla fine, non fosse che non ho più il fisico per arrivare all'alba una pagina dopo l'altra.